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La scuola a Torino...

FRANCESCA

dr.ssa Francesca Davida Pizzigoni

tratto dal volume "Quattro scuole per una storia della scuola" Edizioni SEI curato da Walter Tucci

Quando si parla della storia di questi centocinquant'anni di Italia unita non si può trascurare di trattare la storia della scuola che in maniera così significativa ha contribuito alla formazione degli italiani - di ieri come di oggi - e alla diffusione di una lingua nazionale. E quando si parla di storia della scuola non si può non parlare di Torino. Non solo perchè la prima legge nazionale sull'istruzione era un'estensione di quella sabauda (la legge Casati del 1859) ma proprio perchè la città presenta tratti peculiari che la pongono fin dai primi anni postunitari in una posizione di precoce avanzamento sul piano dell'alfabetizzazione, dell'edilizia scolastica, dell'istruzione femminile e di quella popolare.
Questo libro vuole, ripercorrendo la storia di quattro istituti particolarmente significativi, evidenziare alcune specificità del mondo della scuola torinese, in particolare elementare, e ripercorrerne la storia attraverso esempi concreti.
Molti altri istituti si potrebbero scegliere, basti considerare che delle 110 scuole primarie attive in città ben 36 hanno radici che risalgono all'Ottocento o ai primi anni del Novecento e molte dunque raccolgono al loro interno una parte importante delle vicende della scuola torinese - e anche nello stesso tempo della storia sociale della città. Ognuna di esse, dalla più antica alla più recente, sarebbe meritevole di un approfondimento: ognuna fornirebbe una tessera unica e significativa per costruire quel grande puzzle che è la storia della scuola in una città, il quale inevitabilmente senza qualche pezzo risulterebbe incompleto.
Ma, di fronte alla necessità di compiere una scelta, gli istituti selezionati riescono a fornire un quadro nel contempo completo e sfaccettato di Torino e del suo percorso nell'ambito dell'istruzione da fine Ottocento a oggi: l'Istituto Comprensivo Padre Gemelli con la sua sede Margherita di Savoia è esempio dell'ultima tornata di imponente architettura scolastica negli anni dell'avvento del fascismo, prima della Seconda Guerra Mondiale, mentre con la sede principale di corso Lombardia testimonia la volontà di scolarizzare i “minorati” e permette di affrontare il tema delle classi speciali e differenziali. La Direzione Didattica Gabelli, scuola “di confine” in Barriera di Milano, è da sempre simbolo di una città che cambia e che accoglie nuovi “torinesi”, così come la Direzione Didattica Madre Mazzarello, con le sue due sedi Vidari e Mazzarello stessa, rappresentano il legame del territorio con la realtà industriale FIAT e la storia recente di una Torino del secondo dopoguerra, con la sua veloce espansione e i suoi conflitti sociali. La Direzione Didattica Pacchiotti, con la Sclopis di via del Carmine, infine, ci permette di approfondire la conoscenza del centro storico, con le sue contraddizioni e il suo fascino.

La scuola a Torino e la grande edilizia scolastica
La storia della scuola torinese è strettamente legata alla storia dell'edilizia pubblica. Consapevole che i locali annessi alle chiese o le aule prese in affitto in edifici privati non sono sufficienti né ottimali, il Comune studia fin dagli anni Settanta dell'Ottocento soluzioni altre. Ci si domanda se il risultato migliore si ottenga attraverso la costruzione di piccole scuole diffuse sul territorio, su modello inglese, che permettono una migliore efficacia educativa, oppure con grandi edifici in cui concentrare un gran numero di studenti. I tentativi vengono portati avanti parallelamente, per studiarne in concreto i risultati: nel 1873-74 in corso Oporto, attuale corso Matteotti, si amplia l'abitazione privata della famiglia Vietti per trasformarla nella scuola elementare Carducci (oggi sede della Lorenzo il Magnifico); due anni dopo si costruisce, in edifici “gemelli” uno maschile e uno femminile, la scuola Moncenisio in via della Cittadella, nota per essere la scuola che ha “ospitato” l'ambientazione del libro Cuore; e tra il 1875 e 1877 si sperimenta un unico e imponente edificio scolastico con 38 aule, 4 sale per la ginnastica, uffici e alloggio per il custode, per quella che diventerà la Tommaseo di via dei Mille.
Il modello edilizio che appare più appropriato è proprio quest'ultimo: esso andrà a connotare l'edilizia scolastica torinese fino alla prima metà del Novecento dotando la città di imponenti edifici dall'aspetto regolare, capaci di ospitare fino a 1000 studenti. La Sclopis è una delle prime strutture a essere edificata secondo questo modello, oramai accettato e consolidato: siamo nel 1887 e l'edificio rispetta appieno i dettami delle precoci Norme per la costruzione e l'arredamento degli edifizi delle scuole elementari municipali (1878).
Leggendo il documento sembra di vedere la scuola: “l'esterno degli edifizi scolastici sarà costruito con semplicità non scompagnata da sufficiente eleganza. Sopra la porta di ingresso principale sarà collocato un braccio di ferro per sostenere l'asta della bandiera nazionale e una lastra in marmo per la denominazione del compartimento scolastico”. Ampi corridoi larghi almeno 2,40 metri, dove sono collocati i porta abiti degli scolari, aule rettangolari di altezza non inferiore ai 4,50 metri e con superficie non minore a 40 metri quadri richiamano immediatamente alla mente la Sclopis che ha mantenuto negli anni il suo aspetto severo e imponente, arioso e luminoso.
