Dopo
le prime due edizioni, il ciclo delle mostre In
Sede prosegue con una mostra dal titolo un po’
bizzarro: Qui si sta bene - 31 artisti stranieri che lavorano
a Torino. In questi spazi non convenzionali,
per
la prima volta, vengono proposte delle opere di quegli artisti stranieri
che, per i motivi più diversi, hanno scelto di vivere e lavorare
a Torino o nella nostra regione. Si tratta di artisti di tutte le generazioni,
ma in particolare giovani, che provengono dai più svariati paesi
del mondo. Alcuni di loro vivono qui ormai da decenni, altri da qualche
anno, altri ancora hanno le loro gallerie di riferimento nella capitale
sabauda.Tutti sono impegnati in ricerche di notevole qualità nel
campo della pittura, della scultura, delle installazioni, della video
arte o della fotografia. L’intenzione di questa singolare rassegna
è di dimostrare la vitalità e l’apertura internazionale
della scena artistica torinese anche dal punto di vista della produzione
“in loco”, e non solo da quello delle attività espositive
dei musei e fondazioni, delle gallerie, delle fiere e delle triennali.Torino
sta progressivamente rafforzando il suo ruolo di città di punta
dell’arte contemporanea in Italia anche per il fatto che continua
ad aumentare il numero dei giovani artisti che la scelgono come punto
di riferimento privilegiato per la loro attività. Gli artisti stessi
con viva voce ci danno la loro testimonianza del perché “Qui
si sta bene” in un bellissimo video realizzato da Felipe Aguila,
durante una animata cena che, per certi versi, ha assunto le caratteristiche
di una performance collettiva.
Il video viene proposto in mostra insieme a tutti gli altri lavori, che
sono stati installati nell’androne, negli atrii, nei corridoi e
in stanze d’uffici con grande libertà di accostamenti per
un confronto aperto e piuttosto stimolante.
L’androne, da cui tutti devono passare, è fortemente connotato
innanzitutto dalla presenza di una grande installazione con elementi di
pietra e cavi in tensione del tedesco Johannes Pfeiffer,
ma anche sul muro di fronte, da una grande tela sul tema del lavoro in
Africa, dipinta con vitale incisività dal giovane senegalese Ibrahima
Diaw. Sempre all’entrata, su uno schermo collocato all’interno
della guardiola si possono vedere un video del cileno Felipe Aguila,
intitolato Strisce pedonali, e quello della serba Jelena
Vasiljev, che documenta la performance Pensavo di essere
un lupo, in cui si vede una azione di cucina con forti valenze simboliche.
Nell’atrio e nei corridoi del piano terra sono collocati i lavori
del rumeno Radu Rata, un grande bassorilievo bianco con
crani di animali che si mordono; le nitide foto di reportage dello spagnolo
Pablo Balbontin Arenas; un grande dipinto di poetica tensione
astratta orientale, che fa parte di un ciclo dedicato all’Odissea,
del giapponese Horiki Katsutomi; il lavoro con singolari
effetti ottici dell’algerino Rédha Sbaïhi e
la sua installazione dal titolo Cow cold.
Salendo su per le scale troviamo, oltre a delle sculture di lupi della
Vasiljev, una strana scultura polimaterica a forma di chiocciola del rumeno
Emanuel Rata; e una serie di forme convesse ovoidali
in plexiglas colorato del tedesco Klaus Munch che sembrano
galleggiare sospese sui muri.Nella strettissima tromba delle scale la
tedesca Claudia Haberkern ha sospeso delle sue sculture
con forme organiche astratte. All’ultimo piano sempre nell’invaso
dello scalone ecco pendere dall’alto un’articolata struttura
in legno e carta del giapponese Hiroaki Asahara che appare
come uno strano Bozzolo.
Dello stesso artista in un corridoio del terzo piano c’è
un lavoro a muro che si presenta come una finta porta. Nell’atrio
del primo piano si fronteggiano sulle pareti, The Dry Season
uno scorcio di bosco secco dipinto su una grande tela dall’americano
Victor Kastelic; e le figure femminili della tedesca
Elke Warth di forte carattere espressivo. Sempre nell’atrio,
vicino all’ascensore troviamo due sculture in marmo di Carrara e
malachite di estrema raffinatezza realizzate dall’americana Jessica
Carroll.
Nel corridoio vicino sono esposti il lavoro concettuale della francese
Sabine Delafon, incentrato sul problema dell’identità
del proprio stesso nome; alcuni dipinti quasi informali dell’americano
David Ruff; e Fluxus metropolitan, un lungo
e stretto dittico della belga Amélie Lecarré.
Allo stesso piano, in alcune stanze dell’Ufficio Creatività
e Innovazione, si è voluto rendere omaggio a un artista russo,
Serghej Potapenko, purtroppo scomparso troppo presto,
presentando una piccola personale con un decina di quadri in cui emerge
tutto l’incanto poetico del suo immaginario figurativo.
Al secondo piano, l’atrio è animato da una installazione
video interattiva della tedesca Antje Rieck, dove onde
del mare si muovono in vario modo in relazione al passaggio delle persone.
Un lavoro di suggestivo significato metaforico. Nello spesso spazio, da
un lato è collocata la grossa e grottesca testa in tessuto bianco
imbottito realizzata dall’americana Marguerite Kahrl
e su una parete, come un ironico trofeo di caccia, una testa di panda
costruita con carta e pelliccia sintetica dal giapponese Kimitake
Sato. Nel corridoio troviamo due grandi stampe fotografiche su
alluminio dell’israeliana Tarin Gartner; e anche
alcune foto dell’olandese Bastiaan Arler. Ma il
lavoro più significativo di quest’ultimo è costituito
da un nastro adesivo giallo con l’ossessiva sequenza alternata di
due parole “question” e “answer”, nastro che è
stato attaccato ai bordi di varie scrivanie e tavoli.
Al terzo piano, nell’atrio è installata su una parete una
grande mensola, con bicchieri blu e altri elementi bianchi, del rumeno
Radu Dragomirescu, una sorta di “natura morta”
che spicca per la sua nitida eleganza formale e per la sua enigmatica
tensione allusiva.
Sul muro di fronte si apre con aerea e luminosa intensità l’ampio
paesaggio montano, Alpes-Tramonto del peruviano Lorenzo
VillaCorta Noya, realizzato con carta e luci sapientemente regolate.
Nel corridoio troviamo i lavori di fresca aromaticità pop del giapponese
Shinya Sakurai. A sostenere virtualmente la parete principale
dell’atrio all’ultimo piano ci ha pensato l’argentina
Elizabeth Aro con una sequenza di fragili cariati di
realizzate in tessuto. Di fronte si può vedere il trittico dipinto
con calligrafica leggerezza astratta dalla cinese Chen Li.
E infine nel corridoio sono collocati le lievi e fluttuanti figure lineari
femminili tracciate dalla polacca Gosia Turzeniecka;
e un dipinto di singolare informalità segnica dell’iraniana
Maryam VafaeiNejad.
Naturalmente una descrizione così sintetica non può assolutamente
dar conto della variegata e sorprendente vitalità di questa mostra
davvero sui “generis”.
FRANCESCO POLI
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