Nato da passioni collezionistiche individuali e istituzionali, cresciuto in una temperie borghese come deposito del bello condiviso da ampie fasce della società, il museo attraversa in questi anni una rilevante trasformazione che tende a mutarne le stesse ragioni d'essere, i paradigmi organizzativi, le strategie gestionali; in una parola, la valenza culturale che il museo assume e mantiene all'interno delle dinamiche sociali ed economiche.
Se per tutto il secolo diciannovesimo e per buona parte del ventesimo il museo ha costituito, nella visione della società, il luogo di raccolta e protezione di cimeli, reperti, oggetti del passato ammirando i quali gli individui possono ricostruire parte della propria storia, negli ultimi decenni la moltiplicazione dei modelli testimonia un disagio vistoso: il museo tradizionale dialoga con una fetta molto contenuta della società, una sorta di élite erudita (e non ecessariamente colta) che decide di trarre benessere identitario anche attraverso la visita; pochi visitatori appartenenti a gruppi sociali Omogenei riempiono le sale dei musei di tutto il mondo, provando l'avvenuta visita attraverso l'acquisto dei cataloghi, istituendo paragoni e confronti del tutto discutibili, identificando il museo con la città non già con riferimento al contenuto dell'offerta culturale ma soltanto in termini di identità geografica. Non è un caso che i grandi musei londinesi contengano per lo più reperti e opere d'arte tratti dai diversi continenti e quasi mai legati all'identità e alla cultura della Gran Bretagna.
Il disagio per questo modello museale appare con chiarezza quando si considera il sostanziale fallimento di qualsiasi strategia mirata all'espansione del pubblico. Nonostante questo obiettivo sia più o meno esplicitamente citato in tutti gli enunciati di politica culturale, alla prova dei fatti ciò che è avvenuto negli ultimi decenni è una oscillazione delle dimensioni del pubblico dei musei (che ha parzialmente abbandonato il campo negli anni Ottanta, per tornare numeroso al volgere del secolo, v. Fuortes, 2002), e un aumento del pubblico delle grandi mostre, che sembrano intercettare fasce del tutto diverse da quelle dei visitatori dei musei, anche a causa dell'assenza di qualsiasi tentativo operativo di istituire collegamenti o elementi di attrazione tra le une e gli altri.
Le interpretazioni di questo fenomeno di stasi del pubblico dei musei appaiono quanto meno riduttive. Si può fare riferimento al livello del prezzo, ma a ben guardare l'accesso ai musei d'ogni genere (statali e comunali, privati ed ecclesiastici) costa meno di una pizza e una birra, di un lettino e un ombrellone, di un compact disc. Vedremo più avanti in che modo il prezzo, adattato rispetto alle aspettative di soddisfacimento edonistico del consumatore, può svolgere un qualche ruolo di deterrenza nei confronti della decisione di visitare un museo; ma certamente non si può dire che il prezzo in termini assoluti sia elevato.
Si può anche confrontare con altri consumi culturali, relativamente ai quali alcuni economisti ritengono che sussista una forte competizione rispetto al consumo museale; dato il poco tempo libero a disposizione dell'individuo, si argomenta, questi è chiamato a scegliere tra una miriade di opportunità (televisione, cinema, lettura, shopping, sport, etc.) che non vedono certo il museo ai primi posti, anche perché altri consumi sono più comodi, si pensi alla televisione per la quale studiosi di qualsiasi disciplina sottolineano la passività dell'atteggiamento del consumatore e quindi la bassa “fatica” associata al consumo stesso. L'argomento della competizione va considerato fallace: chi decide di visitare un museo lo fa, di norma, perché interessato anche soltanto in modo generico all'offerta specifica di quel museo; infatti, chi visita un museo non necessariamente visita “in automatica” tutti gli altri musei, salvo che non sia attratto dalla collezione; ciò implica che non esiste alcuna competizione tra musei e altre forme di utilizzazione del tempo libero il cui contenuto è del tutto imparagonabile; il problema è piuttostolegato all'insufficiente capacità che i musei mostrano di comunicare e diffondere la percezione dei benefici derivanti all'individuo dalla visita.
Un ulteriore argomento riguarda il grado d'istruzione dei visitatori. Ora, è vero che le indagini svolte sul tema mostrano una prevalenza di visitatori con titoli di studio medio-alti, ma se si fa riferimento al basso grado di presenza della storia dell'arte negli insegnamenti superiori, si capisce che il problema è più complesso; per alcuni versi, si potrebbe immaginare che gli individui con titoli di studio più elevato godono di maggior tempo libero e soprattutto hanno orari di lavoro tendenzialmente più flessibili (gli impiegati pubblici hanno alcuni pomeriggi e tutto il sabato liberi, a differenza dei commercianti e dei loro dipendenti, per fare un esempio facile); in ogni caso, la teoria economica (Stigler e Becker, 1965) suggerisce che il volume del consumo culturale presente dipenda in larghissima parte dal volume del consumo culturale passato, ossia dall'esperienza culturale che diventa bagaglio di conoscenze e per ciò stesso attiva il bisogno di ulteriori consumi culturali, nella consapevolezza di una soddisfazione marginale crescente. Ciò che manca, dunque, non è l'istruzione in senso canonico, ma l'esperienza diretta del consumo culturale, ed è questa che andrebbe attivata possibilmente in anni precoci per plasmare i consumatori del futuro prossimo.
In sintesi, le lamentele relative a prezzi proibitivi, televisione pervasiva, scarsa presenza della storia dell'arte nei programmi scolastici sembrano spiegare piuttosto poco, se si vuole in qualche modo interpretare il fenomeno della stasi dei visitatori museali e del limitato interesse che le giovani generazioni mostrano verso il consumo culturale (dato confermato, per più d'una via, anche all'indagine che qui si presenta). D'altra parte, si consideri che il settore dei musei appare in questi ultimi anni circondato da un'aura di nuova curiosità, per quanto la sua possibile evoluzione sia ancora poco chiara anche agli stessi operatori, spesso oscillanti tra il consolidamento del ruolo sacrale dei musei stessi e la loro opposta e altrettanto insensata spettacolarizzazione. Il punto è un altro e merita certamente cauti e curiosi approfondimenti: la cultura nel suo insieme e i musei in particolare non sono più visti come il ricettacolo della memoria collettiva, ma tendono a diventare nelle aspettative dei visitatori e dell'intera società dei poli dinamici di produzione di conoscenza e, per questa via, delle “imprese dell'immateriale”pienamente ed efficacemente inserite nel tessuto territoriale, sociale ed economico di riferimento.
Il museo come attrattore e come attivatore
Il museo è pertanto una delle realtà su cui si concentrano più speranze quando si pensa ad un nuovo modello di distretto culturale che sappia inserire i meccanismi dell'offerta culturale all'interno di uno scenario vitale e competitivo di sviluppo economico locale.
E' ormai chiaro che il museo non può avere all'interno del modello distrettuale il ruolo di centro di profitto: nessun museo, anche i meglio gestiti, può ragionevolmente produrre profitti, e a maggior ragione non può assicurare una profittabilità tale da assicurare un rendimento soddisfacente per l'investimento spesso ingente necessario per la sua creazione e messa a regime.
Tuttavia, una casistica internazionale ormai ampia mostra come il museo possa svolgere un ruolo importante come attrattore e come attivatore.
Da un lato, esso agisce come attrattore nella misura in cui è in grado di aumentare la visibilità del sistema locale a cui appartiene, contribuendo all'orientamento di flussi turistici, di decisioni di investimento, di copertura mediatica ecc., tutte risorse preziose nei moderni processi di sviluppo locale. Limitandoci soltanto a casi europei, il Guggenheim Bilbao, la New Tate London, il complesso del Museum Quartier di Vienna o il complesso della Ciudad de las Artes y de las Ciencias di Valencia sono tutti esempi molto noti ed eloquenti di museo-attrattore (o di cluster di musei-attrattori, come nel caso di Vienna e di Valencia).
Dall'altro, il museo agisce come attivatore nella misura in cui le sue iniziative e i suoi contenuti sollecitano l'emergere di nuovi progetti imprenditoriali, la formazione e la selezione di nuove professionalità, il varo di progetti di responsabilità sociale rivolti alla comunità, la rilocalizzazione di attività produttive e residenziali all'interno del sistema urbano. Esempi famosi di musei-attivatori, sempre restando nel contesto europeo, sono Ars Electronica a Linz, Baltic a Gateshead, il Magasin di Grenoble, il Palais de Tokyo a Parigi.
In tutti i casi di studio di successo, tanto quando emerge con particolare forza la funzioneattrattore che quella attivatore (che naturalmente non si escludono e nei casi più evoluti si potenziano a vicenda), si nota chiaramente che, accanto alla necessaria capacità di catalizzare energie e risorse provenienti dal di fuori del contesto locale, il museo riesce con successo a mobilitare e coinvolgere attivamente anche il pubblico e le risorse economiche del sistema locale che lo esprime. In altre parole, il museo che 'funziona', a prescindere dalla sua vocazione e dalle sue caratteristiche specifiche, è un museo che è vissuto e utilizzato come risorsa in primo luogo da coloro che, vivendo nella città o nel sistema metropolitano che lo ospita, godono di condizioni fisiche di accesso facilitate e privilegiate.
Questa concezione sembra essere lontana da molti dei modelli e delle esemplificazioni tipicamente prodotti nel dibattito italiano, che tende invece in genere a sottolineare fortemente la vocazione 'turistica' del museo, immaginando come destinatario privilegiato quando non esclusivo il turista che non vive nella città e che pianifica un viaggio appositamente per visitarlo, generalmente all'interno di un pacchetto più vasto di offerta turistica. All'interno di questa prospettiva, il museo è una risorsa che ha senso prendere in considerazione all'interno della prospettiva temporale sui generis ed 'eccezionale' del viaggio turistico, ma che non appartiene alla quotidianità, e men che meno alla sfera del lavoro e della relazionalità di tutti i giorni.
Questa caratterizzazione del museo appare molto limitante, in primo luogo in quanto è ampiamente disattesa nel caso dei modelli museali di maggior successo e prestigio, in secondo luogo in quanto se un museo non si inserisce a pieno titolo nel circuito economico, relazionale e identitario del sistema locale difficilmente potrà contribuire in modo attivo e consistente allo sviluppo di una economia distrettuale, che come è noto segue il modello della fitta rete di interdipendenze locali piuttosto che quello ormai obsoleto della megastruttura che 'traina' un'economia locale passiva e incapace di esprimere modelli imprenditoriali e pulsioni innovative proprie. Un museo vitale non offre soltanto percorsi espositivi di qualità ma anche spazi di relazione, ambienti confortevoli per riflettere e immaginare, occasioni di stimolo e di curiosità.
In un museo vitale le persone si incontrano, si danno appuntamento, si 'rifugiano' nei momenti in cui hanno bisogno di nutrire la propria immaginazione o anche semplicemente di stare bene con sé stessi. In altre parole, i musei vitali sono una componente preziosa di una quotidianità densa e stimolante, e contribuiscono in modo sostanziale a determinare il livello di vivibilità e l'identità del contesto urbano che li esprime.