Ma a ben vedere la struttura non si discosta molto da quella della Margherita di Savoia di via Thouar: sono passati diversi anni tra l'edificazione dell'una e dell'altra ma l'impianto di base non cambia. Questa, che data 1930, fa parte dell'ultima tornata di costruzioni di grandi edifici scolastici che vedono la luce prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. È del maggio 1925 il decreto ministeriale che detta le linee fondamentali delle nuove costruzioni scolastiche, che altro non sono che il frutto dell'esperienza degli anni passati: da 10 a 30 aule, una o due palestre con relativi spogliatoi e, dove possibile, piscina scoperta. Inoltre sala medica, biblioteca, sale per la direzione, per la segreteria, per gli insegnanti, alloggio per i custode, aule per insegnamenti speciali quali disegno ed economia domestica. Tra il 1930 e il 1935 – per far fronte a una popolazione che passa dal 1920 al 1939 da 495.025 abitanti a 696.166 - su questo modello aprono sei nuove scuole realizzate con una spesa da parte del Comune di oltre 25 milioni di lire. La maggior parte delle nuove strutture sono intitolate a membri della famiglia Savoia (Duca degli Abruzzi, Duca d’Aosta, Vittorio Amedeo II, Re Umberto I) e tra queste la Margherita di Savoia. Sono gli anni di consolidamento del fascismo e la scuola ne porta le tracce: più che la stretta adesione ai canoni edilizi (solo la Duca degli Abruzzi ne rispetta in pieno i dettami) conta maggiormente l'esplicito o simbolico richiamo al pensiero mussoliniano, come ben spiegano gli insegnanti della Margherita di Savoia nel saggio contenuto in questo testo.
Inaugurata ufficialmente il 28 ottobre 1930, ma in realtà già funzionante, viene presentata in tutta la sua magnificenza: “a tre piani, con un corpo centrale e due fronti laterali, di architettura moderna. Conta 24 aule, due palestre ginnastiche ed è fornito di ogni comfort, dai refettori ai bagni, alle docce, agli spogliatoi e a tutti gli altri locali accessori. La Margherita di Savoia risponde a necessità che si estendono da Borgata Ceronda alla Borgata Lucento e che indubbiamente aumenteranno man mano che la zona sarà sistemata”. In quel primo anno di lezioni, gli alunni sono già circa 700.

Pensiamo allo stupore della popolazione di una Lucento che fino al momento del primo allargamento della cinta muraria era considerata zona extra urbana e come tale disponeva solo di scuole rurali, costituite da villette con al piano superiore gli alloggi per gli insegnanti e una sala unica che doveva servire “cumulativamente per ingresso, aspetto, palestra ginnastica, ricreazione e spogliatoio”. Ora la Margherita di Savoia “incombe” idealmente sul territorio portando una presenza nuova e significativa in questa terra fatta di una campagna che sta lasciando il posto a botteghe e stabilimenti tessili.
Diverso il caso della Gabelli: anch'essa ampia scuola con 26 aule e 2 palestre, progettata in modo da permettere un futuro ampliamento per ottenere altre 9 aule, sorge nel 1915 ma in realtà non è la prima della zona. Segue infatti di pochi anni la costruzione della Pestalozzi (1906) la cui capienza di 1000 allievi già nel 1910 risulta insufficiente. Torino, nuova città industriale, attira nel primo Novecento circa 9.000 persone l'anno che dalla campagna si trasferiscono in città e Barriera di Milano scoppia di popolazione.
Fin da subito la Gabelli è scuola popolosa e popolare: la sua storia è fatta di ampliamenti (il primo già nel 1925), di locali presi in affitto per aumentare la disponibilità di classi e di un numero di alunni sempre crescente, che nel 1933 tocca le 2009 unità.
Il profilo della città cambia, dotandosi di immensi edifici scolastici la cui presenza influenza l'intera vita del quartiere: via vai di genitori e alunni al mattino, operai di ogni età che la sera frequentano i corsi popolari o i corsi serali di disegno (Sclopis), ragazzi con licenza elementare che seguono i corsi integrativi di avviamento al lavoro (Gabelli). La scuola diviene in qualche modo il cuore pulsante della città, il luogo dove si formano i cittadini e i futuri lavoratori e dove tante speranze si concentrano: il desiderio di migliorare la propria condizione sociale, lo sforzo di studiare e lavorare contemporaneamente, la possibilità di lasciare custoditi i propri figli (negli anni Trenta la Gabelli avvia un servizio di dopo-scuola per i figli degli operai bisognosi) mentre si cerca di guadagnare e consolidare le proprie conquiste.
Gabelli, Sclopis, Margherita di Savoia: in queste scuole è certamente trascorsa e si è sedimentata la storia di Torino e la vita dei suoi cittadini.

La scuola a Torino e il tema della disabilità
È del 1928 l'apertura della scuola medico-pedagogica torinese che si fa carico di accogliere gli alunni con deficit mentali.
