L'idea
di questa mostra è nata da un'osservazione di Guido Gentile,
già soprintendente archivistico per il Piemonte e la Valle
d'Aosta, uomo la cui curiosità intellettuale si esercita
nei campi più disparati, che raccontava di essersi accinto
a contare i cani raffigurati nelle tavole del Theatrum Sabaudiae,
ma di aver desistito giunto a quota 168. Incuriositi, anche noi
ci siamo messi a contarli scegliendo come punto di partenza le
tavole più animate che restituiscono un'immagine palpitante
ed efficace della vita cittadina, oltre a testimoniare le realizzazioni
architettoniche e urbanistiche che i duchi di Savoia volevano
far conoscere agli altri sovrani europei. Ben presto ci siamo
resi conto che non solo i cani, raffigurati accanto ai padroni,
vaganti soli o a gruppi per la città, ripresi nell'atto
di abbaiare, di scodinzolare o alla ricerca del cibo, sono innumerevoli
ma che altrettanto numerosi sono i cavalli, montati da signori
o attaccati a carrozze, gli asini che trasportano carichi,
i branchi di oche, di pecore, di capre.
Abbiamo rilevato quanto dovesse essere ingente la presenza degli
animali in una città in fase di transizione, caratterizzata
da forti sopravvivenze di tipo rurale, impressione ulteriormente
avallata dall'analisi delle incisioni della Collezione Simeom
che ritraggono Torino nel periodo compreso tra Seicento e Ottocento,
anch'esse ricche di presenze animali.
A questo punto ci siamo chiesti se e come l'amministrazione della
città si fosse posta nei confronti di questa folla di
animali. E' iniziata così una ricerca condotta in varie
serie e fondi archivistici e articolata seguendo alcuni temi
fondamentali: l'utilizzo degli animali per l'alimentazione (la
caccia e l'allevamento), per il lavoro (i trasporti), lo svago,
il divertimento e l'interesse scientifico (di nuovo la caccia,
gli spettacoli ambulanti, le menagerie e i giardini zoologici),
la normativa sui cani, le questioni igienico-sanitarie.
Sulla caccia la normativa rivela principalmente l'intento di
preservare le riserve venatorie del sovrano, pur non tralasciando
direttive più generali volte a limitare l'attività
soprattutto in alcuni mesi dell'anno, fatta eccezione per i lupi,
contro i quali la lotta è sempre stata consentita con
ogni mezzo. La ricerca sulla legislazione relativa all'allevamento per l'alimentazione
umana s'è rivelata altrettanto ricca
e sorprendente, se si considera che il legislatore del Sei e
Settecento, che interveniva in occasione delle ricorrenti epizoozie
che flagellavano il patrimonio zootecnico della regione, non
si limitava a emanare direttive sugli spostamenti e i commerci,
ma dettava cure e rimedi al punto da trasformare gli editti in
veri e propri prontuari di medicina veterinaria. Dalle carte
del Vicariato, l'ufficio che fino al 1848 assommava svariate
competenze, fra cui l'igiene e la sanità, e da quelle
successive del fondo Affari Polizia è inoltre emersa un'abbondante
documentazione che attesta il permanere dell'uso di allevare
ovini, bovini e suini nel centro cittadino.
Ma è sui cani che la nostra indagine ha individuato maggiori
spunti di approfondimento. Fino al Settecento essi sono presi
in considerazione dalla normativa solo in rapporto alla violazione
delle riserve reali e per tutelare i cani da caccia di sua maestà.
Solo dalla fine del secolo compaiono i primi provvedimenti che
ordinano l'abbattimento dei randagi per timore della trasmissione
della rabbia. Dapprima si tratta di interventi sporadici,
che tra il 1847 e la metà degli anni cinquanta diventano
numerosissimi. Il Consiglio comunale torinese si mobilita, istituisce
una tassa sul possesso dei cani molto elevata e bandisce una
campagna di avvelenamento di quelli senza padrone. Se dai discorsi
degli amministratori il problema della rabbia appare un'emergenza
di dimensioni catastrofiche, le cifre ufficiali pubblicate dal
Consiglio comunale stesso, dall'Annuario Statistico del Municipio
e dai resoconti dell'Ufficio d'Igiene ridimensionano decisamente
il fenomeno. Come spesso accade, si era scatenata una crociata
fuorviante, capace solo di diffondere il panico tra la popolazione,
e che trova spiegazione nell'atteggiamento di rifiuto di un animale
in quel momento considerato inutile, non avendo più precise
mansioni da assolvere come in passato allorché era indispensabile
per badare alle greggi o far la guardia alle cascine. Il terrore
per la rabbia continua per decenni, eppure nella lotta a questa
malattia Torino si distingue con la fondazione del primo istituto
antirabbico italiano, creato grazie alle capacità di un
medico, Guido Bordoni Uffreduzzi, e alla lungimiranza del sindaco,
Ernesto Balbo Bertone
di Sambuy, e del consigliere comunale Giacinto Pacchiotti.
Poiché questa, come la maggior parte delle mostre storiche,
è una mostra da leggere ancor più che da guardare,
i documenti esposti non sono che un invito ad addentarsi nella
materia, che è più diffusamente trattata nel catalogo
grazie alla trascrizione integrale di numerosi documenti di tipologie
diverse (editti, manifesti, verbali degli organi rappresentativi,
relazioni, lettere dei cittadini ecc.), ordinati cronologicamente
al fine di testimoniare i mutamenti della normativa, degli atteggiamenti
culturali e dei comportamenti nell'evolversi della società.
|