Naturalmente, questo ruolo del museo richiede una serie di radicali modifiche nella stessa concezione espositiva: negli ultimi anni i musei italiani hanno considerato un punto di forza l'attivazione dei servizi ex legge Ronchey, utilizzando i dati sulle vendite come conferma della validità di questa politica. Certamente l'estensione delle opportunità del visitatore, che oggi può scegliere testi più o meno specialistici, acquistare una visita guidata o noleggiare un'audioguida, acquistare riproduzioni, stampe, fotografie etc., va valutata positivamente. Ma se si fa riferimento alle aspettative dei visitatori, si può affermare che esse sono soltanto parzialmente soddisfatte da un'offerta culturale che appare schizofrenica: da una parte una collezione esposta secondo criteri organizzativi tradizionali e secondo forme di certificazione della qualità legate alla rilevanza storico-artistica dei pezzi esposti; dall'altra una serie di supporti informativi ammassati seondo criteri commerciali (e dunque senza alcuna chiave di lettura) e collocati alla fine della visita e pertanto nell'impossibilità di accrescerne il valore prima o durante, ma soltanto dopo.
Un efficace adeguamento dell'offerta museale alle aspettative cognitive dei visitatori (che cercano identità, senso di appartenenza, conoscenza e approfondimenti, comunque stimoli emotivi, estetici, intellettuali) comporterebbe una rilettura dell'intero materiale museale, in modo da integrare le opere della collezione con tutti gli specifici supporti informativi che possono arricchire l'esperienza del visitatore. In questo senso, il museo appare ancora poco consapevole delle proprie potenzialità culturali, a causa di un atteggiamento ingiustificatamente paternalistico in capo ai decisori tecnici. E' questa direttamente e indirettamente una delle cause del limitato interesse dei giovani e di tutti i visitatori potenziali nei confronti dei musei stessi: essa genera la percezione del museo come di un luogo chiuso (e dunque non aperto al territorio di riferimento), autoreferenziale (e dunque non capace di dialogare con i visitatori in modalità multidimensionali), noioso (e dunque non capace di stimolare curiosità e altre emozioni per i non addetti ai lavori). Ed è su questo campo che si gioca la sfida fondamentale per la sopravvivenza stessa dei musei in una società che sempre di più pretende di identificare i benefici anche immateriali a fronte dei quali le viene chiesto di compiere un sacrificio finanziario.
La domanda di cultura e la sua misurazione
La letteratura economica ha fatto più di uno sforzo per investigare sulle determinanti della domanda di beni e servizi culturali; l'argomento è complesso e si presenta ricco di difficoltà di vario genere. Si consideri innanzitutto il tema della misurazione dell'offerta e della domanda di cultura. I dati macroeconomici sull'acquisto di biglietti d'ingresso nei musei o nei teatri, così come quelli relativi all'acquisto di libri o di dischi mostrano un'evidenza soddisfacente soltanto se si fa riferimento al supporto materiale, ma piuttosto parziale se invece ciò che interessa è cogliere l'interesse che gli individui manifestano per la cultura in quanto fenomeno: se non è un problema conoscere la dimensione della domanda di libri, è molto più complesso procedere ad una sua disaggregazione secondo il diverso contenuto, immaginando di poter ritenere che un romanzo viene acquistato e letto per il suo contenuto culturale, mentre un manuale di cucina è considerato per così dire un sostegno tecnico per svolgere correttamente un'attività materiale.
Naturalmente il problema è reso ancor più spinoso dalle potenziali controversie che sorgono quando si vuole stabilire quali prodotti sono “culturali” e quali no, soprattutto alla luce del carattere legittimamente soggettivo che hanno queste valutazioni (v. Trimarchi, 2002). Ciò implica che la domanda di cultura può essere conosciuta soltanto “per approssimazione” e senza comunque lasciare all'analista la facoltà di stabilire in autonomia quali prodotti potenzialmente culturali (musei, teatri, libri, dischi, etc.) possiedono effettivamente delle caratteristiche culturali e quali invece appaiono prodotti di semplice intrattenimento. Qualsiasi possibile elaborazione in questo senso si scontra con la varietà delle valutazioni sul contenuto culturale: se tutti sono d'accordo che ascoltare un concerto di musica classica sia un consumo culturale, esiste tuttora un margine di controversia relativamente al jazz o al rock, e lo stesso ragionamento si può applicare (e viene applicato quotidianamente, in forme più o meno esplicitamente consapevoli) al cinema, alla lettura, al teatro di prosa, alla danza, ai musei.
Contraddizioni altrettanto rilevanti sorgono nel momento in cui si intenda identificare le determinanti della domanda di cultura e successivamente misurarne l'impatto quantitativo sull'andamento della domanda stessa. Appare chiaro che un'analisi di questo tipo riveste un ruolo fondamentale se si intende tradurre in strategie operative e concrete gli intenti generali e astratti della politica culturale: allargare il pubblico, diffondere la cultura nel territorio, promuovere le professioni della cultura, etc.; la domanda di cultura non può essere esaminata in termini di preferenze rivelate (ossia seguendo il comportamento del consumatore ed evincendone le preferenze dagli acquisti effettivamente realizzati) per una serie di ragioni, tra le quali la diseguale distribuzione dell'offerta culturale nel territorio (e la conseguente sperequazione nelle opportunità di accesso), la natura pubblica o quasi pubblica dei beni e dei servizi culturali (che possono essere consumati congiuntamente senza costi addizionali nel caso di ulteriori consumatori) e soprattutto per l'impossibilità di catturare il valore percepito in modo soggettivo e “personale” da ciascun consumatore in un prezzo che per ragioni pratiche può essere differenziato in misura molto limitata e che corrisponde spesso a una frazione modesta dell'intero costo del consumo culturale.
Le indagini che hanno cercato di superare almeno in parte questi problemi si rifanno di norma a tre filoni metodologici: innanzitutto, gli studi econometrici, che procedono all'identificazione delle possibili determinanti della domanda e misurano le variazioni della domanda stessa indotta da variazioni di ciascuna di tali determinanti. Piuttosto omogeneamente, questi studi concludono che l'impatto più rilevante sulla domanda di cultura viene esercitato da grandezze di natura socioeconomica e demografica, quali il livello d'istruzione, il livello del reddito, la fascia d'età. Si deve ritenere che tali indagini riescano certamente a istituire delle corrispondenze utili, fotografando le caratteristiche del consumatore culturale; ciò che rimane in dubbio, tuttavia, è la pertinenza delle relazioni causali identificate in questo modo: se è vero che i consumatori culturali sono tendenzialmente abbienti, si può affermare con altrettanta certezza che è il livello del reddito a spingerli a consumare musei e teatri? Probabilmente no. Nel senso che esistono ancora più individui altrettanto ricchi e che non sono per nulla interessati al consumo culturale; ciò significa che non è il reddito in quanto tale a spiegare il consumo culturale. Piuttosto si potrebbe parlare di un vincolo lento: gli individui più abbienti hanno più facilmente accesso a informazioni culturali per tutto l'arco della vita, dispongono di più tempo libero, ricercano consumi di status, sono di norma più istruiti.
Ancora più controversa appare la relazione tra domanda e prezzo. Numerose analisi (v., ad esempio, Moore (1968), Throsby e Withers (1979), Greckel e Felton (1987), Oteri e Trimarchi (1990) hanno tentato di misurare l'elasticità della domanda di cultura rispetto al prezzo, inserendo nel modello le consuete variabili, quali il livello del reddito, il prezzo dei sostituti, il consumo precedente, etc. Come si è appena osservato, queste variabili mostrano una capacità esplicativa piuttosto limitata se si fa attenzione ai nessi causali, se poi si fa specifico riferimento al prezzo come determinante a contrario sensu del consumo culturale ne risulta un quadro variegato, che mostra coefficienti contraddittorî e spesso caratterizzati da un basso grado di significatività statistica.
In una lettura radicale del consumo di cultura, si potrebbe affermare che il prezzo è irrilevante.
Ciò che avviene, sostanzialmente, è che per alcuni prodotti culturali (come ad esempio un'opera molto famosa, o un museo di reputazione internazionale), il livello assoluto e le variazioni del prezzo esercitano un'influenza estremamente limitata sulle decisioni del consumatore; egli è disposto a pagare anche cifre molto elevate pur di consumare quel determinato prodotto, in quanto il costo-opportunità del consumo (ossia il valore percepito delle alternative più convenienti) è molto basso e dunque la percezione dell'utilità che si può ricavare dal consumo di questi prodotti appare forte sia sotto il profilo dell'accumulazione di conoscenze à la Stigler e Becker, sia sotto il profilo più strettamente emotivo ed edonistico.
Al contrario, nel caso dei prodotti culturali più negletti, tendenzialmente conosciuti e apprezzati da una nicchia di consumatori (si pensi al teatro sperimentale, al repertorio musicale antico, ai musei specialistici, etc.), riduzioni anche consistenti del prezzo non riescono a conseguire effetti visibili sull'espansione del pubblico, in quanto l'avversione al rischio della maggioranza degli individui attribuisce un valore molto elevato al costo-opportunità e così preferisce non destinare il proprio tempo al consumo di quei prodotti culturali, qualunque sia il livello o la variazione del prezzo. In altre parole, i beneficî attesi dal consumatore appaiono piuttosto bassi (perché il prodotto è del tutto sconosciuto, perché si tratta di forme d'arte con le quali il consumatore non è familiare, etc.) da scoraggiare comunque la scelta di consumare, anche a fronte di un prezzo invitante o addirittura nullo. Si consideri, incidenter, che è proprio da queste osservazioni che dovrebbe partire un'analisi sui possibili meccanismi di attrazione di nuovo pubblico, e di consolidamento del pubblico esistente, meccanismi che vanno fondati non già sul consunto e controverso binomio prezzo-qualità, bensì sulle motivazioni cognitive del consumo culturale (riferibili a problemi di codici linguistici, di esperienza, di “autorizzazione” a formulare giudizî soggettivi).
Il secondo approccio incide proprio sul rapporto tra scelte di consumo e valore attribuito all'offerta culturale, catturando in qualche misura i riscontri del processo cognitivo di apprendimento e apprezzamento da parte del consumatore: è il metodo della valutazione contingente (v. sul punto per tutti Pollicino, 2003), che attraverso un complesso procedimento di indagine tende a conoscere il valore che realisticamente ciascun consumatore attribuisce al prodotto culturale; il metodo si basa su ipotesi credibili formulate dall'intervistatore, che conducono per gradi l'intervistato a enunciare il valore-soglia da lui stesso attribuito al prodotto da consumare. Se il metodo presenta il limite di un eccesso di fiducia nel realismo delle dichiarazioni dell'intervistato (in quanto poi il pagamento delle somme dichiarate non gli viene chiesto, e la cosa è palese in re ipsa), tuttavia esso presenta il merito di elicitare dichiarazioni consapevoli e documentate sul valore percepito da ciascun consumatore culturale.