Non si tratta della prima scuola in città rivolta specificamente a ragazzi con handicap: anche se la legge che obbliga i sordi e i ciechi ad andare a scuola è del 1923 (R.D. 31 dicembre 1923, n. 3126), i prodromi dell'Istituto dei Sordomuti avviato da Giovanni Battista Scagliotti di Varallo sorgono già nel 1818 (riconosciuto poi come scuola regolare nel 1834 e divenuto Regio Istituto). A questo si affianca a partire dal 1881 l'“Educatorio Prinotti per sordomuti di ambo i sessi” avviato dal sacerdote Lorenzo Prinotti mentre nel 1872 si apre l’Istituto per rachitici, su iniziativa del Conte Ernesto Ricardi di Netro e dei medici Gamba e Pistono, con sede nella vecchia Piazza d’Armi. Tre anni dopo vede la luce in via Nizza 151 anche l'Istituto per ciechi.
La novità della Scuola Speciale per Anormali Psichici è quella di accogliere alunni che, indipendentemente dalla presenza di handicap fisici, hanno un quoziente intellettuale compreso tra 45 e 70.
Prima del 1928 i ragazzi definiti “deficienti” o “tardivi” venivano seguiti in classi speciali che avevano lo scopo da un lato, per gli anormali lievi, di fornire “abitudini morali” tali da reinserirli poi in classe e dall'altro, per gli anormali gravi, di renderli adatti “all'ambiente sociale”.
Il Comune di Torino con un regolamento del 1917 firmato dal sindaco Leopoldo Usseglio istituisce sette classi speciali, volte ad accogliere “fanciulli tardivi, deficienti, nervosi, difettosi nella pronuncia, nei sensi e nei movimenti”. Sono esclusi i fanciulli che “non possono trarre alcun profitto dall'insegnamento (idioti, imbecilli); quelli che possono essere dannosi o pericolosi per sé e per gli altri, quelli che non sono in grado di compiere da sé stessi le funzioni della vita fisica, i sordomuti, i ciechi e i discoli e indisciplinati coscienti delle loro azioni”. Durata dell'insegnamento, programma e orario non sono rigidamente fissati mentre il metodo didattico prevede il ricorso all'insegnamento oggettivo e a lezioni di disegno, canto, ginnastica.
Queste classi sono sparse in sette compartimenti scolastici differenti, elemento di dispersione che non permette di ottimizzare i supporti didattici e la preparazione professionale degli insegnanti: un primo suggerimento da parte degli addetti ai lavori, del 1917 stesso, propone di riunire tutte le classi sotto la guida di un Patronato che si occupi specificamente di portare avanti protezione e assistenza di alunni anormali e di farsi carico di continuare l'azione educativa anche fuori dalla scuola nonché di garantire una formazione professionale per questi ragazzi mandandoli a bottega ad apprendere un mestiere. Il progetto rimane tale e già nel 1922 viene criticata questa scelta di dispersione di classi speciali in tante scuole diverse, auspicando la creazione di Scuole Speciali. Sei anni dopo la Scuola per Anormali psichici risponde a questa necessità e viene aperta nei locali di via Giacosa.
e da un lato quindi vi è l'esigenza di creare ambienti adeguati con personale preparato e strutture attrezzate, dall'altra inizia il rischio di segregazione degli alunni disabili e “ritardati”.
É proprio ciò che avviene negli anni Sessanta del secolo scorso quando la legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 stabilisce all'articolo 12 che “possono essere istituite classi differenziali per gli alunni disadattati scolastici”. Cinque anni dopo, il DPR n. 1518 del 22 dicembre 1967, aggiunge che “i soggetti che presentano anomalie o anormalità somato-psichiche che non consentono la regolare frequenza nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare trattamento e assistenza medico-didattica sono indirizzati alle scuole speciali”.
In una Torino che in quegli anni stava affrontando la forte immigrazione dal sud, con famiglie e alunni sradicati e disadattati, è facile immaginare l'alto numero di studenti inseriti nelle classi differenziali, che sorgono pressochè in tutte le sedi scolastiche.
Comportamenti violenti, non accettazione delle regole, profonde difficoltà nell'apprendimento portano invece all'inserimento nelle classi speciali che, al contrario, vengono accorpate, affidandosi all'esperienza della Scuola Medico Pedagogica Padre Gemelli. Accanto ai bambini definiti “mongoloidi” vi sono quindi quelli “caratteriali”, “quando irregolarità della condotta si accompagna a deficit intellettivo”. La Padre Gemelli da sola non riesce più ad accogliere tutti gli alunni “speciali” e anche la sede della scuola elementare Dogliotti, in via Bossoli, è riconosciuta come scuola speciale.
Le classi speciali e differenziali vengono definitivamente abolite con la nascita della figura dell'insegnante di sostegno, nel 1977, che favorisce l'integrazione in classe dell'alunno portatore di handicap. Fino a questa data però appare evidente come la storia della città si mescoli ancora una volta con la storia della scuola: boom immigratorio, famiglie dal sud con usi e costumi diversi, con dialetti che qui appaiono incomprensibili, con la diffidenza verso “i meridionali”, portano a una segregazione che si trasforma in disagio, solitudine, senso di abbandono. Le famiglie devono lavorare e il bambino si trova spesso da solo: è facile che l'alunno sia giudicato “disadattato”.
