«I Frutti artificiali si fanno con polvere d’alabastro sciolta nella cera e nel mili e nella gomma damar i quali restano duri come pietre bianchissimi nel spacarli cioé facendoli in due ed inalterabili anche al calore. Scoperta del 5 marzo 1858 in un sogno nella stessa notte (…) così che spero poco per volta ritrovare il metodo d’imitarli che riescirano inconoscibili dai veri. Francesco Garnier» (in: F. Garnier Valletti, Raccolta di ogni sorta di segreti e Ricette le più importanti e necessarie).
Così, Francesco Garnier Valletti rivelò la scoperta della nuova e originale tecnica con cui sostituì la cera, che fino ad allora aveva costituito la materia principale per la riproduzione dei frutti. Nel corso del tempo continuò a perfezionare la questa formula che volle sempre tenere segreta e che fu divulgata, a due anni dalla sua morte, da Michele Del Lupo, nel Manuale di pomologia artificiale, pubblicato da Hoepli nel 1891.
La ceroplastica e il modellismo pomologico avevano avuto illustri precedenti in Italia (in particolare in Toscana) e nel resto dell’Europa dalla metà del Settecento in poi, con sporadiche testimonianze precedenti che, oltre a scopi puramente decorativi, servivano di supporto all’insegnamento scientifico. Altri materiali utilizzati dai ceroplasti erano il papier maché, con cui furono realizzati, non solo il modello sinottico di bruco di baco da seta presentato nel Museo, ma anche la statua anatomica in cartapesta esposta nel vicino Museo di Anatomia umana “Cesare Rolando”, entrambi prodotti dall’officina del Dr. Auzoux di Parigi.
Le novità della nuova tecnica consistevano, non solo nella materia (che variava anche a seconda del tipo di frutto da imitare), malleabile a caldo e, tuttavia, una volta raffreddata, estremamente resistente e durevole, ma anche nella tecnica che consentiva di utilizzare più volte lo stesso stampo per produrre così oggetti seriali che, derivando dal calco di un frutto vero, risultavano infine perfette imitazioni di quelli naturali.
Il corpo dei frutti era costituito da una resina, la colofonia, miscelata con cere naturali e gesso. La superficie era formata oltre che da colofonia e cera, anche da dammar, una resina molto usata a partire dalla metà dell’Ottocento nella fabbricazione delle vernici pittoriche.
Le analisi chimiche effettuate in occasione degli interventi di restauro e manutenzione hanno evidenziato anche, fra l’altro, la presenza di solfato semidrato e di cenere.