Le caratteristiche del metodo della valutazione contingente lo rendono particolarmente attraente se si intende svolgere un'indagine sul valore che il consumatore attribuisce alla spesa pubblica per la cultura; il metodo sarebbe infatti ridondante se si volesse semplicemente comprendere il valore “di mercato” attribuito ai consumi culturali, per i quali comunque i dati integrati sul costo del consumo stesso possono già fornire indicazioni eloquenti; al contrario, la valutazione contingente appare abbastanza utile per misurare sostanzialmente il grado di approvazione che un campione rappresentativo di una determinata comunità territoriale manifesta nei confronti di una iniziativa pubblica di investimento nei confronti di un certo prodotto culturale (ad esempio, un progetto di restauro di un monumento).
Il terzo approccio d'indagine nei confronti della domanda di cultura è quello realizzato attraverso interviste e rassegne; per quanto si tratti di due distinti metodi, si deve osservare che sia la significatività statistico-economica sia la forza esplicativa di entrambe finisce per convergere verso descrizioni sufficientemente convincenti del pubblico della cultura, senza però sfociare in vere e proprie spiegazioni dei meccanismi causali della domanda stessa. Le obiezioni enunciate sopra, con riferimento alle analisi econometriche, relativamente alla fotografia socioeconomica e demografica del pubblico, valgono a maggior ragione per questo approccio.
Inoltre, se nelle indagini econometriche viene preso in considerazione il prezzo effettivo d'accesso alle diverse forme di offerta culturale, nel caso delle interviste e delle rassegne il problema del prezzo viene enunciato in modo assolutamente generico, così come quello (ad esso parallelo) del favore nei confronti del finanziamento pubblico della cultura. Tale approccio, tuttavia, non è privo di valore, nella misura in cui serve ad indicare delle tendenze magari percepite dai rispondenti in modo embrionale o nebuloso e però utilizzabili ai fini di un affinamento degli strumenti e dei meccanismi della politica culturale (o anche soltanto delle strategie di mercato dei produttori culturali). In ogni caso, vista la sostanziale complessità e le potenziali controversie associate ai primi due approcci, si può ritenere che interviste e rassegne finiscano per costituire una prima importante chiave di lettura dei fenomeni culturali e in particolare dell'atteggiamento, delle aspettative e delle valutazioni dei consumatori culturali, purché non se ne enfatizzi il potere esplicativo generale e se ne colga, al contrario, la capacità di fornire indicazioni e indirizzi non sempre percettibili dai riscontri oggettivi (le indagini statistiche sui consumi culturali, ad esempio).
Il senso e gli scopi della ricerca
Racconta un antico aneddoto che quando i galeoni spagnoli si affacciarono per la prima volta al largo della costa delle isole centroamericane, gli indios non erano in grado di vederli, in quanto si trattava di oggetti che andavano talmente al di là della loro esperienza e della loro possibilità di comprensione da renderli a tutti gli effetti 'invisibili'. Soltanto dopo un prolungato (e traumatico) contatto con la nuova cultura i galeoni diventarono finalmente visibili e poterono essere integrati negli schemi di comportamento, nel linguaggio e nell'esperienza quotidiana.
Per molti residenti di città italiane piccole e grandi che possono definirsi a tutti gli effetti città d'arte e di cultura, il patrimonio culturale locale sembra a volte godere di caratteristiche di invisibilità paragonabili a quelle dei galeoni del nostro aneddoto. I musei, le chiese, i palazzi storici semplicemente non esistono, o al massimo costituiscono l'oggetto di una rapida indicazione da fornire all'amico o al parente in visita occasionale. Per il resto, la vita è 'altrove'. E' da questo stato di invisibilità e quindi di non integrazione della realtà culturale negli schemi comportamentali quotidiani che nascono in gran parte le difficoltà di attivare nel contesto italiano meccanismi virtuosi di sviluppo culturale. La comunità locale non conosce bene il proprio patrimonio culturale, non ne usufruisce e non lo ritiene una risorsa strategica su cui investire nel momento in cui si definisce l'agenda delle priorità delle politiche di sviluppo. Di conseguenza, gli investimenti nella cultura vengono generalmente rubricati dalle amministrazioni locali come investimenti a fondo perduto o al massimo come investimenti 'di facciata' che al più possono produrre qualche limitato beneficio di immagine e qualche modesto impatto turistico.
Certo, di primo acchito può sembrare che la cultura sia una delle voci più rilevanti nell'agenda dei pubblici amministratori locali del nostro Paese. Si consideri, però, che l'etichetta “cultura” spesso racchiude una congerie eterogenea di attività, dal concerto in piazza alla mostra di fotografie storiche, dall'enogastronomia ai corsi estivi; se si eliminano le voci “ibride” rimane ben poco; ma soprattutto quello che si può sottolineare è la sostanziale assenza di investimenti culturali e la prevalenza sia pure in un insieme piuttosto contenuto di iniziative e in un volume estremamente ridotto di spesa pubblica di attività “mordi e fuggi”, che nella generalità dei casi non lasciano alcun riscontro sul piano culturale e non generano alcun impatto di medio periodo sul tessuto sociale ed economico del proprio territorio (si pensi soltanto ai benefici che potrebbero generare attività culturali capaci di formare il capitale umano in loco: dall'aumento dell'occupazione al miglioramento nell'allocazione delle risorse, dallo stimolo verso ulteriori investimenti formativi all'avvicinamento verso un sentiero di crescita sostenibile dell'offerta culturale locale).
Si investe poco e male, e spesso con scarsa attenzione alla qualità e senza alcuna visione strategica. Come meravigliarsi allora del ruolo marginale della cultura nella nostra economia e nella nostra società?
Lo scopo della ricerca è quello di andare ad analizzare da vicino il sistema di percezione e di motivazioni di una fascia di pubblico potenziale che viene spesso collocata nel bacino tipico del 'non pubblico' dei musei, ovvero di coloro che appunto non percepiscono il museo come parte integrante dell'esperienza quotidiana della propria città, e che quindi sono totalmente emarginati da eventuali dinamiche virtuose di sviluppo culturale connesse alla valorizzazione del museo come attrattore o attivatore. In particolare, abbiamo deciso di includere nel nostro campione una fascia d'età molto ampia, che va dai 14 ai 28 anni, e che appartiene a sei diverse città italiane, due per macro-area geografica: Verona e Reggio Emilia per il Nord, Firenze e Siena per il centro, Matera e Lecce per il sud. Tutte città dotate di un patrimonio culturale rilevante, e tutte quindi a pieno titolo legittimamente definibili città d'arte, ma consapevolmente differenti nel loro status: si va infatti da città rinomate internazionalmente come Firenze, Siena e Verona, a città non abbastanza conosciute e a volte sottovalutate nella loro offerta culturale come Reggio Emilia, Lecce e (malgrado il suo status di patrimonio dell'umanità sancito dall'UNESCO) Matera.
Nello specifico si è scelto di procedere con una rilevazione distribuita su quattro sotto-fasce di età (14-16, 17-19, 20-24, 25-28), con un maggiore caricamento tendenziale sulle fasce di età più alte soprattutto in quelle realtà territoriali come Firenze e Siena che sono caratterizzate da una massiccia presenza di giovani universitari, che pur non essendo anagraficamente residenti vivono stabilmente in città per un considerevole numero di anni e contribuiscono in modo sostanziale ad alimentarne la domanda di attività culturali e ricreative.
I giovani e la cultura: al di là dei luoghi comuni
La popolazione giovanile rappresenta secondo il luogo comune una tipica sacca di 'non-pubblico' per l'offerta culturale, o quantomeno di un pubblico motivazionalmente debole e discontinuo, ma allo stesso tempo riveste un ruolo assolutamente strategico nel medio-lungo termine in quanto costituisce il tessuto economico e sociale delle città che saranno. Le percezioni, le aspettative e gli schemi mentali di questa fascia generazionale verranno rilevate, analizzate e discusse con grande attenzione con riferimento:
- alla conoscenza attuale dell'offerta museale e alle esperienze finora compiute;
- alle motivazioni all'accesso ad esperienze culturali e in particolare di visita museale all'interno dei loro modelli di uso del tempo libero;
- alle motivazioni all'accesso ad esperienze culturali e in particolare di visita museale all'interno dei loro modelli di formazione e qualificazione professionale;
- alle motivazioni all'accesso ad esperienze culturali e in particolare di visita museale all'interno dei loro modelli di relazionalità.
Il basso grado di partecipazione dei giovani consumatori alle attività culturali, così come risulta da una varietà di indagini, viene spesso utilizzato con intenti morali: si afferma, in breve, che la scarsa sensibilità dei giovani verso la cultura è un indice del degrado della società, e che i giovani anello debole di una catena sempre più complessa finiscono per essere le prime vittime di modelli comportamentali ispirati alla frammentazione dei rapporti, alla brevità dei tempi di azione, all'accumulazione di simboli di status, all'imitazione reciproca in aggregazioni neotribali.
Questa lettura della realtà che a noi sembra francamente un po' troppo apocalittica e apodittica presupporrebbe che i giovani delle generazioni passate abbiano invece manifestato per il consumo culturale un interesse evidentemente più forte, cosa che appare tutta da dimostrare. Il problema è ovviamente più complicato, e andrebbe analizzato nel corretto ordine logico, ossia partendo dalla desolante evidenza di un bassissimo consumo culturale di tutta la popolazione, tanto giovane quanto adulta, tanto ricca quanto povera.
Se si vuole tentare di indagare su basi meno emotive, si può riconoscere che la fascia “giovane” dei consumatori culturali effettivi e potenziali soffre di un'unica limitazione oggettiva: la bassa esposizione all'offerta culturale, in una parola la poca esperienza culturale. Se si riconosce che la teoria di Stigler e Becker (1965) sull'addiction culturale ha un forte fondamento, allora è consequenziale sottolineare che il consumo culturale appare tanto più attraente quanto più estesa è l'esperienza culturale passata di ciascun individuo, non soltanto in termini di esposizione a prodotti omogenei (l'aver visitato dei musei, che spinge a visitarne di ulteriori), ma anche in termini di consumo culturale in genere (l'aver letto dei libri di storia dell'arte, o l'aver viaggiato, che spinge a desiderare ulteriori esperienze culturali).
In questo senso, i giovani si scontrano con un ostacolo piuttosto lapalissiano: hanno avuto meno anni a disposizione, rispetto agli adulti ed agli anziani, per accumulare quello stock di conoscenze che nell'analisi economica è l'indispensabile capitale sul quale si fonda il desiderio di consumare prodotti culturali, attribuendo una rilevanza sempre maggiore al livello qualitativo di tali esperienze, ma mostrandosi sul versante opposto disponibile a pagare un prezzo (rectius: un costo) progressivamente più alto per il consumo culturale stesso.
