Alcuni dei compositori
americani che costituiscono la rassegna delle "American
Voices", organizzata quest'anno da Settembre Musica, sono
alla loro prima apparizione in Italia. Questo non significa che
siano ignoti, si tratta anzi di alcune fra le personalità
più significative della moderna musica americana; ma sono
anche giovani e questo basta a spiegare perché della loro
opera si sia da noi sentito parlare ancora poco. Di testimonianze
scritte, libri, saggi ecc., c'è per ora grande scarsità,
ma va comunque segnalato un recentissimo libro edito da Einaudi
col titolo Musica coelestis nel quale Carlo Boccadoro ha raccolto
alcune interviste a lui rilasciate, fra gli altri, da John Adams
e Aaron Jay Kernis.
La lista delle nostre "American Voices" è piuttosto
lunga e oltre ai citati Adams e Kernis, comprende John Harbison,
Michael Daugherty, Steven Mackey, Michael Torke e i tre compositori
che formano da anni il sodalizio noto col nome di Bang on a Can,
ovvero David Lang, Julia Wolfe e Michael Gordon. Se poi si aggiungono
alcuni classici come Charles Ives, George Gershwin, Duke Ellington,
Leonard Bernstein e Miles Davis che compaiono qua e là
in svariati concerti, si potrà misurare l'ampiezza dell'orizzonte
americano offerto quest'anno da Settembre Musica. Resta nondimeno
il fatto che questa edizione del festival è dedicata alle
più giovani voci dell'America musicale delle quali si
possono intravedere, talora anche nitidamente, le linee di tendenza,
ma che sarebbe prematuro proporre in qualsiasi collocazione storica.
Tuttavia bisogna pur cominciare a gettare le fondamenta per un
discorso. Per questa ragione le pagine che seguono raccolgono
un certo numero di documenti, per lo più degli autori
stessi, intorno alle musiche e ai progetti che le ispirano. Nulla
di sistematico dunque, ma una sorta di dossier che ci si augura
acquisti col tempo valore di testimonianza.
Musica "ingenua
e sentimentale" nell'America di oggi e di ieri
di Enzo Restagno
Naive and sentimental music, il titolo di un nuovo componimento
orchestrale di John Adams inserito in un concerto diretto e ideato
dal compositore stesso, allude a un dilemma attraverso il quale
si possono leggere in filigrana le più intriganti contraddizioni
della musica americana di ieri e di oggi.
Bisogna dare atto a John Adams di avere scelto acutamente il
suo titolo e così pure il programma che dirigerà
alla testa dell'Ensemble Modern di Francoforte. Vediamoli dunque
da vicino questo titolo e questo programma: Charles Ives con
la sua Quarta sinfonia, Michael Gordon con Sunshine of Your Love
e Naive and Sentimental Music dello stesso Adams. L'idea di richiamare
in maniera esplicita il titolo del saggio di Schiller, Sulla
poesia ingenua e sentimentale, non è da poco ma non è
nemmeno nuova per il compositore americano, che in altri casi,
vedi Harmonienlehre e Kammersymphonie, non ha esitato a ricorrere
nei suoi componimenti a titoli celebri di Schoenberg.
Nelle pagine del suo saggio Schiller enunciava un principio estetico
infinitamente fertile, capace di interpretare situazioni di volta
in volta diverse. La poesia "ingenua" e quella "sentimentale"
appartengono a due diverse epoche e condizioni dello spirito
e hanno entrambe un fondamentale punto di riferimento nella natura.
Ingenua è la forza creativa del genio che vive in un'intatta
simbiosi con la natura, qualcosa come una ideale condizione "primitiva"
la cui perfezione si nutre di quella teoria delle età
del genere umano di Giambattista Vico che tanto influì
sui pensatori romantici. La condizione "sentimentale"
è caratterizzata dalla consapevolezza della perdita di
quella felice ingenuità: conseguenza di quella perdita
è la nostalgia che si traduce nella condizione "sentimentale"
del rimpianto.