Le testimonianze degli ex insegnanti, riportate al termine del saggio sulla Padre Gemelli, dimostrano come non sia stato semplice, nel corso degli anni Settanta, l'apertura agli alunni “normali”, come i docenti stessi non si sentissero pronti a uscire da un ambiente in qualche modo protetto e come i genitori continuassero a guardare con una certa diffidenza a quella scuola speciale: il peso del pregiudizio e dell'emarginazione lasciava ancora la sua traccia così come l'esperienza in classi differenziali e speciali l'aveva lasciata su molti bambini “difficili”. Ora Torino si apprestava a un nuovo cambiamento e la scuola ne era di nuovo protagonista.

La scuola a Torino e il secondo dopoguerra
e tra la fine Ottocento e l'inizio Novecento gli alunni si trovavano a svolgere lezioni in aule di fortuna, appartamenti presi in affitto, talvolta con i doppi turni, in attesa della grande campagna di costruzione di edifici adeguati, il secondo dopoguerra vede un ritorno al passato, con la popolazione scolastica nelle stesse condizioni. La ricostruzione degli edifici danneggiati dalla guerra è spedita e di grandi dimensioni (4 scuole inagibili, 12 gravemente sinistrate, 23 con danni di minori al 50% dell'intera costruzione e 31 danneggiati in maniera lieve) ma da sola non è sufficiente.
Grazie al ricorso a un mutuo di 2 miliardi di lire da parte del Consorzio di Credito per le Opere Pubbliche, il sindaco Domenico Coggiola, eletto nella primavera del 1948, può realizzare oltre 1300 alloggi e progettarne altri 4.200, cui si sommano i 4.000 portati a termine dall'Istituto Case Popolari. Ma è evidente che accanto agli alloggi servano scuole.

Così nel 1954 vedono la luce la Vidari (via Sanremo), l'Ambrosini (via dei Pioppi), la nuova Carducci (corso Matteotti), la Lombardo Radice (corso Grosseto), la media Foscolo (via Piazzi). Oltre a integrare le strutture scolastiche nel centro cittadino (Carducci e Foscolo), si devono costruire nuove scuole in una Torino in rapida espansione verso nord e sud.
La Vidari, a pochi anni dall'apertura, conta nell'anno scolastico 1963-64, 1613 alunni: le aule non sono poche, 39, ma non bastano a contenere le esigenze di una Mirafiori che si espande e che nel decennio dal 1950 al 1960 passa da 59.000 abitanti a 141.000. Non è altro che lo specchio di tutta la città: a fine 1964 Torino supera ampiamente il milione di abitanti.
Dal 1958 il Provveditorato si vede costretto a istituire i doppi turni: le 1275 aule disponibili non sono più sufficienti. Inizia, in lotta contro il tempo, una corsa forsennata alla costruzione di nuove scuole: non più quelle imponenti strutture ariose che avevano caratterizzato Torino fino agli anni Trenta del Novecento, ma veloci prefabbricati, con modelli ripetuti in più sedi e che porteranno in pochi anni ad avere tante scuole uguali: Armstrong e Toscanini uguali a Don Murialdo, oppure Gozzano uguale a Casalegno, solo per portare qualche esempio di moduli scolastici standard.
Il settore Edilizia Scolastica del Comune, nonostante il massimo impegno, non riesce a star dietro al crescere vertiginoso di alunni: nel Sessanta la media di allievi per classe si attesta attorno ai 39, con picchi di 45. I genitori si lamentano e i giornali denunciano: alla Vittorino da Feltre e alla Muratori si trasforma in aula anche la sala medica, alla Parini la sala cinematografica, alla Allievo la sala lettura, la Gozzi sfrutta un vecchio magazzino per far lezione, la Gabelli l'atrio, la Beata Vergine di Campagna utilizza un prefabbricato. Ogni spazio, anche il più angusto, è trasformato in aula. La scuola Duca d'Aosta si trova a dover gestire 2100 alunni con 23 aule a disposizione: gli alunni sono aumentati di 300 unità rispetto all'anno precedente. Mazzini, Margherita di Savoia e Boncompagni sono nelle stesse condizioni.
Nel 1962 la situazione peggiora ancora: gli alunni elementari sono 55.000, le scuole appena costruite come la Cairoli, la Giulia di Barolo e la Negri iniziano la loro attività già con i doppi turni. La Vidari, la Duca d'Aosta e la Duca degli Abruzzi scoppiano, così come la Mazzini che detiene il triste primato di 48 alunni per classe e fa ricorso ai locali nelle case INA di corso Sebastopoli.
Malumori e conflitti sociali si ripercuotono inevitabilmente anche nel mondo della scuola, di anno in anno le condizioni invece di migliorare sembrano peggiorare.
Le testimonianze presentate nel testo dai docenti della Vidari, tratte dai registi di classe, testimoniano questo clima.
Gli sforzi non bastano. Torino continua a crescere, nel 1970 il Comune inizia a dare attuazione alle “zone E” di espansione, previste dal Piano Regolatore e anch'esse devono essere dotate di scuole: i quartieri nuovi hanno bisogno di centri di aggregazione e servizi, di un punto di riferimento della vita di quartiere ed esso viene automaticamente individuato nella scuola. La struttura scolastica cui eravamo abituati non è più funzionale: servono sale polivalenti, strutture sportive, sedi per i servizi di circoscrizione.