Inoltre, il senso dell'affermazione secondo la quale i giovani sarebbero dei consumatori “deboli” di cultura cambia profondamente se si articola il concetto stesso di “consumo culturale”. E' infatti evidente che i giovani sono forti consumatori, ad esempio, di musica di largo consumo nelle sue varie declinazioni (rock, pop, metal, techno, lounge ecc., nelle loro infinite e mobili segmentazioni), tanto dal vivo che su supporto, e di spettacoli cinematografici, mentre sembrano meno sensibili all'offerta culturale più tradizionale che si esprime attraverso i musei, le biblioteche, le sale da concerto, le gallerie d'arte, i teatri. E' opportuno osservare che le forme di consumo più popolari tra i giovani richiedono generalmente un modesto investimento cognitivomotivazionale, nel senso che i codici di senso che le caratterizzano sono loro direttamente accessibili e fortemente integrati all'interno dei propri stessi modelli di identità: l'artista pop preferito parla il loro linguaggio, si veste come loro e anzi propone modelli normativi in un senso e nell'altro, fa uso di materiali musicali e si richiama a mondi di significato che costituiscono l'esperienza quotidiana del suo pubblico. Al contrario, le forme di offerta culturale più canoniche fanno spesso riferimento a domini di esperienza e mondi di significato molto lontani da quelli dell'esperienza quotidiana del pubblico giovanile, presuppongono una notevole quantità di informazioni e nozioni che vanno raccolte e assimilate, prevedono modalità di fruizione che vengono spesso percepite come antitetiche a quelle 'autenticamente espressive' di un concerto dal vivo o di una grande multisala cinematografica.
Si consideri, inoltre, che spesso materiali culturali canonici ottengono un notevole successo presso il pubblico giovanile grazie a una sorta di adattamento del supporto e delle modalità di diffusione. A conferma di questo il caso di Nigel Kennedy, violinista britannico, che negli anni Ottanta dominò per molte settimane la classifica “Top of the Pops” con un disco che presentava “Le quattro stagioni” di Antonio Vivaldi nella versione originale, ma con una copertina che ritraeva l'artista con capigliatura e abbigliamento punk. Il mondo giovanile è pronto ad accogliere i prodotti culturali tradizionali, purché ne comprenda il discorso; è chiaro che le modalità tradizionali di distribuzione (in questo caso il disco con un paesaggio barocco in copertina, o simili rassicuranti immagini) possono svolgere da ostacolo verso la scelta di consumare, per il semplice motivo che dichiarano l'appartenenza del prodotto culturale a una temperie dalla quale i giovani si ritengono (più che comprensibilmente) estranei.
Gli esempi di apprezzamento giovanile della cultura tradizionale sono molto numerosi, si pensi a tutti i casi in cui la musica classica o l'arte visiva del passato entrano nei messaggi pubblicitarî, nelle suonerie dei telefoni cellulari, nelle copertine dei quaderni; o ancora a tutti i casi in cui l'arte viene saccheggiata dal cinema, o ai numerosi casi in cui la musica contemporanea cita la classica (dal Brahms di Cans and Brahms del tastierista inglese Rick Wakeman a quello di “Supernatural” del chitarrista messicano Carlos Santana, dal Musorgskij dei “Quadri di un'esposizione” trasposto in rock da Emerson, Lake and Palmer al Domenico Scarlatti delle italiane Orme, per non citare le infinite versioni del Lied “Ave Maria” di Franz Schubert).
I giovani sono in realtà dei formidabili consumatori di cultura, se si intende quest'ultima come l'insieme delle attività che contribuiscono a definire e ad esprimere l'orizzonte di senso degli individui e della società, e questo per un ovvio motivo: l'adolescenza e la giovinezza sono costituzionalmente demandate alla definizione e alla validazione di un proprio modello di sviluppo identitario e quindi gli individui appartenenti a queste fasce d'età assorbono freneticamente tutti gli stimoli e tutti gli elementi che a loro giudizio possono permettere di procedere efficacemente in questa direzione. La mancata attenzione del pubblico giovanile verso le forme di offerta culturale tradizionale è quindi dovuta al relativo sganciamento che queste manifestano nei confronti delle esigenze espressive ed identitarie del pubblico giovanile. Ciò non implica tuttavia che l'offerta culturale debba stravolgere le sue modalità di presentazione e i suoi contenuti per essere accessibile e in ultima analisi appetibile per i giovani.
A causa delle loro dimensioni e quindi del loro potenziale economico, i mercati culturali tradizionalmente rivolti al pubblico giovanile sono infatti caratterizzati da una notevolissima marketing-orientation. In altre parole, si tratta di mercati nei quali la dinamica dell'offerta culturale è influenzata dagli orientamenti e dalle preferenze del pubblico, che sono sistematicamente monitorizzati e divengono parte integrante delle scelte degli stessi produttori culturali, molto più di quanto non accada nei mercati culturali più tradizionali. La logica dell'offerta culturale rivolta al pubblico giovanile tende ad avvicinarsi molto a quella del generico prodotto mass market, sia esso una bibita, un capo di abbigliamento o un attrezzo sportivo. In altre parole le scelte dei produttori tendono a riflettere il più accuratamente possibile l'orientamento del pubblico, piuttosto che perseguire una propria strategia di esplorazione di un progetto di senso che segue una sua logica intrinseca e costringe semmai il pubblico a rivedere le proprie categorie e le proprie aspettative, come accade necessariamente in qualunque esperienza culturale che presenta una ragionevole capacità di permanenza nella memoria collettiva. I prodotti culturali mass market hanno un notevole impatto immediato sulla domanda, e del resto vengono progettati per raggiungere questo scopo, ma manifestano in genere, se si escludono le punte di eccellenza qualitativa, una rapida tendenza all'obsolescenza: a causa della loro eccessiva focalizzazione sui gusti e sulle aspettative immediate del loro pubblico di riferimento, perdono rapidamente la propria capacità di generare interesse presso lo stesso pubblico per il quale sono stati concepiti e richiedono di conseguenza una nuova offerta più 'aggiornata' ai micromutamenti del gusto.
Se una simile logica di offerta culturale è perfettamente giustificabile e comprensibile, nondimeno appare fortemente limitante nella misura in cui crea atteggiamenti di rifiuto preconcetto verso quelle forme di esperienza culturale che non si presentano già fin dall'inizio come dotate di tutti i segnali identitari ed omologanti che l'utente tipico della cultura mass market si aspetta di cogliere per essere motivato a dare credito e attenzione a quella proposta. L'offerta culturale che segue una propria logica interna di sviluppo e quindi manifesta un elevato valore di permanenza nel tempo evita consapevolmente la facile soluzione dello schiacciamento totale sul gusto del pubblico, ma richiede un pubblico attento e reattivo, capace di rispondere con curiosità e attenzione a stimoli che disattendono le loro aspettative immediate. Il grande salto di qualità mentale che si richiede ad un giovane abituato alle logiche dell'offerta culturale mass market è quello di pensare alla cultura come ad un'opportunità di scoperta e non soltanto di conferma delle proprie categorie consolidate. Gli esempi che ci arrivano dai casi di eccellenza internazionali sono chiari ed eloquenti: il problema non è quello di trasformare i luoghi tradizionali della cultura in patetiche imitazioni di luna-park e parchi tematici, ma al contrario quello di costruire degli ambiti esperienziali che, nel pieno rispetto dei contenuti che propongono, stimolino gli spettatori ad un atteggiamento di scoperta, curiosità, coinvolgimento emozionale.
E' per queste ragioni che, interrogandoci sui giovani come 'non pubblico' dei musei, diviene necessario capire in che misura il museo possa rappresentare per loro in primo luogo uno 'spazio di esperienza', e non un luogo di coercizione lontano dai propri interessi e dai propri desideri, un prolungamento della logica coattiva dell'istruzione obbligatoria. E se dunque il museo può essere uno spazio di esperienza, è necessario chiedere ai nostri interlocutori in che misura essi sono disposti a considerarlo uno spazio di relazione, uno spazio di apprendimento, uno spazio di ricreazione. Queste indicazioni sono importanti per definire una politica di offerta museale più incisiva ed efficace, soprattutto in un paese come l'Italia che, sebbene ancora confusamente, comincia a manifestare interesse verso la cultura come strumento di sviluppo locale e quindi come dimensione produttiva economicamente significativa. Un paese capace di produrre cultura non può non essere in primo luogo un paese che consuma cultura: la prima scommessa da vincere è allora quella di capire se e come sia possibile aiutare i nostri giovani ad allargare il più possibile il loro spazio di esperienza culturale e quindi in ultima analisi la loro libertà di scelta e di autodeterminazione. La cultura del museo non è nemica di quella della multisala o del teatro tenda: non è un problema di contrapposizione tra due logiche di esperienza culturale, ma al contrario di ampliamento della sfera del possibile e dell'interessante.
I risultati della ricerca
Che cosa ci dicono dunque i risultati della nostra ricerca? Il primo dato che emerge è il livello relativamente limitato della partecipazione culturale, anche quando viene intesa nei termini ampi discussi sopra, e con una interessante declinazione per macro-aree territoriali. La partecipazione tocca i livelli più alti a nord (85% a Reggio, 83% a Verona), livelli un po' inferiori al centro (76% a Siena, 72% a Firenze), per raggiungere valori oggettivamente bassi al sud (63% a Lecce e addirittura 50% a Matera). In una economia post-industriale come la nostra, caratterizzata da una dimensione sempre più immateriale del consumo, ci sarebbe da aspettarsi che la partecipazione alle attività culturali estensivamente intese si avvicini al 100%, ma il dato della nostra ricerca ci dice che siamo ancora molto lontani da questo valore, tanto più quanto più basso è il livello di sviluppo socio-economico del contesto locale. Si tratta inoltre di città che, come si è detto, meritano tutte a vario titolo la qualifica di città d'arte, e che inoltre, come si può vedere dalle schede specifiche, sono caratterizzate non soltanto da una ricca offerta di beni culturali, ma anche da una vivace programmazione di attività ed eventi in ogni area della produzione culturale.
Nonostante l'acqua sia disponibile, il cavallo non beve. Resta da capire perché Naturalmente, i dati dell'indagine possono essere letti alla luce di due possibili approcci: da una parte essi possono essere considerati per lo più una sorta di conferma di quella che viene ritenuta di norma la situazione del consumo giovanile, in cui l'uso sociale del tempo libero prevale su consumi più mirati, il cinema vince sulla sala da concerto, e così via, a confermare secondo queste parziali interpretazioni che i giovani preferiscono altri consumi, in quanto la loro capacità di attenzione è esaurita da esperienze che si presentano sensorialmente come più “forti”; ne risulta una stigmatizzazione delle scelte giovanili, che distratte dal rumore di fondo di esperienze “violente” non avrebbero nessun motivo per consumare la più meditativa cultura. Si è già detto sopra quanto questa visione sia fallace e fuorviante. Dall'altra parte, i risultati dell'indagine forniscono una serie di incoraggianti indicazioni tendenziali, che vanno certamente decrittate con accortezza, e che costituiscono una imprescindibile base per elaborare e formulare alcuni indirizzi di politica culturale che invertano finalmente il rapporto di consequenzialità logica tra prodotto e consumo culturale; se la domanda di cultura è bassa, si argomenta spesso, la responsabilità va ascritta allo scarso interesse che i consumatori manifestano; non viene in mente a nessuno che con tutta probabilità lo stesso disegno dell'offerta culturale (confinata in luoghi sacrali e richiedente un consumo ritualizzato) risponde a un modello secondo cui deve essere il consumatore a “cercare” il prodotto culturale, a sforzarsi di comprenderlo, e ad apprezzarlo comunque, sotto la pena dell'etichetta di “ignorante”. Al contrario, si deve ritenere e i dati che di seguito sono commentati sembrano fornire una formidabile spinta in questa direzione che tocca al prodotto culturale e alle sue modalità organizzative tenere conto della radicale trasformazione della società, dei suoi linguaggi e delle sue aspettative e “cercare” il consumatore con l'intento di facilitare il suo rapporto con l'offerta culturale.
