Se è vero che pane, vino e carne erano essenziali per
l'alimentazione umana, è altresì vero che le città
mettevano a disposizione dei consumatori un vasto assortimento
di merci di ogni genere, tale da soddisfare tutti i gusti e tutte
le esigenze, nonostante che, per gran parte della popolazione,
il regime alimentare si rivelasse in genere poco variato, improntato
com'era al consumo dei cereali e di un esiguo numero di derrate
supplementari, i cui prezzi erano, in genere, calmierati.
Fra questi vi era anzitutto il burro, che si vendeva nella piazzetta,
detta Corte del burro, a fianco del Municipio e proveniva in prevalenza
dalle valli di Susa, di Lanzo e dall'alto Canavese. In tali valli
avevano privativa d'acquisto i valligiani e secondariamente i
fornitori del mercato di Torino ufficialmente riconosciuti, mentre
i rivenditori della capitale dovevano rifornirsi direttamente
sul mercato torinese.
Il prezzo calmierato o "tassa" cui il burro doveva essere
venduto nella capitale veniva fissato ogni settimana dal vicario
in base alla "comune" dei prezzi del prodotto sulle
piazze di Lanzo e di Cuorgnè, da cui si attingeva gran
parte del burro commercializzato a Torino. Il costo poteva cambiare
in relazione alla zona di provenienza. Nel 1716, ad esempio, la
tariffa dei prezzi di vendita dei prodotti soggetti a tassa conteneva
tre diverse voci: "butirro di Lanzo Alpi" e "butirro
di Cuorgnè", che andavano venduti a soldi 6 la libbra
(pari a kg.0,368), "butirro delle cassine" a soldi 7
e denari 683.
Il formaggio invece non era soggetto a "tassa" e veniva
condotto sui mercati della capitale, e principalmente in piazza
delle Erbe, da fornitori che lo acquistavano nei centri di fondovalle
(Susa, Lanzo, Cuorgnè, Pont) o direttamente dai produttori.
Ne portavano poi quantità considerevoli i commercianti
all'ingrosso, che contrattavano alla fonte i formaggi piacentini,
lodigiani, savoiardi e svizzeri, particolarmente graditi al palato
dei torinesi. Il consumo di formaggio doveva essere molto elevato,
se si pensa che nella sola piazza delle Erbe erano più
di trenta le bancarelle che vendevano tal genere di derrate, che
ve n'erano altrettante tra piazza Susina e piazza Carlina, senza
contare le numerose botteghe presenti in città.
Tuttavia, anche per il formaggio, come per pochi altri generi
alimentari soggetti a calmiere - olio di noci e di oliva sostanzialmente
-, valevano le solite privative sul mercato fino a mezzogiorno
riservate ai consumatori e le norme stabilite per il commercio
al dettaglio in città.
Per le derrate a prezzo libero vigeva poi la regola che non dovessero
essere vendute a un costo del 10 per cento superiore al giusto,
valutabile in base alla qualità e al valore corrente del
prodotto. Ma, com'è facile immaginare, una norma tanto
vaga e opinabile era destinata a rimanere nell'ambito dei buoni
propositi.
Prezzi prefissati e controllati rigorosamente erano invece disposti
per le candele di sevo, per la legna e il carbone, per il fieno
e la paglia, il cui mercato si tenne in un primo tempo in piazza
Castello, poi in piazza San Carlo e più tardi dinanzi alla
Cittadella. Qui, il perito della città provvedeva a selezionare
le diverse qualità (per la legna si distingueva tra rovere,
verna e albera) e a fissarne i prezzi. I consumatori avevano la
privativa sul mercato torinese, mentre i rivenditori erano ammessi
alle contrattazioni dopo mezzogiorno e potevano rifornirsi liberamente
fuori Torino, ma non dai "postieri" diretti al mercato
torinese. Legna e carbone rimasti invenduti sulla piazza della
Cittadella non potevano essere esportati; erano acquistati dalla
municipalità e accumulati nei magazzini.
Com'è facile intuire, legna e carbone erano utilizzati
per la cottura dei cibi, oltre che per il riscaldamento delle
case. Il costo di tali merci influiva non poco sulle condizioni
di vita dei torinesi. Nell'impossibilità di rifornirsi
a sufficienza, i meno abbienti sceglievano per lo più di
riscaldarsi e di evitare per quanto possibile la cottura degli
alimenti, preferendo acquistare cibi già cotti. A indurli
a ciò erano anche le condizioni abitative dei più
poveri. La coabitazione in spazi ridotti, il pessimo stato dei
camini, il timore degli incendi consigliavano di ridurre al minimo
le operazioni di cottura dei cibi.
Venditori ambulanti di zuppe, polente e frittelle erano presenze
costanti nel panorama urbano. A questi si aggiungevano i numerosi
venditori di avanzi, provenienti dalle dimore dei potenti, che
offrivano una scelta ampia di cibi per tutte le borse.
E se nelle vie più eleganti della città facevano
bella mostra di sé botteghe che vendevano prodotti di lusso
(confetti e cioccolato, té, caffè e spezie pregiate)
per le fasce più ricche della popolazione, nelle strade
e nelle piazze non mancava mai l'inconfondibile figura della venditrice
di frutta e verdura che ogni giorno giungeva dalla vicina campagna
portando un cesto pieno di prodotti e, sfuggendo ai controlli
dei gabellieri e della polizia urbana, andava a portare i freschi
frutti del suo orto direttamente alle dimore dei ricchi o li offriva
alle semplici massaie dirette al mercato.
53 Antonio Maria Stagnon, Magdelon. Bergère
des environs de Turin, incisione in rame acquerellata in Recueil
général […], circa 1785, tav. 10
(ASCT, Collezione Simeom, D 1990). |