Ecco che nelle zone di espansione E10, E11 e E13 si pensa a delle soluzioni innovative che vedono la scuola come fulcro di una comunità e dove nello stesso impianto vengono progettati un asilo nido per 60 bambini, una scuola materna di 6 sezioni con 180 alunni, una materna con 24 classi per 600 allievi oltre che una scuola media atta a contenere 450 ragazzi. Il complesso è completato da una piscina, tre palestre scolastiche, una palestra agonistica suddivisibile in due e impianti all'aperto. Soluzioni con pareti mobili consentono flessibilità di spazi trasformando due aule contigue in un teatro. La progettazione di base che intende fondere bisogni scolastici e bisogni sociali si evince anche dallo spazio centrale della scuola, pensato a gradoni, come un luogo di comunità e incontro, tra alunni di classi diversi, ma anche tra genitori. Non mancano spazi assembleari e servizi per il quartiere, di cui questa scuola-comunità diviene il fulcro. Il costo di queste nuove strutture è alto, circa 4 miliardi di lire l'una, ma si paga forse anche il concetto, l'idea: la scuola Maria Mazzarello è una dei primi tre complessi di questo tipo. Essa, scuola “nuova” in tutti i sensi in un quartiere industriale apre non a caso ospitando un'opera d'arte, un'opera del pittore Pinot Gallizio: la scuola è centro di formazione anche del bello, del gusto estetico, in quartieri che erano stati costruiti con una fretta tale da non lasciare ampio spazio alla ricerca estetica.
La Maria Mazzarello nasce già con alcune sezioni a tempo pieno e vive appieno quel periodo di passaggio e talvolta di contraddizione che vede una commistione tra tempo lungo (insegnanti statali e insegnanti comunali che si alternano mattina e pomeriggio), attività integrative pomeridiane e tempo pieno vero e proprio.

La scuola a Torino e il tempo pieno
Possiamo parlare di una nascita “dal basso” del tempo pieno a Torino, scaturita da una vera e propria esigenza sociale: le famiglie avevano necessità di lavorare e di conseguenza i ragazzi nel pomeriggio sarebbero stati abbandonati a se stessi. Si tratta per lo più di famiglie immigrate, in cui i bambini conoscono a stento l'italiano e hanno quanto mai bisogno di sostegno e incoraggiamento. Non è un caso infatti che la scuola a tempo pieno abbia origine in periferia, in particolare alla Nino Costa di via Ambrosini.
Inizialmente si tratta di un tempo pieno quasi volontario degli insegnanti, legato alla disponibilità dei gruppi di docenti appartenenti al Movimento Cooperazione Educativa che promuove una didattica partecipata attraverso anche la realizzazione con i ragazzi di un giornalino di classe.
“Nell'anno scolastico '69-70 ottenemmo dal Comune di Torino, grazie alla disponibilità dell'allora assessore all'istruzione Vinicio Lucci, un'ottantina di insegnanti del patronato scolastico che resero possibile, in altrettante classi di quattro scuole distribuite nelle periferie, la realizzazione di un tempo pieno un po' meno volontaristico di quello che avevamo praticato negli anni precedenti” ricorda Fiorenzo Alfieri, uno dei promotori del tempo pieno torinese.L'esperienza di Torino è davvero pionieristica. Si può affermare che, per prima, Torino avvia la “rivoluzione” del tempo pieno. E inizia con una commistione di insegnanti comunali e statali.
Non si tratta di un semplice prolungamento dell'orario scolastico, né di un dopo-scuola assistito, ma di una vera e propria azione educativa, con una pluralità di interventi e voci.
L'avvio del tempo pieno coincide con il periodo di mancanza di aule, ricorso ai doppi o tripli turni, con una insoluta questione sociale, con remore morali sull'opportunità di far trascorrere tante ore lontano dal contesto familiare.
Ma l'esperimento – in realtà già avviato, si è visto, su base volontaria – parte, e nel novembre del 1971 già 83 classi di 5 scuole elementari torinesi hanno il tempo pieno: oltre alla Nino Costa, sono la Gianelli, la Casati, la Novaro e la Pestalozzi. Il Ministero assegna a Torino 82 insegnanti (a fronte di una richiesta di 100). L'entusiasmo è alto ma anche i dubbi: alcuni genitori della Pestalozzi firmano un esposto contro il tempo pieno, che non ha seguito. Il Comune deve affrontare spese ingenti: 300 milioni di lire in attrezzature e stipendi, 100 milioni tra refezione e trasporti. Nel frattempo, a spese dello Stato, si avvia la medesima sperimentazione anche in cinque scuole medie: Fermi, Casorati, Olivetti, Pavese e Nievo.
Non mancano le difficoltà: soldi, attrezzature e spazi (in particolare per la refezione) sono carenti. I genitori e gli insegnanti della Pestalozzi chiedono venga loro assegnata la sede di Villa Genero, la scuola Casati cerca un accordo con l'Azienda Raccolta Rifiuti per poter usare i loro spogliatoi.