I dati generali di riferimento
Partiamo dall'analisi comparativa dei campioni utilizzati. Per i motivi già indicati, i campioni di Firenze e Siena sono costituiti non soltanto da residenti della città e della provincia, ma anche da residenti in regione e fuori regione: gli universitari fuori sede, che hanno un peso primario nella domanda culturale della città e che riflettono il forte potere attrattivo delle due sedi universitarie toscane, mentre nel caso delle altre città rilevate la presenza spesso molto importante di una sede universitaria manifesta comunque una minore capacità attrattiva extra-regionale. Quanto al titolo di studio, in tutte le città la maggioranza del campione possiede almeno un diploma di scuola media superiore: si tratta quindi di un campione fortemente scolarizzato e quindi in possesso, almeno teoricamente, dei requisiti informativi minimi per accedere all'offerta culturale cittadina.
Inoltre, la percentuale del campione di individui che tuttora frequentano un corso di studi non scende mai in ciascuna città al di sotto del 70%: si tratta a maggior ragione quindi di persone che stanno attualmente effettuando un investimento formativo e che quindi almeno in via di principio dovrebbero essere fortemente interessati ad esperienze di consumo culturale di qualche tipo. Tra coloro che ancora studiano, la percentuale degli universitari varia dal 66% di Firenze al 26% di Verona. La tipologia dei rispondenti lavoratori non mostra caratteristiche strutturali di rilievo, se si esclude il 17% di impiegati che compongono il campione veronese e che fanno da pendant alla bassa percentuale di universitari della stessa città; è del resto stato più volte rilevato come in alcune regioni dell'Italia settentrionale e in particolare nel nordest l'esistenza di abbondanti opportunità lavorative spinga molti ad un inserimento precoce nel mondo del lavoro alla fine del ciclo della scuola media superiore.
Relativamente alle fasce orarie che ospitano le attività culturali, un dato generalizzato, comune a tutte le città, è la preminenza della fascia oraria serale. La fascia pre-serale si rivela generalmente la seconda in ordine di preferenza, con due eccezioni: Lecce, dove ha un peso notevole la fascia del primo pomeriggio, e Siena, dove ha grande importanza il fine settimana a prescindere da indicazioni di fascia oraria. Questo dato fornisce subito una indicazione chiara: dal momento che i consumi culturali sono dovunque elettivamente orientati nella fascia serale, risultano automaticamente penalizzate tutte quelle attività culturali che prevedono orari diversi di fruizione, e tra queste ci sono ovviamente la grande maggioranza dei musei. Una prima indicazione interessante è dunque la possibilità di realizzare aperture straordinarie dei musei in orari notturni con programmi mirati al pubblico giovanile, tenendo naturalmente conto del calendario dell'offerta locale di attività possibili sulla stessa fascia oraria.
A proposito delle attività sostitutive, abbiamo qui un quadro più variegato a seconda del contesto locale. Una delle modalità più apprezzate di uso del tempo libero è lo stare all'aperto, a passeggio per gli spazi cittadini, nettamente la preferita nelle due città del sud (in cui particolarmente importante resta il fenomeno dello 'struscio' lungo la strada principale), ma anche a Verona.
Anche a Siena è tra le due modalità preferite, anche se quella primaria è qui un consumo culturale: il cinema. Abbastanza anomalo è il caso di Firenze, in cui primeggia la frequentazione di locali pubblici (pizzerie-ristoranti-pub), che caratterizza come seconda scelta anche Verona, seguita dalla frequentazione di amicizie in case private, che si ritrova come seconda scelta nel caso di Matera. Nel caso di Reggio Emilia, abbiamo una sostanziale equivalenza tra frequentazione del cinema e della palestra, che è la seconda attività scelta nel caso di Lecce. Il cinema rappresenta dunque l'unico luogo elettivo per il tempo libero dotato di una valenza culturale (che assume valori particolarmente significativi però solo nel caso di Reggio Emilia e delle due città toscane: nel caso di Firenze è la terza attività, ad un solo punto percentuale dalla seconda). Le associazioni o circoli culturali hanno dovunque un peso marginale, con la vistosa eccezione di Siena, in cui emerge con estrema rilevanza il ruolo della contrada, un aspetto su cui avremo occasione di tornare. Questa anomalia positiva di Siena si ritrova anche nel peso relativo di altre modalità a valenza culturale, come la visita ai musei, il teatro, o l'ascolto di musica in luoghi pubblici: in ciascuno di questi casi, il tasso di partecipazione a Siena è notevolmente superiore a quello delle altre cinque città. Evidentemente il modello di aggregazione e di socialità della contrada, profondamente radicato nell'identità storica e culturale della città, stimola modalità di uso del tempo libero alternativo a quello standard ma ciò nonostante molto motivante. Tra le attività a valenza culturale, l'unica che riesce a richiamare valori di partecipazione significativi in tutte le città è l'ascolto di musica in luoghi pubblici. La propensione al volontariato è relativamente superiore nelle città del centro e del nord rispetto a quelle del sud, e un dato qualitativamente analogo (sebbene su valori superiori) si riscontra nel caso della discoteca.
In conclusione, nelle città del sud la scelta delle modalità di uso del tempo libero lascia intuire una notevole povertà percepita di alternative interessanti (le più gettonate sono il girare per la città, il frequentare case private e locali pubblici, andare in palestra, mentre le attività a valenza culturale fanno registrare, anche in presenza di una offerta tutt'altro che trascurabile, valori di partecipazione molto bassi, con la parziale eccezione del cinema. Nelle città del centro si registra invece una notevole diversificazione delle modalità di uso del tempo libero, particolarmente ricca e marcata a Siena. Una tendenza analoga, sebbene di minore intensità in termini di valori di partecipazione, si riscontra nelle città del nord. Al centro-nord dunque le modalità di uso del tempo libero a valenza culturale vengono percepite come reali opportunità da una fascia non trascurabile della popolazione giovanile.
Dal punto di vista del modello relazionale di uso del tempo libero, la modalità di gran lunga preferita è quella con la cerchia degli amici non legati all'ambiente scolastico, seguita, nelle città del sud e a Firenze, da quella col partner e, nelle altre città, da quella con la cerchia degli amici scolastici. Decisamente minoritario il tempo trascorso con i genitori e gli altri membri della famiglia.
La partecipazione alle attività culturali
Dei tassi di partecipazione alle attività culturali e della loro distribuzione territoriale abbiamo già detto. Se si analizzano i motivi della mancata partecipazione ad attività culturali, troviamo una singolare preminenza della mancanza di tempo in ben quattro città su sei, con l'eccezione di Reggio e Siena: una giustificazione abbastanza singolare se si pensa che la disponibilità di tempo libero in età giovanile è sicuramente superiore a quella in età adulta (con l'ecceione della terza età). E' probabile quindi che questa sia stata considerata da molti una giustificazione 'passepartout' che permette di evitare l'implicito giudizio morale negativo da parte dell'intervistatore.
Una valutazione più attendibile è quella maggioritaria a Siena e Reggio (e comunque seconda a Firenze, Lecce e Matera), dove la principale causa di impossibilità è rintracciata in motivi pratici e organizzativi. Le spiegazioni che emergono a Reggio e Verona sono proprio quelle della scarsità di interesse e della noia nei confronti delle attività culturali. Soltanto a Siena, dove peraltro per i residenti molte attività culturali sono accessibili a prezzi di favore, il prezzo eccessivo del biglietto viene indicato come una causa determinante.
Se passiamo alle specifiche esperienze culturali, il ruolo primario del cinema e della musica non classica all'interno dei modelli di esperienza culturale appare in tutta la sua evidenza: la musica è l'attività preminente a Siena, Verona e Matera, il cinema a Firenze, Reggio Emilia e Lecce, ma con valori di partecipazione comunque in genere molto vicini. La terza attività è ovunque tranne che a Siena, dove si privilegiano le grandi mostre, la visita a musei e gallerie, ma con valori di partecipazione molto distanti da quelli delle due attività preferite (in genere intorno alla metà dell'attività principale). L'interesse per la visita di palazzi, monumenti, chiese e siti archeologici è abbastanza modesto (ma non trascurabile). Soltanto nelle città toscane si riscontra un reale interesse per l'arte contemporanea e la fotografia. La punta di interesse per l'opera lirica, non sorprendentemente, si riscontra a Verona, mentre quella per la musica classica a Lecce, dove opera un'importante Istituzione Concertistico-Orchestrale, l'Orchestra Sinfonica “Tito Schipa” ed è attivo un Conservatorio di buona qualità. Il teatro mostra livelli di partecipazione ancora una volta non incoraggianti ma anche non trascurabili in quattro città su sei (con l'eccezione negativa di Firenze e Verona). A Verona c'è più interesse per il balletto, che trova buoni riscontri anche a Reggio (forte di una tradizione di eccellenza a livello nazionale) e a Lecce. Nel complesso, dunque, si conferma il quadro di una popolazione giovanile molto attenta ai consumi culturali 'mirati' alla loro domanda, e molto più tiepida nei confronti delle forme di consumo culturale tradizionale, verso le quali manifestano comunque dei segnali di interesse non trascurabili.
Venendo ai tassi di frequenza media, molto interessante è la situazione di Siena in cui praticamente tutto il campione interessato al consumo culturale esprime come minimo una frequenza di una volta ogni due settimane, con una notevole concentrazione del campione attorno alla frequenza settimanale. Una concentrazione simile, anche se molto meno marcata e con una coda più dispersa verso frequenze di partecipazione basse e bassissime, si ritrova a Firenze. Nelle città del nord predomina invece la frequenza mensile (seguita nel caso di Reggio da quella trimestrale). A Lecce la frequenza maggioritaria è quella ogni due settimane, mentre a Matera è quella più volte alla settimana, seguita immediatamente da quella una volta al mese: un modello dicotomico fatto di frequentatori forti e frequentatori molto sporadici dal peso equivalente. Se si sommano i valori raggiunti da una frequenza pari almeno ad una volta alla
settimana o più, la particolarità delle città del centro emerge con forza: mentre tanto nelle città del nord che in quelle del sud il valore complessivo si attesta sempre attorno al 20%, nel caso di Firenze sale al 33% mentre a Siena arriva addirittura al 66%. Un coinvolgimento dunque abbastanza sporadico per la maggior parte degli individui interessati al nord e al sud, a cui si contrappone un modello di partecipazione attiva e regolare al centro.