All'interno di questo schema di pensiero si possono leggere i
vari capitoli della storia della civiltà e, perché
no, anche quelli della storia della musica. Isaiah Berlin, per
esempio, lo ha fatto molto bene in un bell'articolo sul genio
musicale del giovane Verdi, che a lui stava particolarmente a
cuore come ultimo esempio di "poesia ingenua" in campo
musicale.
Adesso è John Adams che ci invita a riflettere con il
titolo di questo suo nuovo componimento, ma non si tratta soltanto
di una provocazione intellettuale, bensì di un'allusione
esplicita al travaglio di un compositore che cerca di aprire
a se stesso nuove vie.
Per cogliere il dilemma alla radice bisogna ricordare che John
Adams, pur essendo ancora relativamente giovane (ha solo 52 anni),
già da parecchi anni occupa una posizione di rilievo nello
scenario della musica contemporanea. Colse infatti ampi consensi
con alcuni lavori orchestrali e teatrali che lo qualificarono
come un brillante seguace della cosiddetta corrente "minimalista".
Era un minimalista più accurato ed evoluto, ma continuando
su quella strada che gli aveva procurato tanti successi, sarebbe
andato incontro alla condizione di epigono di un linguaggio che
altri avevano forgiato prima di lui. Si mise dunque a cercare
una nuova strada, e da quel momento la ricchezza di riferimenti
culturali nella sua opera non ha fatto che crescere. Questo non
vuol dire che Adams abbia deciso di diventare un compositore
neoclassico e neppure un neoromantico, anche se le sue creazioni
più recenti sono caratterizzate da un ritorno nitido all'orizzonte
tonale e da una passione crescente per le grandi stagioni della
musica romantica, contemplate però con intelligente distacco.
Il vero problema con cui si misura Adams è proprio quello
manifestato dal titolo dal quale ha tratto spunto questa riflessione:
la moderna musica americana, ma anche quella di ieri, è
ingenua o sentimentale? Per applicare utilmente la categoria
dell'ingenuità alla musica americana bisogna innanzitutto
considerare in che misura la musica di questo o quell'autore
procede con fiducia verso il nuovo senza troppo lasciarsi condizionare
dalle eredità culturali.
In questo senso il grande patriarca dell'ingenuità musicale
americana è Charles Ives, che tanto insisteva nel dichiararsi
un musicista dilettante, dedito, nella vita di tutti i giorni,
ad altre occupazioni. Il rifiuto del professionismo non ha in
questo caso nulla a che vedere con l'aristocratica tradizione
dei dilettanti di musica dell'età barocca; si colloca
piuttosto su uno sfondo etico che finisce col separare nettamente
l'attività del musicista dalla dimensione della prassi
quotidiana. È una scelta gravida di conseguenze etiche
ed estetiche tra le quali spicca il desiderio di operare in condizioni
di totale libertà, lontano da tutti quei compromessi che
la scelta della musica come professione inevitabilmente comporta.
Un orientamento del genere è un po' difficile da comprendere,
specialmente ai giorni nostri, ma è perfettamente conseguente
con taluni principi etici della società americana ai quali
Ives si sentiva profondamente attaccato. Per questo personaggio
così fieramente inventivo l'esigenza di costruirsi una
posizione solida e rispettabile nella società veniva prima
di qualsiasi altra aspirazione, anche di quella di realizzare
i propri progetti musicali. In questa dimensione di libertà
garantita dallo svolgimento di un'altra attività (Ives
si occupava di assicurazioni), il compositore poteva aprirsi
a tutte le chance dello sperimentalismo e viverle con fede e
candore inattaccabili. Non doveva cercare consensi e nemmeno
fare carriera, non doveva quindi andare in cerca di quegli aggiornamenti
linguistici e di quelle mode culturali che tanto spesso finiscono
col tarpare le ali ai compositori, ed è in questa prospettiva
di decondizionamento culturale, oggi quasi incomprensibile, che
ci si deve collocare per comprendere la portata della sua musica.