Ma nonostante tutto, parallelamente al riconoscimento a livello nazionale da parte del ministero (che assegna a ogni classe un contributo annuo di 250.000 lire per acquisto di materiali – presto ridotto a 50.000 lire - e stabilisce per ogni insegnante un periodo di aggiornamento annuo di 200 ore obbligatorie), arriva presto quello delle famiglie degli alunni: riconosciuto il valore didattico dell'esperienza del tempo pieno e delle attività integrative che esso offre, spesso anche chi non ha necessità contingenti di tenere i figli a scuola, inizia a chiedere il tempo pieno. Un caso per tutti è quello della scuola elementare D'Azeglio che, pur accogliendo i figli della Torino benestante, nell'arco di soli due anni passa al tempo pieno in tutte le classi.
I dati parlano chiaro: nel 1973 in Torino e Provincia si contano circa 170 classi a tempo pieno e 8200 a tempo normale; all'inizio dell'anno scolastico 1975-76 sono già 7.000 gli alunni, nella sola Torino, che scelgono il tempo pieno. Tra questi ci sono quelli della Maria Mazzarello, come ben spiega il saggio realizzato all'interno di questo libro.

La scuola a Torino e l'immigrazione
In una città che con l'industrializzazione attira migliaia di lavoratori, è quasi d’obbligo parlare di immigrazione, anche tra i banchi di scuola. Non solo nel dopoguerra, già a fine Ottocento-inizio Novecento: l'analisi dei registri della scuola Gabelli riportata nel testo ben mette in luce le percentuali di alunni non nati a Torino, presenti fin dalla sua apertura.
È evidente quindi come nel corso di questi centocinquant'anni periodicamente la scuola torinese abbia dovuto adeguarsi a esigenze nuove e quindi modellarsi e in qualche modo reinventarsi di volta in volta. Un'ultima importante sfida è arrivata a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta quando di fronte allo spopolamento delle aree centrali e alla contrazione del numero dei nuovi nati, le scuole torinesi si popolano di alunni di provenienza extra italiana. Prima ragazzi cinesi, poi marocchini, dapprima timidamente e poi sempre più fortemente, animano le scuole. Le aule si riempiono di alunni che parlano lingue diverse, hanno tratti somatici dissimili e sono un po' spaesati, tanto quanto lo erano quelli provenienti dal sud Italia venti o trent'anni prima.
Torino prova a rispondere a questa nuova sfida: nasce un gruppo di lavoro composto da insegnanti di tre scuole del centro storico, Pacchiotti, Sclopis, Lessona, zona che per prima ha accolto famiglie straniere con i loro figli in età scolare. Il gruppo è attivo, curioso e desideroso di avviare un nuovo percorso della storia scolastica torinese. Nasce così, inaugurato il 19 marzo del 1990 nello storico Palazzo Barolo, il CIDISS (Centro di Informazione e Documentazione per l'Inserimento Scolastico degli allievi stranieri), primo Centro interistituzionale tra Provveditorato agli Studi, Comune di Torino, Regione Piemonte, a cui si aggiunge in un secondo tempo la Provincia.
Gli uffici sono collocati in un locale del Comune, nel quartiere Valdocco, in Via Cottolengo 26 (zona ai margini del centro con alloggi assegnati alle prime famiglie straniere e in precedenza agli immigrati del sud) e vi opera congiuntamente personale statale e comunale, alla continua ricerca di possibili soluzioni alle nuove domande educative. Si avvia un progetto di ricerca didattica per l'insegnamento dell'Italiano come seconda lingua e nasce così LITOS (Lingua Torino Stranieri) articolato in tre filoni di attività: una ricerca sul "bilinguismo”; una attività di progettazione didattica e di produzione di materiali per gli insegnanti, che affrontano per la prima volta l'insegnamento della lingua italiana a stranieri; e una terza azione consistente nella formazione di un gruppo di insegnanti disponibili a misurarsi con la nuova esperienza dei "Laboratori di italiano L2" (come seconda lingua dunque) nelle scuole.
La scuola di Torino si rimette in gioco, nascono gruppi di lavoro e sperimentazioni che portano, tra le altre cose, alla realizzazione del Kit Multimediale "Benvenuta/Benvenuto" di Marcella Ciari, organizzato in 11 versioni bilingui (italiano e arabo, cinese, albanese, spagnolo, greco, inglese, francese, tedesco, romeno, portoghese, russo); il DVD "Italiano L2 per studiare", le guide all'accoglienza e all'inserimento scolastico "Vieni a scuola" rivolte alle famiglie e ai ragazzi stessi.
A poco a poco la presenza di alunni stranieri si allarga dal centro storico alle altre zone cittadine: la ricerca puntuale dei dati sui registri della scuola Gabelli mostra come il numero di alunni stranieri aumenti e nel contempo si differenzino le zone di provenienza.
Oggi la Sclopis mantiene un'alta percentuale di alunni stranieri e la Vidari ha raggiunto la soglia del 50% di allievi: come dimostrano le sezioni del testo che illustrano i progetti recenti delle scuole considerate, si tratta di un'occasione per sviluppare iniziative nuove, per imparare reciprocamente e portare un valore aggiunto nel percorso di crescita dell’alunno.

La scuola a Torino e la sua memoria.
I contributi che compongono questo libro sono frutto di ricerche compiute attraverso gli archivi delle singole scuole. Gli scritti che ne derivano sono solo un assaggio delle molteplici informazioni che vi si possono trarre e delle svariate potenzialità intrinseche negli archivi scolastici.