Venendo ai motivi della partecipazione ad attività culturali, la passione e l'interesse personale sono dappertutto il fattore prioritario, a cui si accompagna, nelle città del centro e del sud, un interesse per l'accrescimento delle conoscenze che il consumo culturale permette di conseguire.
Nelle città del nord acquista invece maggiore importanza (anche se in misura marginale rispetto all'accrescimento delle conoscenze) la possibilità di socializzazione connessa al consumo culturale. Il fattore socializzazione ha comunque un peso relativo importante anche nelle città del centro, mentre al sud tende ad essere più importante l'aspetto del relax riflessivo. Scarso è invece l'aspetto legato alle mode comportamentali, che tendono ad incidere più su altre dimensioni dell'esperienza quotidiana.
Questi dati appaiono più significativi se incrociati con quello della condivisione della partecipazione alle attività culturali. Ancora una volta emerge una modalità preferenziale per tutte le città: la scelta di partecipare assieme ai propri amici; la seconda opzione è, sempre in tutte le città ma con tassi di partecipazione decisamente inferiori (mai più di un terzo del livello di partecipazione con il gruppo di amici), la partecipazione con il partner. Tranne che per Matera, dove si opta per la partecipazione con altri fruitori appassionati, la terza modalità è in tutte le altre città quella della partecipazione solitaria. E' dunque evidente che, incrociando questi ultimi dati con quelli precedenti relativi alle motivazioni, nelle città del sud la partecipazione con il gruppo di amici riguarda essenzialmente compagnie già formate e strutturate, mentre al nord e al centro questa modalità può prevedere anche occasioni di ulteriore socializzazione e quindi di allargamento della cerchia degli amici. Interessante anche il peso della fruizione solitaria, che evidentemente incarna motivazioni legate alla passione e al desiderio di apprendimento personale. Scarso invece il peso dei genitori, e, con la ricordata eccezione di Matera (e di Firenze, dove questa motivazione ha comunque un peso relativo interessante), quello dei gruppi di fruitori appassionati, il che lascia pensare che comunque le scelte di partecipazione ad attività culturali sono più legate ad una dimensione di passatempo da condividere con la propria cerchia relazionale piuttosto che di sistematica coltivazione di un interesse culturale con altre persone interessate e fortemente motivate.
Quanto alla localizzazione delle attività culturali a cui si è partecipato, l'ottica su cui ci si focalizza è eminentemente locale o al più provinciale, con l'eccezione di Matera dove acquistano un peso importante le attività fuori regione, probabilmente localizzate nel vicino territorio pugliese. Gli spostamenti a largo raggio motivati dal consumo culturale sono in genere scarsi, soprattutto se si esce dall'ambito regionale. Una propensione significativa, che si estende anche alla possibilità di viaggi all'estero a scopo culturale, si rileva però nelle due città del nord. Tanto le due città toscane che Lecce manifestano invece un certo grado di autoreferenzialità, e quindi una scarsa disposizione alla mobilità a scopo culturale.
Quando si chiede agli intervistati di indicare le cinque attività culturali più apprezzate nell'ultimo anno, si assiste ad un fenomeno curioso: il campione delle due città toscane, che come si è visto manifesta una particolare vivacità di iniziativa, mostra una singolare reticenza: ben il 64% del campione senese e il 44% del campione fiorentino non forniscono risposte specifiche, un tasso di non risposta nettamente più alto rispetto al resto del campione. E' difficile dare una spiegazione precisa di questo fenomeno, che potrebbe essere interpretato anche in termini di warm glow: per rispondere a quelle che ritengono le aspettative implicite dell'intervistatore, il campione delle città toscane potrebbe aver sistematicamente sopravvalutato il proprio livello di partecipazione alle attività culturali, senza riuscire alla prova dei fatti a dare indicazioni specifiche relative alla propria partecipazione. Ma potrebbe anche essere un dato più 'culturale' di reticenza o di scarsa disponibilità a ricostruire mentalmente il panorama delle proprie frequentazioni culturali e delle proprie preferenze a questo livello di dettaglio. Del resto, passando al dettaglio delle attività più apprezzate, si verifica, e la cosa certamente non sorprende, che le indicazioni fornite riflettono totalmente le preferenze genericamente espresse: in tutte le città tranne Reggio Emilia, in cima alla graduatoria troviamo spettacoli cinematografici e concerti di musica non classica, con valori di apprezzamento significativi anche per le grandi mostre, che a Verona sopravanzano addirittura i concerti (ma restano ben lontane dal cinema). La situazione di Reggio Emilia è piuttosto anomala, in quanto al cinema, nettamente primo, seguono le grandi mostre e le visite a palazzi e monumenti; un valore interessante si riscontra anche per la visita a musei e gallerie (dato in comune con Verona e, in misura minore, con le città toscane). I concerti sono decisamente sopravanzati anche dal teatro (che presenta comunque valori interessanti anche in tutte le altre città): evidentemente un segnale positivo per una amministrazione cittadina che da anni persegue una politica particolarmente attenta alla programmazione culturale di qualità, cui si accompagna il non trascurabile ruolo del sistema educativo che realizza, già a partire dall'asilo di infanzia, programmi formativi all'avanguardia mondiale (il celebre progetto Reggio Children) particolarmente sensibili ai temi dell'espressione e dell'esperienza culturale, e che a quanto pare continuano ad esercitare nel tempo effetti significativi sulla struttura delle preferenze degli adolescenti e dei giovani reggiani. Nel caso di Verona, a completare il quadro, una non sorprendente preferenza anche per l'opera lirica, anche questa già anticipata nell'espressione generica delle preferenze culturali.
Venendo alla struttura dei consumi culturali in casa, i libri fanno ovunque la parte del leone, anche se significativamente i valori meno elevati si riscontrano nelle due città del nord. Nelle città toscane e a Reggio Emilia acquista un grande peso anche la lettura dei giornali e della televisione (che a Firenze sopravanzano ambedue il libro) mentre a Verona la televisione è sopravanzata non soltanto dai giornali ma anche dall'ascolto casalingo di musica non classica. Nelle due città del sud prevale invece la triade libri-televisione-ascolto di musica, a scapito dei giornali, che comunque mostrano valori prossimi a quelli delle attività più gettonate (e va puntualizzato che a sua volta l'ascolto casalingo di musica anche nelle città toscane e a Reggio ha valori prossimi a quelli delle attività preferite: siamo dunque di fronte ad una relativa omogeneità di scelte sull'intero campione di città, con piccole variazioni locali). In questi dati, se confrontati con i luoghi comuni, sorprende l'interesse per la lettura e il peso alto ma non schiacciante della televisione, probabilmente penalizzata dalla popolarità raggiunta in queste fasce d'età dalla navigazione internet e dai videogiochi che sicuramente assorbono una fetta consistente del tempo dedicato all'interazione con lo schermo. Si consideri anche che negli ultimi anni la televisione generalista ha progressivamente abbandonato i bisogni cognitivi ed emotivi del pubblico giovanile, rivolgendosi per lo più ad un pubblico di anziani confinati in casa, o di adulti in cerca di intrattenimento nelle ore non lavorative. Sono sempre di meno i programmi televisivi disegnati specificamente per un pubblico giovanile; inoltre la persistenza di format abusati (il talk-show sentimentale così come la televisione-verità) ha indotto con tutta probabilità un elevato tasso di abbandoni.
Venendo alla spesa media mensile per i consumi culturali, nel caso dei consumi casalinghi si registra la prevalenza in tutte le città di una spesa moderata, ovvero inferiore ai 25 euro, con una quota rilevante di intervistati, ancora una volta comune a tutte le città, che dichiara una spesa superiore a 25 euro e inferiore a 50. La quota di intervistati che non dichiara spese per consumi culturali casalinghi è più rilevante, in termini relativi, nelle due città del sud, mentre la quota più bassa si riscontra nelle due città toscane, le quali presentano però di contro valori abbastanza modesti di spesa superiore ai 50 euro mensili. I forti consumatori culturali casalinghi si riscontrano soprattutto a Verona e a Lecce. Per i consumi culturali fuori casa, i dati di spesa divergono invece marcatamente da città a città. Nelle due città toscane le quote modali corrispondono alla fascia di spesa 25-50 euro, con valori molto rilevanti anche per la fascia 0-25.
Le due città del nord e Matera si attestano invece su una quota modale nella fascia di spesa 0-25, mentre a Lecce la quota modale corrisponde addirittura ad una spesa nulla: evidentemente, nella città pugliese il modello di consumo culturale a pagamento sembra essere molto più orientato verso l'ambiente domestico che verso quello esterno. Anche nelle città del nord e del sud, come nelle due città toscane, la fascia di spesa 25-50 è ben rappresentata; di particolare interesse il caso di Verona nel quale ad una quota relativamente modesta nella fascia 25-50 si accompagna la quota di gran lunga più alta nella fascia 50-100. Se si considerano i dati di spesa per i soli intervistati che hanno dichiarato di aver partecipato ad attività culturali esterne, emerge un fenomeno molto caratteristico: il valore modale per le città toscane si situa decisamente nella fascia 25-50 euro, per le città del nord nella fascia 0-25 euro, nelle città del sud nella fascia 'nessuna spesa': evidentemente, il pubblico del sud tende a privilegiare la partecipazione ad eventi culturali ad ingresso gratuito. Va comunque osservato che accorpando le quote comprese negli intervalli 0-25 e 25-50, si ottengono valori complessivi piuttosto vicini per tutte le città esclusa Matera. Nelle fasce 50-100 euro e oltre si conferma il netto primato di Verona; da notare che in queste fasce anche Matera presenta ordini di grandezza comparabili a quelli delle altre città; accanto ad una élite disposta a spendere somme rilevanti fatica ad emergere nel caso della città lucana un allargamento di una 'base' di pubblico disposta a spendere somme modeste ma positive nei consumi culturali. Passando infine alla spesa per consumi dell'intero nucleo familiare, spiccano ancora una volta le città toscane con un valore modale nella fascia 50-100, mentre nelle altre quattro città il valore si assesta nella fascia 0-50. Abbastanza rilevante anche il numero degli intervistati che dichiara valori di spesa familiare tra 100 e 250 euro e oltre, soprattutto nelle due città toscane e a Verona.
