martedì 11 maggio
Auditorium del Lingotto
ore 20.30
I Concerti del Lingotto
Sächsische Staatskapelle
Dresden
Zubin Mehta
direttore
Rudolf Buchbinder
pianoforte
Brahms
Concerto n. 2 per
pianoforte e orchestra
op. 83
R. Strauss
Also sprach Zarathustra
sistemamusica
associazionelingottomusica
22
S
e entri nel camerino di Zubin Mehta durante
l’intervallo di un concerto o di un’opera lo trovi,
dieci volte su dieci, seduto su un divano, o su una
semplice sedia, con una partitura sulle ginocchia. E
se butti un occhio sulle pagine aperte le vedi attra-
versate da una tempesta di segni rossi e blu, larghi
come coltelli, che uniscono frasi, allungano pau-
se, congiungono strumenti o sottolineano accordi.
Una specie di diario esecutivo, privatissimo e per-
sonale, e al tempo stesso un poderoso, coloratissi-
mo
rappel à la memoire
. Del quale Zubin sembra
aver bisogno sempre, a ogni istante, anche quando
dirige per la ventesima volta la
Quarta
di Brahms
o
La traviata
. Strano, per uno come lui, che sul po-
dio sale quasi sempre senza partitura, che è capace
di dirigere il
Ring
di Wagner a memoria. E se gli
chiedi perché, allora, un minuto prima e un minuto
dopo l’esecuzione senta la necessità di tornare dal
suono al segno, di risalire alla “lettera” della musi-
ca scritta, lui ti risponde, candidamente, che non
lo sa di preciso, che lo fa istintivamente, come se
avesse bisogno di bere o di mangiare…
E se tu stupidamente insisti e aggiun-
gi: «Ma non è una forma di analisi
della partitura, un modo per indivi-
duare con precisione i dettagli essen-
ziali?», lui allora ti pianta addosso i
suoi occhi incendiari, sorride, me-
scolando alla sorpresa un indulgente
compatimento, e dice: «Analisi? Ma
la musica non è mica una sostanza
chimica che va analizzata. Bisogna
solo ascoltarla…».
Analisi, istinto, memoria. Per attra-
versare il flusso torrenziale della car-
riera interpretativa di Zubin Mehta
senza esserne travolti occorre ag-
grapparsi all’albero maestro di que-
ste tre parole. E non è detto che sia
sufficiente… Sin dai tempi dei suoi
esordi, quando preferiva affrontare
i classici del Novecento piuttosto
che quelli dell’Ottocento, il gesto
di Mehta è sempre stato “analiti-
co”: una frase dei clarinetti che
non avevi mai sentito prima, un
inciso delle tube che sembrava
sepolto nel mare magnum dell’or-
Zubin Mehta
Il gesto danzante del
“viennese di Bombay”
di Guido Barbieri
chestra, un basso intonato dai violoncelli che svela
un contrappunto nascosto… Non l’analisi “integra-
le” e sistematica di Abbado, per intenderci, bensì
un’analisi “locale”, circoscritta, che tende a isolare
il dettaglio dall’insieme. Ma che cosa porta il “vien-
nese di Bombay” a cercare nel generale il partico-
lare? Il gusto della decorazione, la ricerca dell’in-
visibile, la sensibilità per le minuzie? No, l’esatto
contrario. Se si riflette ad esempio sul
Ring
di Firen-
ze e di Valencia si scopre che la forza della concer-
tazione non sta nella varietà, bensì nell’unità della
lettura. Nel Wagner di Mehta, per dirla in modo
più chiaro, non ti impressiona certo la ricchezza
delle dinamiche: le sue orchestre, di solito − e ci
sono circa centocinquanta incisioni a dimostrarlo
− suonano entro un
range
dinamico piuttosto ri-
stretto. E non ti colpisce nemmeno la flessibilità dei
tempi: nell’opera, in particolare, l’agogica di arie e
concertati è sempre tendenzialmente uniforme. E
allora qual è il segno distintivo, la marca persona-
le? Da Schoenberg a Stravinskij, da Berlioz a Verdi,
da Wagner a Brahms ciò che non muta davvero
mai nel gesto di Mehta è la prodigiosa capacità di
radunare tutti i parametri esecutivi sotto un unico
ombrello, quello di una solida, rassicurante, grani-
tica “visione d’insieme” della partitura. Il che con-
sente, in corrispondenza degli snodi strutturali del
discorso, l’emersione improvvisa, sorprendente,
quasi “liberatoria”, dei dettagli più appariscenti. Un
esito, questo, che non deriva affatto da un’astratta
volontà progettuale, ma al contrario da una istinti-
va capacità di “appercezione” dell’opera, da una
visione simultanea e sintetica di ogni componente
sonora.
Nel gesto semplice, ampio, confidenziale di Mehta,
però, la propensione per l’analisi locale e l’istinto
per la visione d’insieme sarebbero solo facoltà iner-
ti se non venissero governate da una presenza co-
stante, innervante, vitale che corre, a volte in ma-
niera esplicita, a volte seguendo percorsi carsici,
sotto ogni interpretazione: la memoria della danza.
C’è danza in ogni misura, in ogni frase, in ogni aria,
in ogni concertato, della “grande partitura” aperta
sul leggio di Zubin: la danza viennese, naturalmen-
te, cibo terrestre del sinfonismo classico-romantico,
ma anche l’antica danza rituale dell’India nativa,
cibo infantile del giovane direttore indigeno non
ancora avviato lungo i sentieri dell’Occidente.
Rispetto a
quanto indicato nel
calendario dei
Concerti del Lingotto
,
il maestro Zubin Mehta
sostituisce Fabio Luisi
con il conseguente
cambio di programma.