La civiltà delle orchestre
P
otrebbe essere un massacro. Se si pensa alle differenze tra
gli strumenti, ai contrasti fonici, alla diversa provenienza dei
professori, ogni performance di una grande orchestra avrebbe gli
ingredienti necessari per risolversi in una lotta all’arma bianca.
Indipendentemente dalla presenza di un direttore, gli sgarbi, i
dispetti, i tranelli ma anche più semplicemente le diverse pronunce,
i diversi accenti, i diversi modi di pensare a una frase potrebbero
portare al caos costante.
E pensate all’opera, quando a tutto questo si aggiungono le voci,
ognuna con la propria personalità, di solito spiccata, che potrebbe
trasformarsi in un micidiale detonatore per litigi furibondi.
Invece la musica per grande orchestra e l’opera rappresentano la
musica classica per antonomasia, quella che anche i non praticanti
sanno riconoscere, quella che va in onda alla radio e ogni tanto
persino in televisione, accompagnata dal suo essere rassicurante,
rotonda, armoniosa. Priva di pericoli.
Ecco, mi sta venendo in mente che forse questa rappresentazione
così evidente di collaborazione con il diverso, questo esempio così
concreto, scientifico, ripetibile di come sia dagli opposti che nasca la
meraviglia, di come un violino e un trombone possano lavorare bene
a uno stesso disegno (cioè: alla stessa partitura), un po’ di paura la
possa fare. Comincio a sospettare che sostenere le orchestre e i teatri
d’opera, per una nazione, significhi dare spazio a un’utopia, a un’idea
di mondo, a un progetto sociale che può persino spaventare, tanto è
bello, riuscito. Ho insomma sempre più il dubbio che la musica non
sia solo un modo astratto per pensare ma rappresenti in modo tangibile
una possibilità per creare energia dalle differenze, per generare
bellezza riunendo gli opposti e facendone un punto di forza.
Non so se un paese diviso come il nostro abbia voglia di
accorgersene, ma scrivere, suonare, ascoltare musica che riunisce
decine di artisti è uno strepitoso esercizio di civiltà, un esperimento
– ogni volta riuscito – di come si debba andare in cerca dell’altro
per unirsi a lui e dare energia a se stessi. Sarebbe bellissimo se
si puntasse proprio lì, sulla musica, per progettare il futuro. Se si
considerassero le orchestre e i teatri d’opera come risorse anche
sociali, civili, perché volute, sostenute, amate per quello che
rappresentano ed evocano, oltre che per la bellezza che diffondono.
Non credete?
Editoriale
Nicola Campogrande