La domanda potenziale
Se chiediamo al nostro campione di indicarci i fattori che a loro parere ostacolano una effettiva partecipazione alle attività culturali, in cinque città su sei il fattore ostacolante ritenuto più rilevante appare essere la carenza di informazione sulle attività e l'insufficiente promozione delle stesse. Nella sesta città, Firenze, si punta invece il dito sui prezzi troppo elevati rispetto agli altri consumi del tempo libero. I prezzi elevati sono comunque percepiti ovunque come un problema primario, con la significativa eccezione di Verona, dove la capacità di spesa per la cultura si conferma particolarmente alta. Un fattore che assume un peso rilevante è anche la percezione di noia e di pesantezza connessa alle esperienze culturali (a Reggio Emilia, Verona e Matera rappresenta il terzo fattore ostativo in ordine di importanza). A Lecce, Verona e Firenze assume un peso importante il costo complessivo dell'esperienza culturale, che comprende non soltanto il costo del biglietto ma anche quello del trasporto, del pasto fuori casa ecc. A Siena invece un fattore ostativo rilevante è la preferenza per i consumi culturali casalinghi, un fattore che assume un peso rilevante anche a Firenze ma che altrove risulta invece poco determinante. Anche il fattore logistico (code, spostamenti difficoltosi, difficoltà di parcheggio ecc.) ha un ruolo significativo un po' in tutte le città, mentre la scarsa curiosità nei confronti delle proposte culturali si riscontra più che altro nelle città del sud e a Reggio Emilia (dove si verifica evidente una forte segmentazione tra una base di consumatori culturali curiosi e motivati e un segmento della popolazione giovanile poco interessato); in tutte le città tranne che a Verona assume peso anche l'assenza di amici e conoscenti interessati alle attività culturali: il fattore relazionale è quindi piuttosto importante. Abbastanza limitata, invece, con la parziale eccezione delle città toscane, è il senso di inadeguatezza individuale a comprendere i contenuti della proposta culturale, o la percezione che gli eventi culturali siano riservati ad un circolo ristretto di appassionati.
Passando alle indicazioni concrete di possibili incentivi alla partecipazione, notiamo una risposta plebiscitaria in favore degli ingressi a prezzo scontato. Un'altra possibilità particolarmente apprezzata è quella di poter disporre di informazioni preventive a domicilio sull'offerta culturale, una strada relativamente semplice da percorrere e, stando al nostro campione, decisamente promettente nel suo potenziale impatto sui livelli di partecipazione. A Siena, Firenze, Verona e Lecce si manifesta un considerevole interesse nei confronti di un trasporto gratuito, che evidentemente costituisce l'altra faccia dei dichiarati problemi legati alla logistica (e che nelle città toscane si riflette anche in un forte interesse per i parcheggi gratuiti), mentre a Matera e Reggio Emilia si segnala un interesse nei confronti dell'associazione delle iniziative culturali ad altri generi di attività. In tutte le città del centro-sud, e in particolare nelle città toscane, c'è poi un notevole gradimento nei confronti dell'estensione degli orari di accesso e nella programmazione delle attività in orari meno consueti. Modesto invece l'interesse per la prenotazione online dei biglietti (con l'eccezione di Siena) e con la prenotazione presso la posta o la banca.
Relativamente agli aspetti motivazionali della domanda potenziale, si riscontra un certo interesse nei confronti del museo come luogo di formazione e avvicinamento al mondo della cultura e anche di orientamento professionale nei confronti delle professioni culturali: l'aspetto formativo è quello prioritario nelle città toscane e a Reggio, mentre l'aspetto di orientamento professionale riscuote un certo interesse ovunque, particolarmente marcato a Firenze, Reggio e Verona, meno pronunciato nelle città del sud. A Verona tuttavia la risposta modale è la mancanza di interesse nei confronti del museo come risorsa formativa o di orientamento professionale; valori alti di mancanza di interesse si riscontrano anche a Matera. Nelle città del sud si manifesta un particolare interesse con riferimento all'interazione tra il museo e la programmazione scolastica.
A Siena riscuote invece un eccezionale consenso la possibilità che il museo offra accessi internet e percorsi di navigazione guidata, una opportunità che nelle altre città è accolta molto più tiepidamente.
Passando alla dimensione relazionale, a Siena si avverte soprattutto la possibilità che il museo possa diventare un luogo di ristoro, incontri e lettura (una sorta di caffè culturale). In tutte le città ottiene una buona risposta la possibilità di fare del museo un luogo di incontro di altre persone interessate alla cultura mediante una programmazione di apposite iniziative, con un gradimento particolarmente pronunciato a Lecce e a Firenze. A Matera prevale invece uno scarso interesse per il museo come luogo di relazioni sociali: una sorta di fenomeno di 'lock in' perverso in base al quale sono proprio i luoghi nei quali i giovani lamentano la maggiore scarsità di opportunità ad essere quelli meno aperti mentalmente alla trasformazione delle strutture dell'offerta culturale in luoghi che possano alterare profondamente e in meglio i modelli di relazionalità.
Un altro aspetto importante è il confronto tra le aspettative predittive/normative sul 'corretto' prezzo (medio) del biglietto e la sua effettiva percezione. Il campione di tutte le città manifesta una nettissima indicazione di una aspettativa di prezzo del biglietto inferiore ai 10 euro a cui si accompagna, con la sola eccezione di Matera, una percezione del prezzo effettivo compresa tra i 10 e i 25 euro; soltanto nel caso della città lucana assistiamo ad un allineamento tra aspettative e percezione effettiva. Implicitamente possiamo dunque dedurre che la stragrande maggioranza del campione considera i biglietti di ingresso troppo cari, un aspetto che fa chiaramente il paio con l'indicazione generalizzata di biglietti a prezzo ridotto come principale strumento di incentivazione alla partecipazione culturale. Su questa valutazione pesano comunque probabilmente una percezione poco chiara dei costi effettivi di produzione nell'ambito culturale nonché l'idea, in sé non priva di autorevoli sostenitori tra gli stessi economisti della cultura, che le attività culturali siano un bene talmente meritorio da dover essere offerto al pubblico alle migliori condizioni di accesso compatibili con la loro effettiva disponibilità.
L'impressione complessiva è che comunque le valutazioni espresse tendano ad essere effettuate su una base evidenziale abbastanza limitata e frammentaria.
Considerazioni conclusive: per una politica dell'accesso giovanile alla cultura.
L'analisi svolta fornisce un quadro abbastanza eloquente del rapporto tra i giovani e la cultura. Le differenze, pur presenti e comprensibili, tra le situazioni di diverse città non bastano a vanificare la percezione di indirizzi comuni, anzi finiscono per confermare l'esistenza di una certa varietà nel modo di declinare un problema assolutamente condiviso: la persistenza di ostacoli dialogici tra l'offerta culturale e i suoi potenziali fruitori, chiamati tuttora negli intenti di molti operatori culturali a farsi carico dell'intero sforzo informativo che prelude al consumo diretto di beni e attività culturali.
Se si volesse enucleare l'elemento più forte emergente dalle risposte e dalle considerazioni degli intervistati, questo si dovrebbe identificare con l'assenza di una chiara e specifica motivazione verso il consumo di cultura. Giustificazioni del mancato consumo quali la mancanza di tempo o la presenza di generiche difficoltà organizzative non fa che nascondere la mancanza di una spinta precisa; si consideri, infatti, che tutte le attività giovanili comportano degli sforzi organizzativi e una incisiva attenzione al vincolo di bilancio; sia il tempo che le risorse finanziarie risultano limitate molto più per i giovani che per gli adulti, e ciò comporta la selezione di attività a costi bassi (ad esempio, le attività di gruppo in cui lo sforzo informativo è collettivo o viene sostituito dall'imitazione) oppure a soddisfazione elevata (il viaggio fuori città o provincia per andare in discoteca o assistere a un concerto rock, eventi rilevanti nel generare utilità forte, condivisibile e replicabile).
All'offerta culturale manca questo appeal. E manca ancora di più all'offerta culturale dei musei, che appaiono come luoghi chiusi e autoreferenziali. Non è un caso che una proporzione molto limitata dei rispondenti mostra di accettare il modello d'offerta museale esistente, mentre una forte maggioranza si aspetta che il museo si trasformi accogliendo non tanto nuove attività, quanto nuove modalità relazionali; in una parola, che diventi “comprensibile” e stimolante, vuoi attraverso la formazione del gusto e l'organizzazione di attività sociali, vuoi attraverso la possibilità di un contatto interattivo con il web o con materiali multimediali, vuoi è un punto da non trascurare informando preventivamente e “a domicilio” i potenziali utenti delle attività programmate. Lo scollamento tra la cultura e il suo possibile pubblico è assolutamente evidente.
Ne consegue una necessità ormai improcrastinabile di interventi specifici ed efficaci per colmare i vuoti nel complesso percorso che lega l'organizzazione dell'offerta culturale alle scelte del consumatore.
Naturalmente una panoplia di interventi incentivanti nei confronti del consumo culturale (e, in particolare, del consumo culturale giovanile) risulta pienamente giustificata, ma non sulla base dei consueti e fumosi argomenti etici: che la cultura “faccia del bene” può essere evidente sul piano cognitivo individuale, ma potrebbe non bastare come giustificazione per l'allargamento del consumo culturale; in fondo, sono molteplici le attività che accrescono il benessere degli individui, e pur non essendo questa la sede per una discussione sulle priorità sociali si deve rilevare che una dignità altrettanto forte dovrebbe caratterizzare lo sport, il volontariato, la protezione dell'ambiente, etc., tutti aspetti imprescindibili e ugualmente trascurati nel nostro Paese della formazione e del benessere degli individui e delle comunità.
Uno stimolo forte all'estensione dell'accesso nei confronti del consumo culturale e museale risulta, invece, molto rilevante ai fini del conseguimento degli stessi obiettivi produttivi del settore culturale e museale; non soltanto esso è un settore per sua natura relazionale (e, in quanto tale, bisognoso di un pubblico per “esistere”), ma soprattutto sta diventando consapevole che le molteplici ragioni per la sua protezione e conservazione richiedono crescenti flussi di reddito, e che le casse pubbliche statali, regionali e locali non sono più sufficienti a coprire tale fabbisogno.
In una parola, o l'offerta culturale dei musei riesce a mostrarsi fonte di specifico benessere per gli individui e le comunità (che pertanto ne sostengono la sopravvivenza e lo sviluppo in una logica di nobile scambio), oppure si rischia un'implosione finanziaria irreversibile capace di danneggiare anche il percorso svolto fin qui.
E' dunque nell'interesse culturale, materiale e finanziario dell'offerta culturale che la domanda museale cresca, si diversifichi e si consolidi, in modo da garantire un flusso di risorse adeguato al fabbisogno dell'offerta stessa. Questa necessità si scontra con la possibile obiezione relativa allo svilimento ed alla spettacolarizzazione dell'offerta culturale. E' chiaro che un tale pericolo esiste, e che rappresenta in molti casi la soluzione a buon mercato del problema dell'accesso. E' altrettanto chiaro, però, che spingere l'offerta culturale verso lidi superficiali, facendole perdere identità e pertinenza, può conseguire soltanto risultati modesti e di breve periodo, finendo per non attrarre consumatori “di lungo corso”, e ovviamente perdendo anche i consumatori attuali.
Qualsiasi politica dell'accesso deve tenere in massima considerazione l'esigenza irrinunciabile del mantenimento dell'identità culturale: lo sviluppo deve essere dunque culturalmente compatibile (v. Schwartz e Trimarchi, 2002).
