ARCHIVIOTorino non cambiare di Francesca Paci (La Stampa
11/10/02)
Per i cinquant´anni del centro
culturale francese di Torino, nel 2003, il direttore
Philippe Hardy progetta una nuova sede.
Dalle finestre al primo piano dell´ufficio di via Pomba
23, guarda oltre il cortile del condominio ottocentesco
dove gli studenti ripassano le frasi imparate a lezione
col dizionario stretto al petto, e vede Porta Palazzo.
Il prossimo mezzo secolo d´attività Hardy l´immagina
nel cuore del quartiere «dove vivono la maggior parte
di quelli che parlano francese in città», gli immigrati.
A dicembre la Satti, la società dei trasporti extraurbani,
svuoterà gli uffici nella vecchia stazione Torino Ceres
di corso Giulio Cesare e lo spazio sarà libero. Regione
e Comune, confida Hardy, «si sono detti interessati
al nostro trasferimento». Col via libera di sindaco
e governatore, l´approvazione dell´ambasciata di Roma,
l´edificio potrebbe essere pronto in due anni: cinema,
biblioteca, stanze per i quindici impiegati e gli insegnanti,
aule grandi «perché quelle attuali non bastano più a
contenere la domanda», un bar-ristorante.
Detta così, sembra un´impresa complessa, ma la struttura
non ha bisogno di restauri radicali e il direttore,
appassionato d´arte contemporanea ed esperto d´architettura
post-industriale, conta di far rientrare affitto e lavori
nel budget disponibile per la sede di via Pomba. Un
trasloco indolore. «La realtà urbana sta cambiando e
il Centro di cultura francese non può restare indietro».
Philippe Hardy è arrivato a Torino tre anni fa, dopo
Costa Rica, San Francisco, un lungo periodo in Olanda.
Dal paese dei tulipani ha riportato la passione per
la serietà calvinista, «virtù che riconosco e apprezzo
nell´understatement torinese», l´esperienza d´una tolleranza
passata dai libri di Erasmo da Rotterdam ai «coffee
shop» lungo i canali di Amsterdam, una compagna appassionata
di cucina orientale che l´ha introdotto al mercato meticcio
di Porta Palazzo.
La riflessione sulla capitale piemontese inizia tra
i banchi di ciliegie targate Pecetto e carne halal,
macellata secondo l´uso musulmano, e finisce al nuovo
spazio espositivo Sandretto Re Rebaudengo
in zona San Paolo, sul tetto del Lingotto dove lo «Scrigno»
disegnato da Renzo Piano custodisce i capolavori della
collezione Agnelli, a Rivoli. Tutte le sere, tornando
a casa a piedi, Philippe Hardy misura «la distanza che
separa mondi incomunicabili della città». La realtà
cambia. Il direttore sfoglia l´elenco degli iscritti
ai corsi di lingua, non ci sono cognomi doppi, tripli,
avanzi di titoli nobiliari. Il target va aggiornato:
«Cinquant´anni fa erano i figli dell´aristocrazia piemontese
a studiare il francese, lo parlavano in casa, nei salotti,
un vezzo d'élite. Oggi i nostri studenti sono imprenditori,
commercianti, gente che lavora con Parigi e Marsiglia
e ha bisogno d´imparare a parlare in sei mesi, poca
letteratura e tanta pratica». Poi ci sono gli immigrati,
in maggioranza francofoni. Sostiene Hardy che «la cultura
deve dialogare dove c´è vita vera». L´alternativa è
il monologo.
Così, segue con interesse gli sviluppi di «The
Gate», il progetto europeo che, coinvolgendo
partner pubblici e privati, ha scommesso sulla rivalutazione
del quartiere di Porta Palazzo. Con la nuova sede del
Centro culturale francese nell´ex stazione Ceres, il
bar-ristorante a base di zuppa di cipolle e vini Bordeaux
illuminato fino a tardi, le vecchie pellicole del comico
Jacques Tati, «corso Giulio Cesare diventerebbe una
strada aperta allo scambio tra chi vive nei vicoli e
quelli che vanno a trascorrere una serata». Funzionerà?
Le strade intorno al Balon riproporranno la formula
vincente del Quadrilatero romano senza spingere gli
immigrati che oggi ci abitano in un nuovo ghetto solo
un po´ più in periferia? Il segreto è immaginare il
quartiere un laboratorio. Sentite Hardy: «La forza di
Torino è da sempre la capacità di guardare avanti, sperimentare,
investire nella ricerca, cinema, arti visive, tecnologia».
Prendete la musica: tre anni fa, l´ex capitale delle
canzonette diffuse dagli studi radiofonici Eiar ha battezzato
Vitaminic, il gruppo da 600 miliardi di lire che distribuisce
contenuti musicali in Rete. Il futuro. Eppure, dall´inaugurazione
del centro d´arte contemporanea Sandretto Re Rebaudengo
al battesimo della Pinacoteca del Lingotto, molti si
dicono stanchi di questo ruolo sperimentale: una sorta
di cucina dove si preparano piatti da esibire poi nei
saloni scintillanti di Roma, Venezia, Napoli, Milano.
Il direttore del Centro di via Pomba ha un´opinione
diversa: «La città funziona bene come fucina? Non è
forte nell´autopromozione? Inutile allora, disperdere
energie per farne uno spazio espositivo».
Tanto vale potenziare l´officina: aprire i quartieri
ad artisti stranieri e istituti di cultura, a cominciare
da quello francese a Porta Palazzo, incoraggiare la
ricerca, moltiplicare gli studi dove pittori e scultori
americani, cinesi, tedeschi possano organizzare workshop
di pochi giorni. Tipo la coreografa bretone Catherine
Diverres che ha tenuto un seminario d´una settimana
qui prima d´imbarcarsi col suo spettacolo alla volta
di Palermo, ed è partita «entusiasta». La realtà sta
cambiando, «ma Torino non deve perdere la sua identità».
Hardy ama la ritrosia severa dei portici che mostrano
senza scoprire troppo, l´energia mai gridata, «non si
può fare politica culturale contro l´anima di una città».
Pensa alla serietà, «ingiustamente considerata una debolezza»,
e suggerisce di farne una forza. Lo slogan? «Torino,
un posto dove si lavora bene». Non per caso, il centro
di cultura che dirige ci ha trascorso mezzo secolo.
Il prossimo, Philippe Hardy l´immagina nel cuore di
Porta Palazzo e progetta il trasloco. E´ la curiosità
del pioniere, l´anima della città. |