Nel
corso dell'Ottocento il commercio al minuto occupa spazi sempre
più rilevanti della città trasformando radicalmente
l'ambiente urbano. Per secoli esso era stato considerato una fonte
di disturbo e di disordine. Le vie in cui si concentravano le
botteghe erano rumorose e caotiche, ingombre di merci esposte
sui banchi posti all'aperto. L'arredo era essenziale, le insegne
che riproducevano sommariamente l'immagine dell'oggetto venduto
erano realizzate da mastri da bosco, fabbri, decoratori secondo
modelli ripetitivi e impiegando materiali poco pregiati, funzionali
ma molto lontani da preoccupazioni di tipo estetico. I progetti
architettonici dei palazzi, fino a tutto il Seicento, non tengono
in alcun conto degli esterni delle botteghe; la situazione muta
nel corso del Settecento, come è testimoniato dall'editto
per il drizzamento della contrada di Dora Grossa, con il quale
il sovrano dichiara la via, una delle principali arterie della
capitale in trasformazione, "primariamente destinata per
li negozianti, e mercatanti più riguardevoli, cioè
d'oro, d'argento, di seta, di panno, di tele, et altri di simile
condizione". Il commercio, da ingombrante necessità,
si trasforma in fonte di lucro per i proprietari di immobili:
poiché destinare il piano terreno a botteghe garantisce
una rendita sicura, fin dalla progettazione degli edifici spesso
si provvede a disegnare decorazioni per lo zoccolo commerciale
che richiamano le cornici degli androni e dei passi carrai.
Nella prima metà dell'Ottocento, tuttavia, secondo la testimonianza
di Vittorio Bersezio (I miei tempi, Torino, 1931), "le botteghe
avevano una modesta semplicità... non avevano né
vetrine, né lucide insegne, né merci in mostra,
né splendore di specchi, né indorature, né
eleganze di mobili, né sfolgorio d'illuminazione... Facevano
eccezione a quella modestia i caffè e le confetterie, che
presentavano all'avventore volte riccamente dipinte, pareti artisticamente
stuccate, ampi specchi a cornici dorate, sofà e seggiole
coperti di velluto". Bisogna attendere la seconda metà
del secolo per assistere alla trasformazione radicale del commercio
al minuto. Il segnale più significativo del cambiamento
è l'introduzione della devanture, il blocco che comprende
in un unico organismo insegna, pannelli verticali, bacheche, vetrine,
e segna il passaggio dalla bottega di matrice ancora medievale
al negozio di concezione moderna.
Dell'impatto con la nuova realtà l'amministrazione comunale
tiene conto con specifiche norme ribadite a partire dal 1843 a
tutela della " maggiore salubrità, decoro e vaghezza"
dell'ambiente urbano. Il regolamento edilizio del 1843 prescrive
per le nuove costruzioni che "le serraglie e le imposte delle
botteghe... più non si aprano al di fuori del muro esteriore
delle case. Quind'innanzi - continua- non si concederà
più alcun permesso per collocare contro le botteghe e camere
del piano terreno bacheche, ossia gioielliere, e mostre, vetrate,
banchi, tavolati e telai a coprimento delle imposte, oltrepassanti
il filo esteriore dei muri delle case verso contrade, piazze ed
altre vie pubbliche". Si intima inoltre che "i banchi,
cesti e simili, ora esistenti sovra i marciapiedi, dovranno essere
tolti prima della scadenza del corrente anno... Neppure è
lecito di esporre al pubblico insegne od iscrizioni senza permesso
del Vicario" le quali "non si possono fare sul nudo
muro, ma solamente sovra puliti quadri di proporzionata grandezza,
e di uno sporto non maggiore di centimetri 25 dal muro".
Preoccupato non solo del decoro, ma anche della correttezza ortografica
e grammaticale, l'estensore delle norme prosegue "non si
può sovra le insegne fare iscrizioni diverse da quelle
che saranno tenorizzate nella carta di permesso, ed è vietato
di farvi variazioni, abbreviature od aggiunte".
I disegni dei progetti relativi alle licenze richieste per insegne
e facciate di botteghe, presentate nella seconda metà dell'Ottocento
sulla scorta di tale normativa, sono confluite presso l'Archivio
Storico della Città di Torino e sono tuttora conservate
in 11 album che, pur con lacune, forniscono importanti informazioni
sulla realtà commerciale dell'epoca. Tali progetti sono
molto diversificati dal punto di vista qualitativo: mentre nella
maggioranza dei casi gli autori sono minusieri che ripetono senza
eccessiva fantasia modelli precostituiti, per gli esercizi di
maggior prestigio (farmacie, oreficerie, liquoristerie), il disegno
della devanture è affidato ad architetti e ingegneri. L'elemento
di maggior spicco della composizione risulta quasi sempre l'insegna,
dove la fantasia e la creatività degli autori ha libero
sfogo nella ricerca di motivi decorativi accattivanti e talvolta
insoliti.
Il patrimonio dell'Archivio Storico annovera però anche
altri documenti che forniscono una testimonianza straordinaria
sulle botteghe torinesi e al tempo stesso sulla vita, le abitudini,
il gusto, la moda, la società del tempo: si tratta delle
fatture commerciali provenienti in parte da raccolte private,
(in numero ridotto dalla Collezione Simeom, ma soprattutto dalla
Collezione Falzone del Barbarò, recentemente pervenuta
per lascito testamentario), in parte acquistate sul mercato antiquario.
L'uso della fattura commerciale illustrata si diffonde a Torino
a metà dell'Ottocento, importata dalla Francia. Dapprima
greche e ghirlande geometriche incorniciano il nome e la ragione
sociale della ditta, ma ben presto la grafica si evolve includendo
vere e proprie incisioni che riproducono con dovizia di particolari
le facciate delle botteghe con le merci esposte, interni di negozi
e laboratori artigiani, colorite scene di vita quotidiana, difficilmente
reperibili nell'iconografia ufficiale. Non sempre compare il nome
dell'autore: a seconda del livello dell'esercizio commerciale,
la realizzazione della carta intestata poteva essere affidata
a ditte affermate, (i fratelli Doyen, Benedetto Marchisio, Carlo
Verdoni), oppure a piccoli stampatori rimasti anonimi. Stampata
su carta bianca o colorata, la carta intestata è di fatto
la prima forma di pubblicità commerciale.
L'inserzione della réclame negli spazi a pagamento dei
giornali e delle guide della città si afferma più
tardi: essa compare per la prima volta nella guida di Guglielmo
Stefani e Domenico Mondo Torino e i suoi dintorni, pubblicata
nel 1852; nel 1869 Giuseppe Galvagno introduce un inserto di sottili
pagine gialle fitte di annunci commerciali nella sua Guida generale
illustrata, ma solo a partire dal 1878 la prassi si consolida
e la rassegna pubblicitaria in appendice diventa consuetudine
nelle guide Marzorati-Paravia. |