Quanto alle azioni specifiche, le indicazioni emerse dalla ricerca appaiono abbastanza univoche e permettono l'enunciazione di una serie di indirizzi che possono essere trasformati (spesso a costo zero) in azioni della pubblica amministrazione locale, in ossequio alle recenti trasformazioni istituzionali che attribuiscono una responsabilità più estesa e più forte ai comuni, alle province ed alle regioni in merito alle politiche culturali, in una filosofia che dovrebbe premiare la cooperazione tra livelli di governo (incluso lo Stato centrale) anziché un'arida separazione stagna degli interventi.
a) articolazione delle fasce di prezzo - tale strumento non comporta necessariamente una 25 riduzione tout court, bensì l'associazione di diverse fasce di prezzo a combinazioni diverse di beni e servizi che vanno ad integrare la visita diretta al museo; in questo modo si consente al singolo consumatore di selezionare consapevolmente quel “pacchetto” di beni e servizi che più efficacemente è capace di accrescere la sua utilità in seguito alla visita, attraverso l'accrescimento dello stock di informazioni (dai testi critici alle riproduzioni fotografiche, dalla guida al compact disc) che consolidano il valore attribuito all'esperienza culturale. La casistica emersa recentemente dalle indagini sui servizi aggiuntivi ex legge Ronchey (v. per tutti Solima, 2000) sembra confermare senza riserve l'efficacia di tale incentivo.
b) allargamento delle fasce orarie - tale strumento implica una riduzione dei costi di transazione per il singolo consumatore e per i gruppi (si ricordi il valore positivo attribuito dai rispondenti alla condivisione dell'esperienza culturale); naturalmente l'apertura serale dei musei va accompagnata da adeguate misure organizzative che li rendano pienamente funzionanti anche la sera, il che significa che tutte le attività collaterali presenti in loco devono svolgersi “normalmente” anche nella fascia oraria serale.
c) collegamento con il tessuto urbano e sociale - in questo caso le azioni da compiere possono essere molteplici e variegate, purché tutte rispondano all'idea di rendere il museo permeabile verso la città in entrambe le direzioni: da una parte, rendendosi propositivo rispetto a una serie di iniziative che abbiano nella collezione o in parti di essa il fulcro ma che si estendano ad altri poli culturali e sociali della città; dall'altra accogliendo coerentemente con la propria natura iniziative e proposte provenienti dall'esterno che trovino nel museo stesso un elemento di accrescimento del valore e di consolidamento del dialogo culturale. Non è dunque aprendo un bar al pubblico che il museo perde la sua natura di luogo “protetto” e autoreferenziale; vi sono casi in cui un buon posto di ristoro non ha contribuito minimamente alla domanda museale o comunque non ha creato interesse verso l'offerta culturale. Qui si tratta di istituire collegamenti culturali multidisciplinari con l'intera città, in modo che il museo risulti un luogo fondamentale nell'acquisizione e nel consolidamento dell'identità e del senso di appartenenza della comunità
territoriale.
d) diversificazione delle attività programmate - in questo caso lo scopo è allontanare il modello di consumo museale dalla attuale mummificazione, secondo cui l'offerta si presenta compatta e unitaria, finendo per identificare il museo con la sua collezione integralmente considerata; il consumatore culturale, a causa della sua personale e irripetibile esperienza di accumulazione di conoscenze, opera in ogni caso una selezione all'interno dell'offerta; esplicitare la presenza di molteplici chiavi di lettura e di svariati possibili percorsi agevola la scelta del consumatore, accrescendo per questa via l'attribuzione di valore che egli effettua nei confronti dell'offerta culturale stessa. Il collegamento tra la collezione, le attività e le iniziative finisce per incentivare il consumatore a ripetere la visita, consapevole di andare incontro a nuovi stimoli cognitivi ed emotivi a causa della diversificazione delle attività programmate. In questo modo il museo diventa il luogo di un progetto culturale, del quale il consumatore sia occasionale sia abituale diventa partecipe a bassi costi di inclusione, sentendosi “accompagnato” dall'istituzione stessa nel suo percorso di crescita culturale.
e) multidisciplinarietà delle attività culturali - tradizionalmente, la cultura è vista come un comparto costituito da settori stagni e privi di collegamento tra di loro (si pensi, per tutti, alla separazione gestionale del patrimonio dallo spettacolo dal vivo nella pubblica amministrazione).
Al contrario, i consumatori e soprattutto i giovani attribuiscono valenza culturale a una molteplicità di iniziative, facendo ritenere efficace l'istituzione di nessi più strutturali e continui tra diverse forme culturali; una collezione museale può facilmente riportare a diverse forme d'arte dello stesso periodo o dello stesso territorio, dalla musica all'arte decorativa; esplicitare questi possibili legami genera un'offerta culturale capace di mostrare con evidenza le radici comuni di diverse forme d'arte; il museo può diventare, in questo senso, una sorta di fucina in cui le forme d'arte e le tecniche ad esso collegate anche indirettamente contribuiscono a formare una complessa ma stimolante offerta culturale.
f) formazione prodromica - è abbastanza condivisa e il questionario effettuato ne dà chiara conferma l'opinione secondo la quale la cultura è sostanzialmente assente o comunque negletta nei programmi scolastici; allo stesso modo, la cultura tende per tradizione a “non muoversi” dai proprî luoghi, ritenendo a torto che debba essere il consumatore a compiere l'intero percorso cognitivo verso l'esperienza diretta del consumo culturale. Al contrario, una presenza più sistematica dell'offerta culturale in una serie di occasioni più o meno consapevoli di apprendimento può essere un formidabile elemento di attrazione verso l'esperienza del consumo diretto. Così, sia i programmi scolastici che le trasmissioni televisive e radiofoniche (estremamente importanti per il consumo giovanile) devono diventare un volano di incuriosimento nei confronti del consumo culturale; naturalmente, i formati di veicolazione devono radicalmente cambiare, non è certo l'opera lirica trasmessa in diretta integrale nelle ore notturne che può creare nuovi spettatori.
g) informazione domestica - un elemento che integra lo strumento precedente è l'erogazione di informazioni sulle collezioni, sulle iniziative e sulle attività direttamente al domicilio del consumatore potenziale; attualmente l'offerta culturale tende a informare soltanto i consumatori passati (il teatro invia i nuovi programmi agli abbonati della stagione precedente, etc.); al contrario, è nei confronti dei possibili nuovi consumatori che va svolta una sistematica opera d'informazione, anche soltanto enunciando la consistenza ed il valore dell'offerta culturale, e possibilmente invitando all'esperienza del consumo diretto (assistita da una guida o da materiale informativo supplementare) coloro che ancora non l'hanno fatta. Un visitatore gratuito di oggi può facilmente diventare un consumatore abituale e un sostenitore volontario domani.
In conclusione, un elemento importante nella politica culturale dei musei che nel nostro Paese è sostanzialmente ignorato è l'enunciazione chiara ed esplicita degli obiettivi e delle strategie dei musei stessi. Un eloquente mission statement appare il punto di partenza perché le istituzioni, le comunità, i singoli individui e soprattutto gli stessi dirigenti e funzionarî museali siano resi consapevoli del valore dell'offerta culturale e dei molteplici modi attraverso i quali tale valore può manifestarsi, avendo ben chiaro l'obiettivo ultimo delle attività culturali: il benessere degli individui e delle comunità.
Riferimenti bibliografici
Baumol, W.J. e W.G. Bowen (1966), Performing Arts The Economic Dilemma, New York, NY, The Twentieth Century Fund.
Colbert, F., C. Beauregard e L. Vallée (1998), “The Importance of Ticket Prices for Theatre Patrons”, International Journal of Arts Management, vol. 1, pp. 8-15.
Corning, J. e A. Levy (2002), “Demand for Live Theatre with Market Segmentation and Seasonality”, Journal of Cultural Economics, vol. 26(3), pp. 217-235.
Felton, M.V. (1989), “Major Influences on the Demand for Opera Tickets”, Journal of Cultural Economics, vol. 13(1), pp. 53-64.
Florida, R. (2000), The Rise of the Creative Class, New York, Basic Books.
Fuortes, C. (2001), "La domanda di beni culturali in Italia. Alla ricerca di un modello esplicativo", Economia della Cultura, vol. 11(3), pp. 363-78.
Greckel, F.R. e M.V. Felton (1987), “Price and Income Elasticities of Demand for the Arts: a Case Study of Louisville”, in N.K. Grant, W.S. Hendon e V.L. Owen (a cura di), Economic Efficiency in the Performing Arts, Akron, OH, Association for Cultural Economics, pp. 62-73.
Kelejian, H.H. e W.J. Lawrence (1980), “Estimating the Demand for Broadway Theater”, in W.S. Hendon, J.L. Shananan e A.J. MacDonald (a cura di), Economic Policy for the Arts, London, Abt Books, pp. 333-346.
Krebs, S. e W.W. Pommerehne (1995), “Political Economic Interaction of German Public Performing Arts”, Journal of Cultural Economics, vol. 19(1), pp. 17-32.
Moore, T.G. (1968), The Economics of American Theater, Durham, NC, Duke University Press.
Oteri, M. e M. Trimarchi (1990), “Public Subsidies and Cultural Habits: An Empirical Test of Drama Attendance”, Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, n. 4, pp. 524-537.
Pollicino, M.(2003), “La domanda di investimenti culturali: il metodo della valutazione contingente”, Economia della cultura, n.4
Schwartz, J.V. e M. Trimarchi (2002), “Qualifying Success: a framework for measuring sustainable financing mechanisms for cultural projects”, relazione alla II Conferenza Biennale
dell'Institute for Cultural Policy Research, Wellington, 22-26 gennaio 2002, mimeo.
Solima, L. (2000), Il pubblico dei musei, Roma, Gangemi.
Stigler, G.J. e G.S. Becker (1977), “De Gustibus Non Est Disputandum”, The American 28 Economic Review, vol. 67(2), pp. 76-90.
Throsby, D. (1990), “Perception of Quality in Demand for the Theatre”, Journal of Cultural Economics, vol. 14(1), pp. 65-82.
Throsby, D. e G.A. Withers (1979), The Economics of Performing Arts, London, Edward Arnold Publisher.
Trimarchi, M. (1993), Economia e cultura. Organizzazione e finanziamento delle istituzioni culturali, Milano, Angeli.
Trimarchi, M. (2002), “Nomina Sunt Consequentia Rerum. An Economic Definition of Culture”, relazione alla XII Conferenza Biennale dell'Association for Cultural Economics International, Rotterdam, 13-15 giugno 2002, mimeo.
Trimarchi, M. (2002), “Dentro lo specchio: economia e politica della domanda di prodotti culturali”, Economia della Cultura, n. 2, pp. 157-70.
Urrutiaguer, D. (2002), “Quality Judgements and Demand for French Public Theatre”, Journal of Cultural Economics, vol. 26(3), pp. 185-202.