Sistema Musica - Ottobre 2014 - page 3

Editoriale
Nicola Campogrande
P
rovo una grande simpatia per chi si mette a
studiare uno strumento in età adulta. A volte si tratta di
pensionati che finalmente hanno tempo per dedicarsi al
violoncello; altre volte sono lavoratori che scelgono il
part-time per poter suonare il clarinetto ogni pomeriggio;
altre volte ancora gli studenti sono professionisti di grido
che sfidano la fatica di giornate lunghissime per ricavare
mezz’ora di esercizio al pianoforte.
Fanno benissimo.
Non solo perché si divertono, si emozionano, si mettono
alla prova – e per inciso dimostrano una volta di più che
la musica si può avvicinare con successo a qualsiasi età.
Fanno benissimo perché acquisiscono una consapevolezza
fisica, reale, di che cosa significhi
fare musica
.
Il che cambia tutto.
Quando si ritrovano ad ascoltare un concerto, infatti,
coloro che sono abituati a tenere in mano uno strumento
accedono a un livello percettivo diverso.
Chiamiamolo semplicemente empatico, benché gli studi
sui neuroni-specchio forse andrebbero più in profondità.
E non diamogli il significato che non ha – chi suona non
è più abile di chi non suona nel seguire la forma di una
Sonata di Brahms o nel cogliere le citazioni contenute
nel
Grand Macabre
di Ligeti.
Ma è indubbio che c’è un vibrare del corpo, un
formicolare delle mani, un sincronizzarsi del respiro
che anche chi semplicemente prova a suonare si
ritrova addosso quando ascolta la performance di un
professionista.
A me non sembra una cosa da poco, e, quando sogno la
sala da concerto perfetta, la riempio di appassionati che
almeno un po’, a casa loro, suonano (o cantano).
Sbaglio?
Studiare da grandi
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