Operando in un orizzonte così scevro da condizionamenti
materiali e culturali Ives potè essere, più di
un secolo dopo le enunciazioni di Schiller, un formidabile esemplare
di musicista "ingenuo" e incarnare fino in fondo quella
tendenza allo sperimentalismo sorretta da forti motivazioni ideali
che è sempre stata così tipica della civiltà
americana.
Altri musicisti seguirono, sia pure in maniera diversa, lo stesso
impulso. Conlon Nancarrow andò a comporre nel deserto
dove poteva tranquillamente cercare di trasferire sulle bande
perforate della pianola meccanica i suoi utopici poliritmi e
Harry Partch si costruì con le sue mani gli strabilianti
strumenti capaci di manifestare il suo frastagliatissimo universo
sonoro.
Potrebbe, a prima vista, sembrare scontato l'ascrivere John Cage,
per via del suo rapporto con la natura, alla categoria dei compositori
"ingenui", ma non è così. Cage ripeteva
sempre "let sounds be themselves", poiché per
lui tutto era naturalmente suono in quanto ogni evento acustico
possedeva una sua autonomia; ma il ritorno alla condizione naturale
dei suoni, l'immersione nei silenzi e il fervore mistico di ispirazione
zen lui li intendeva, almeno in parte, come un gesto polemico
contro le organizzazioni culturali ufficiali, contro un modo
di concepire e praticare la musica e, più in generale
la cultura, che aveva finito con l'irrigidirsi in un sistema
arido e soffocante. Alla base delle fervide provocazioni di Cage
c'era la nostalgia per una condizione perduta e tutto questo
finiva con l'orientare la sua vita di intellettuale e la sua
opera di musicista nella direzione "sentimentale".
Più vicino alla categoria schilleriana dell'ingenuità
sembra invece un musicista che pure da Cage ricevette impulsi
e suggestioni a dir poco fondamentali: Morton Feldman. L'uso
poeticissimo del silenzio e di tempi dilatati fino quasi all'immobilità
che seppe fare nella sua musica ignorano qualsiasi suggestione
mistica e orientale; nascono semplicemente dal desiderio di ritrovare
una condizione perduta della sensibilità, una condizione
di tipo infantile nella quale l'universo acustico si schiude
come una realtà misteriosamente vibrante, sconfinata,
irraggiungibile e perciò meravigliosamente sconvolgente.
Il fatto stesso di mettere alla base delle propria poetica musicale
questo intenso desiderio di rinascita, finisce per collocare
l'opera musicale di Feldman nella categoria del "sentimentale".
La dicotomia di Schiller non consente eccezioni, è vero,
ma non si può negare che la capacità della musica
di Feldman di alludere a un orizzonte naturale incontaminato
sia tra le più grandi che la musica del nostro tempo abbia
prodotto.
Sulla base di queste poche e sommarie indicazioni potete provare
a situare i compositori americani nell'una o nell'altra categoria.
Dove mettere ad esempio Samuel Barber e Aaron Copland? Dove Gershwin
e Charlie Parker? Dove Elliott Carter e Morton Feldman? Dove
Steve Reich e Terry Riley? E infine, dove i tre compositori del
sodalizio di Bang on a Can e Aaron Jay Kernis? Dove Michael Torke
e John Harbison? E ancora, dove Michael Daugherty e Steven Mackey?
Per introdurre alcuni dei compositori più giovani che
compaiono in questa lista si deve chiamare in causa un personaggio
simpatico e intelligente come Jacob Druckman. Questo eccellente
musicista, morto nel 1996, svolse anche una preziosa attività
didattica diventando, nel 1976, professore di composizione all'Università
di Yale. Qui, tra il 1980 e il 1984, ebbe come allievi David
Lang, Julia Wolfe, Michael Gordon, Michael Torke, Aaron Jay Kernis,
Michael Daugherty (tutti presenti nella nostra rassegna delle
"American Voices") nonché Betty Olivero e Robert
Beaser. Non si può fare a meno di constatare che gran
parte della più significativa realtà musicale statunitense
di oggi è uscita dalla sua scuola. Ma chi era Jacob Druckman?