L'archivio della Margherita di Savoia ci riporta informazioni su docenti, alunni, libri di testo e feste scolastiche, scuole estive e serali, patronato scolastico, biblioteche di classe, bollettini ufficiali, organizzazioni giovanili, pagelle e sussidi didattici, corsi popolari e professionali e vita sociale della borgata. A questi elementi si somma la significativa documentazione sulla scuola succursale, presso il villaggio Profughi Istriani, negli anni Cinquanta.
L'archivio della scuola Gabelli ha permesso la ricerca e la pubblicazione di un significativo spaccato di scuole in guerra, Scuole Gabelli e Pestalozzi: registri degli anni scolastici 1943-1945.
L'archivio della scuola Sclopis è stato il motore che ha dato vita alla realizzazione del museo scolastico, utilizzato per lezioni di didattica attiva e aperto alla popolazione. Quello della scuola Vidari ha permesso di raccogliere materiali per i festeggiamenti dei cinquant’anni della scuola e di lavorare insieme agli alunni sulla storia dell’istituto, dando vita al progetto multimediale 1954-2004: cinquant’anni ha la mia scuola.
Archivio di documenti e archivio di oggetti: entrambi contribuiscono a ricostruire la storia della scuola che è poi anche storia di persone, di quartieri, di periodi storici, di città tutta. Perchè non mettere insieme queste importanti fonti e dar vita a un unico grande archivio della storia della scuola torinese?
Non si tratta di metterli insieme fisicamente, sradicando oggetti e documenti dal contesto in cui sono nati e vissuti, ma di unire idealmente, attraverso una rete che possa permettere così, pur da lontano, ai materiali storici di “parlarsi”, di arricchirsi l'uno con l'altro, di confrontarsi, compenetrarsi, talvolta smentirsi o sovrapporsi.
La “voce” del singolo documento si farebbe così più forte e significativa, e nel contempo anche la conoscenza del contesto globale diverrebbe più chiara.
La gioia del ricercatore sarebbe massima: gli archivi scolastici rappresentano indiscutibilmente una fonte di primaria importanza per la ricerca storica. Sarebbe un grande arricchimento potervi lavorare sapendo che, grazie alla rete, molti hanno già trovato qualche principio comune, che non è solo il caso o la pazienza a permettere di reperire i materiali, che i documenti saranno preservati imperituramente e non per merito di qualche singolo docente che li custodisce gelosamente.
Attraverso una rete di informazioni organizzate ogni documento o oggetto farebbe parte di un contesto più ampio e potrebbe essere “significante” per più campi di indagine contemporaneamente: chi lo analizza dal punto di vista formale, chi contenutistico, chi perchè simbolo della scuola per esempio fascista, o chi invece perchè parte della vita dell'alunno e dell'insegnante, e così via.
L'idea non è certamente nuova: l'Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea Giorgio Agosti da anni porta avanti un progetto di lavoro sugli archivi storici delle scuole torinesi, considerandoli appunto come bene culturale oltre che come importante risorsa didattica. L'attività, che vede la partecipazione diretta delle scuole, oltre alla salvaguardia e alla valorizzazione dell'archivio documentale, mira infatti a fare della conoscenza e dello studio dell'archivio un modo per dar vita a una didattica attiva e per conoscere dunque la storia attraverso le sue tracce concrete.
Allo stesso modo, nel 2008, il Settore Educazione al Patrimonio dell'Assessorato alla Cultura del Comune di Torino ha promosso, affidando l'attività alla Fondazione Tancredi di Barolo-Museo della Scuola e del Libro per l'infanzia, un censimento per la “scoperta” e la valorizzazione del patrimonio scolastico di interesse storico. Accanto all'archivio propriamente detto, fatto di documenti, nelle scuole si trovano infatti gli oggetti, i sussidi didattici che, parimenti a circolari, registri e compiti in classe, hanno in qualche modo strutturato la vita della scuola e dello studente. Tabelloni didattici con esempi di buoni comportamenti, scatole con modelli di bombe in miniatura o corpi umani smontabili, hanno segnato le lezioni quotidiane e nel contempo, viste oggi a posteriori, hanno connotato un particolare periodo e un particolare modo di fare istruzione.
Il risultato di questa ricerca, condotta su 20 scuole torinesi tra elementari, medie e superiori, ha portato a risultati entusiasmanti: non solo in termini di numeri (5717 oggetti didattici di interesse storico) ma di rarità di alcuni materiali, oppure di specificità di altri che permette di comprendere meglio la storia dell'istituto possessore.
i tratta di piccoli o grandi oggetti, moderni o più antichi, che nel loro complesso illustrano la grande storia della scuola torinese, consentendo talvolta di aggiungere qualche tassello altrimenti mancante.
Nel contempo si tratta anche di documentazione soggetta a veloce dispersione, come dimostra una recente ricognizione nelle scuole che attesta come una parte di quei materiali censiti sia oggi, dopo neppure tre anni, dispersa.
Bisogna sottolineare infatti che se la cultura dell'archivio scolastico è giustamente diffusa, quella dell'archivio di oggetti lo è molto meno: necessità di spazio, leggi sulla sicurezza che impongono sgomberi, naturale avvicendarsi dei supporti didattici che divengono non più adatti all'uso quotidiano, fanno sì che questi scompaiano con una grande velocità.
