" Se stai buono fino a sabato, vai al museo. Così mi diceva mia madre quando io ero piccino per farmi star buono. Non ci riusciva, ma mi lasciava andare al museo. Andare al museo era allora ciò che io m'avessi di più caro, e sarebbe anche oggi, se non fosse che non ci posso andare, perchè ci sono. Non posso che uscirne."
Michele Lessona, Torino, 13 luglio 1887
Bambini, toccava a papà occuparsi di noi la domenica pomeriggio, liberare - per qualche ora almeno - la mamma dalla nostra assidua presenza.
In primavera e d'autunno, se non pioveva, portava me e la mia sorellina, a passeggio: nei parchi, ai giardini pubblici, alla ricerca di qualche villa storica, scovata sulla Guida rossa del Touring Club di Milano.
Ma d'inverno era più difficile trovare una meta adatta. E allora, non tutte le domeniche, ma spesso mi sembra, andavamo al Museo della Scienza e della Tecnica di Milano. Lasciavamo il freddo e il cielo grigio della città per immergerci nella luce soffusa e nel tepore del Museo, con le sue locomotive a vapore, le vetrine con le macchine che si muovevano toccando un bottone (primi esempi di interattività museale), sostavamo di fronte al mitico "maiale" - un piccolo sommergibile della seconda guerra mondiale - ma soprattutto assistevamo al film che veniva proiettato nella sala cinematografica interna. Non credo di aver mai visto un film per intero (anche perchè erano film per adulti, che spaventano soprattutto mia sorella, ma un po' anche me), ma di alcuni ricordo qualche immagine e anche il titolo, come "la pattuglia bianca", un film di guerra che mi fece molta impressione, allora.
In visita dagli zii a Torino, venni condotto al Borgo Medioevale, perfetta imitazione tardo ottocentesca di una Rocca e di un Borgo del secolo XIV, immerso nel Parco del Valentino, lungo le rive del Po.
Ero evidentemente piccolo perchè il custode che guidava la vista mi pareva altissimo e imponente come un generale con il suo cappello a visiera gallonato. Dovetti vedere tutto, ma mi colpì soprattutto la sedia utilizzabile anche come gabinetto che egli mi illustrò personalmente, dopo avermi chiesto se sapevo a cosa poteva mai servire quel foro sul piano del sedile chiuso da un piattello di legno che aveva tolto apposta per me. Ricordo l'imbarazzo per essermi trovato al centro dell'attenzione, ma anche il piacere di essere stato preso come destinatario di un'informazione così inattesa, porta con grande autorevolezza, nonostante l'argomento mi sembrasse francamente imbarazzante.
Adolescente, fu la mamma a portare me solo (la sorellina era ancora troppo piccola per apprezzare) in viaggio di istruzione a Roma, dove lei aveva vissuto prima di sposarsi. Fu durante le vacanze di Pasqua, quando già avevo studiato storia greca e romana ed entrai per la prima volta nei Musei Vaticani. Enormi, pieni di statue ed immagini che conoscevo in parte attraverso le immagini dei libri di storia. Ma ricordo anche che ero continuamente distratto dalla vista del pubblico, degli altri turisti (le ragazze in particolare) che attraevano il mio interesse sovente più delle immobili opere d'arte e delle contenute, ma costanti spiegazioni della mamma, che per una volta tornava ad essere la storica dell'arte che era stata prima di provvedere a noi e alle cure della casa. Soprattutto non riesco a isolare le immagini dei musei da quelle della città, dall'azzurro del cielo di Roma che dominava sui palazzi e le chiese barocche, dalla luce e dal calore del sole all'uscita delle catacombe, dal profumo di mare che diffondevano i pini tra le rovine del Foro Romano o dalla cima del Gianicolo o del Pincio con la Città eterna ai nostri piedi.
Fu dopo, e dovevo quindi essere già almeno diciassettenne, quando visitai per la prima, e per molti anni dopo anche l'unica, volta il Museo Storico Valdese di Torre Pellice. Chiuso. Penetrando di nascosto al suo interno un pomeriggio d'estate in compagnia di un amico, figlio dell'allora moderatore della Chiesa valdese che aveva il suo alloggio estivo al piano superiore. Non saprei dire quanto vi restammo dentro prima di uscire, nel timore di essere scoperti dal custode che aveva casa anche lui al piano superiore. Ma ricordo distintamente il piacere di salire sul pulpito del piccolo tempio ricostruito al suo interno, di toccare gli oggetti e persino di poter imbracciare la colubrina di Gianavello o di simulare un duello con le "beidane", le lunghe roncole usate come armi dai valdesi, cui era impedito "al tempo delle persecuzioni" di possederne di vere. Anche in questo caso il ricordo è innanzitutto un ricordo di luce, di una chiara luce estiva filtrata dalle tende di canapa delle finestre, ma anche di quiete e di silenzio. E di emozione per il sentimento di violazione e di privilegio di una visita fuori orario e senza permesso.
Vi furono sicuramente altri musei nella mia infanzia e nella mia adolescenza, ma - al contrario di questi - devo fare uno sforzo per ricordarli. Forse perchè ho vissuto in Italia e prima dei musei sono stato condotto piuttosto a visitare chiese e abbazie, castelli e palazzi. Ma forse perchè a questi musei devo ricordi più piacevoli di altri, collegati come sono ad esperienze di scoperta in libertà, di esplorazione non obbligata , anche se guidata, in cui si confondono le cose e l'ambiente, curiosità e distrazione, la presenza di adulti non troppo paterni nè materni e quella complice di un coetaneo. Non sono in grado di individuare per ciascuno un apprendimento specifico, una conoscenza determinata, quanto piuttosto una certa consuetudine con dei luoghi, in un rapporto a schema molto aperto, che ha contribuito certamente a includere i musei più tra i luoghi che fanno parte della vita e del sapere, senza erigerli in un'aura di sacralità e di imposizione che certamente non avrebbe aiutato, molti anni dopo, non solo a frequentarli con piacere, ma addirittura a lavorarvi.
Daniele Lupo Jallà