È veramente un peccato che questo eccellente compositore,
fra l'altro finissimo conoscitore dalla musica italiana rinascimentale,
sia nel nostro paese così poco conosciuto. Basterebbe
ascoltare Windows per orchestra, tenuta a battesimo nel 1972
dal nostro Bruno Maderna, o anche Chiaroscuro, commissionato
e diretto nel 1976 da Lorin Maazel, per rendersi conto che si
ha a che fare con un musicista di grande qualità.
Negli anni Ottanta Druckman organizzava a New York l'"Horizon
Festival"; Pierre Boulez aveva lasciato da poco la direzione
dell'Orchestra Filarmonica, e Druckman cercò di sostituire
la precedente e più severa linea culturale con un'altra,
più varia e aperta, che non disdegnava affatto le proposte
neoromantiche e minimaliste. Druckman era colto e lungimirante
e le avventure della musica contemporanea le aveva vissute tutte
in prima persona. Per anni era stato un seguace convinto della
musica seriale, ma a partire dagli anni Settanta cominciò
a includere nella sua musica numerose e filtratissime suggestioni
che provenivano dal passato. Le stagioni che organizzava per
l'"Horizon Festival" non erano l'espressione di un
sentimento polemico con la leadership precedente, ma nascevano
da una capacità di sintesi che sapeva acutamente spingere
lo sguardo verso l'avvenire.
Vediamo come Druckman è in grado di compendiare efficacemente
questo pensiero in poche righe:
Ho sempre pensato che i momenti rivoluzionari nella storia della
musica si sono visti insidiare da una sorta di movimento sotterraneo
che finisce col contrastare le vanità intellettuali dei
compositori. Si può dire che ciascuno di questi contestatori
ha preso posizione contro le realizzazioni più altisonanti
del suo tempo... Non c'è dubbio che ci troviamo oggi in
una fase di profondo cambiamento. Basta considerare per un momento
il mondo della musica pop e la cultura giovanile in genere, con
le sue risorgenze di misticismo, di religiosità e di culti
astrologici. Noi compositori cominciamo di nuovo a parlare di
moralità della musica o di esperienze esaltanti. Quando
siamo colpiti da un brano musicale ricominciamo a usare l'aggettivo
bello che da parecchi anni avevamo smesso di usare. Sono convinto
che molti di noi sono in cerca di esperienze del genere e non
vedo ragione alcuna per non aggiungere tutto questo alle sofisticatezze
che abbiamo conquistato negli anni trascorsi.
Non v'è dubbio che gli ex allievi hanno preso in parola
il loro maestro aggiungendo con la massima libertà tutte
le suggestioni del mondo contemporaneo, anche quelle quotidiane
con i loro fenomeni più diffusamente consumistici, ai
più consolidati substrati culturali. L'orizzonte in cui
si situano le proposte musicali di Aaron Kernis, Michael Torke,
dei tre compositori di Bang on a Can, di Michael Daugherty, di
Steven Mackey e anche dello stesso John Adams, è incredibilmente
vasto ma tutte quelle manifestazioni mostrano, pur tra significative
differenze, un elemento comune dato dal desiderio di farla finita
con qualsiasi tipo di schematismo culturale.
Steven Mackey, John Adams e John Harbison sono nella nostra rassegna
delle "American voices" le sole che non scaturiscono
dal foyer alimentato da Jacob Druckman e stanno a dimostrare
con la qualità della loro musica quanto vasta e quasi
inafferrabile sia la varietà della musica americana di
oggi.