Paradossalmente gli oggetti, benchè più visibili e ingombranti dei documenti (o forse proprio per questo), sono ancora più volatili!
Anche la vita degli archivi documentali, in realtà, non è facile: gli archivi scolastici storici ora, per legge, rimangono presso la scuola stessa ma problemi di competenze, spesso anche di spazio e tempo, oltre che di risorse economiche mal si conciliano con l'ordinamento, lo studio e la valorizzazione dell'archivio stesso.

In ogni caso gli archivi degli oggetti necessiterebbero di uno studio sistematico e della creazione di una rete che, sullo stesso modello di quella di documenti, mantenga il legame con l’istituzione d’origine e nel contempo consenta studio ragionato e incrociato e documentazione storica.
Anche questa idea non è nuova: in un documento datato gennaio 2009 Daniele Jalla, Coordinatore dei servizi museali della Città di Torino, si faceva promotore del progetto di un “museo scolastico diffuso” in cui ogni scuola, attraverso il lavoro degli insegnanti e il coinvolgimento degli studenti, riscoprisse il proprio patrimonio.
Il Museo della Scuola e del Libro per l'infanzia di Palazzo Barolo, in questo senso, supporta da anni gli istituti che ne fanno richiesta nella ricerca e nella valorizzazione dei propri supporti didattici e a breve metterà a disposizione sul web i cataloghi storici delle ditte produttrici di questi supporti in modo da fornire un valido strumento di conoscenza e datazione del proprio patrimonio.
Ma certamente un museo scolastico diffuso dovrebbe avere, oltre alle varie conservazioni e valorizzazioni in loco, una banca dati che consenta una visione di insieme e, come si diceva prima, quindi, una possibilità di analisi a livello superiore.
e dunque, oltre che di ricordi di persone e di tracce architettoniche, la storia della scuola è fatta dai documenti di archivio e dai sussidi didattici storici, perché non metterli insieme e correlarli? In caso contrario forse la storia ricostruita sarebbe sempre parziale: se a un oggetto conservato si uniscono i dati ricavabili, per esempio, da un registro degli acquisti, molte più informazioni si possono rintracciare. Se una vecchia bandiera è vivificata dalle foto della cerimonia di consegna e dai documenti che testimoniano il suo uso nelle feste, il quadro si fa più completo.
Non esistono quindi forse confini così netti tra “museo scolastico” e “archivio scolastico”: non sono forse nel primo esposte anche pagelle o compiti in classe, registri e altri documenti che in realtà appartengono all’archivio?
Uscendo dal campo limitato della scuola e facendo entrare nella discussione anche le biblioteche, questo concetto di collaborazione tra campi limitrofi è promossa in Piemonte dal MAB (acronimo di Musei-Archivi-Biblioteche, nato dalla collaborazione delle tre associazioni di settore ICOM, ANAI e AIB), un tavolo di confronto permanente che vuole discutere ed indagare “le prospettive di convergenza tra i mestieri e gli istituti in cui operano i professionisti degli archivi, delle biblioteche, dei musei”. Esso è riuscito ad avviare quel lavoro comune che già veniva auspicato nel marzo 2007 a Pistoia durante l’assemblea nazionale ICOM (International Council of Museums).
arebbe interessate trasporre questa esperienza nel tessuto scolastico torinese, non solo elementare: un primo tentativo è in corso grazie a un progetto Comenius Regio finanziato dalla Comunità europea, dal titolo “La scuola è il nostro patrimonio”. Esso vede la collaborazione tra la Città di Torino e la Città di Lione per una discussione trasversale e transfrontaliera, che si cala poi concretamente nel territorio portando proprio tre scuole torinesi, una elementare, una media e una superiore al lavoro parallelo su archivio, museo e biblioteca.  Si tratterà di vedere se, terminati i due anni di progetto, i risultati sapranno incoraggiare altre scuole ed essere la base di un futuro “archivio-museo scolastico diffuso”.
Abbiamo visto da queste quattro scuole che si svelano nel corso del testo, come tutte, dalla più storica alla più moderna, da un lato conservino in sé pezzi importanti di storia e dall’altro - visti a posteriori in una visione di insieme - traggano elementi di comprensione l'una dall’altra; talvolta attraverso elementi che si intersecano (la storia degli edifici che accomuna in qualche modo Sclopis e Margherita di Savoia; la storia dei doppi turni che interessa sia Gabelli che Vidari, oppure la storia degli alunni immigrati che crea un collegamento tra Sclopis e Gabelli) e altre volte no, rappresentando eccezioni e peculiarità. Sono quattro lavori diversi, ognuno condotto con il proprio punto di vista, senza tradire la propria specificità e la propria competenza, ma che insieme ci rimandano a un quadro significativo della storia della scuola torinese.
Questo testo quindi è, in qualche modo, una piccola prova delle potenzialità che potrebbe avere un sistema ragionato di valorizzazione e studio della storia della scuola attraverso i materiali che gli istituti conservano.
Questo è il mio auspicio per i prossimi centocinquant'anni di storia della scuola di Torino: quello di saper conservare e valorizzare il proprio passato, in modo sistematico e unitario, per vivere l'oggi e traguardare il futuro alla luce dell’esperienza accumulata.

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