di Marco Orlando
A “Le Ginestre” i piedi ritmano in levare. Vent’anni fa, da quelle parti in Barriera, c’era un altro posto del jazz davanti alla vecchia Manifattura Tabacchi. Si chiamava “Capolinea n°8″ e lì dentro ho scoperto quella musica. C’era sempre odore di tabacco umido e di whiskey. Adesso il tram n° 8 non c’è più, e anche del “Capolinea” ho perso le tracce.
L’altra sera, invece, a “Le Ginestre”: Fabio alle tastiere, Max alla chitarra, la voce di Erika e un sacco di piedi in levare. Perché in Barriera le case hanno pure una faccia un po’ così, ma la gente del jazz lì sa come sincopare. Tra la fine di “Rachid” e l’inizio di “Message in a Bottle” me li guardo tutti, quei piedi, in un lento piano-sequenza. E dopo vent’anni, capisco che il jazz ha a che fare con la democrazia.
“Just a castaway
An island lost at sea…
Alla mia sinistra un tizio con i baffi spessi dei vecchi comunisti, sopra un naso adunco da piemontese. Indossa una camicia a quadri e pantaloni da pescatore. Sotto il tavolino, un paio di infradito ritmano in levare. “Forse anche a Palmiro Togliatti piaceva il jazz,” – penso.
More loneliness
Than any man could bear…
Alla mia destra un altro signore, camicia bianca fuori dai jeans di marca, occhiali con montatura nera in celluloide, capelli corti sale e pepe, faccia rubizza da piemontese. Sotto il tavolino, un paio di Hogan che ritmano in levare. “Forse anche a Luigi Einaudi piaceva il jazz,” – penso.
Love can mend your life
But love can break your heart…
I’ll send an SOS to the world.”
Fabio, Max ed Erika ci fanno tenere bene il tempo, fino alla fine. Appena fuori dal locale, sento nell’aria di Barriera un profumo di tabacco umido e, in bocca, come un messaggio in bottiglia mi
arriva un retrogusto di whisky. Ehi: la volete la verità? In quel momento è passato l’8, credetemi.
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