Essendo nato nel 1938, John Harbison è il più anziano
dei tre e possiamo definirlo, con tutta la simpatia e l'ammirazione
che merita, un classico esemplare di intellettuale americano
alla maniera di una volta. È nato nel New Jersey, ha studiato
a Princeton, ha avuto incontri significativi con dei classici
della vecchia avanguardia americana come Roger Session e Walter
Piston, è in possesso di una sofisticata cultura letteraria
che gli consente di dialogare musicalmente con i versi di Montale
e di Hoelderlin, ma è anche un eccellente pianista jazz
e la sua opera su un soggetto tratto da Il grande Gatsby di Francis
Scott Fitzgerald, andrà in scena al Metropolitan di New
York proprio nei giorni in cui Settembre Musica allestisce la
sua rassegna di voci americane.
Se il jazz rappresenta nella personalità "bostoniana"
di Harbison il radicamento nella tradizione americana, Jimi Hendrix
con la sua chitarra svolge un'analoga funzione nello sviluppo
della carriera di un compositore più giovane qual'è
Steven Mackey. Gli esordi musicali di questo simpatico e giovane
professore di composizione di Princeton appartengono infatti
alla sfera del più puro dilettantismo. Da giovanotto Mackey
era un campione di sci, abilissimo anche nel tennis e nel baseball;
ci volle lo strappo di un tendine perché decidesse di
dedicarsi con più attenzione alla sua chitarra elettrica,
e quindi definitivamente alla composizione, conservando però
anche sul piano intellettuale l'agilità e il gusto della
sfida propri dello sportivo. La storia della musica, da Stravinsky,
che fu per il giovane Mackey oggetto di una vera e propria infatuazione,
a Bartók, a Varèse a Harry Partch, per arrivare
a Jimi Hendrix e agli altri eroi del pop americano, era piena
di energie genialmente centifughe rispetto al nucleo stabile
della tradizione. Questi esempi assunsero per Mackey la forma
di una costellazione che lui ha saputo contemplare con una forza
e un candore dei più rari.
Di John Adams si sono ricordati gli esordi fortunatissimi nella
scia del linguaggio minimalista e va notato, almeno di sfuggita,
come fino a oggi la critica ancora non abbia preso atto dei sottili
ma importanti distinguo della sua scrittura ripetitiva. La svolta
in cerca di una maggiore complessità è nata nel
linguaggio di Adams da una precisa esigenza drammaturgica, il
che, in termini più concreti, significa recupero della
dimensione armonica. In un'intervista recentemente pubblicata
da Carlo Boccadoro nel volume Musica coelestis, Adams dichiara:
Ho sentito l'esigenza di includere una maggiore complessità
all'interno della mia musica, estendendone il linguaggio armonico.
Ero stufo di sorvolare migliaia di ettari formati esclusivamente
da triadi di do maggiore e di mi bemolle maggiore.
Quello dell'esclusione delle modulazioni fu infatti la forza,
ma anche il limite del linguaggio minimalista. Era inevitabile
che affrontando soggetti teatrali gli autori che seguivano quella
tendenza dovessero restaurare la dialettica psicologica che solo
l'uso dell'armonia con le sue modulazioni è in grado di
garantire, e lo stesso Steve Reich provvide in maniera originale
ed efficace a recuperare finezze armoniche delle quali la prima
ondata della sua produzione era volutamente ignara. L'esperienza
del teatro fu dunque decisiva per reintrodurre nel linguaggio
minimalista un certo grado di complessità e Adams lo dichiara
senza mezzi termini: "Ho capito subito che la musica minimalista,
che si manifesta in maniera così pura e precisa, non avrebbe
mai potuto funzionare per rendere musicalmente un soggetto di
questo tipo". Ad entrare in crisi era dunque l'ideale estetico
dell'arte concettuale che stava alla base del pensiero minimalista.
Il recupero della complessità non si è manifestato
nella musica di Adams però soltanto con il restauro della
dimensione armonica, e ne fa fede un componimento decisamente
problematico come la Chamber Symphony che fin nel titolo allude
a Schoenberg, ovvero al fautore più radicale dell'idea
di complessità nelle rivoluzioni musicali del nostro secolo.
Adams aveva d'altronde studiato con Leon Kirchner che era stato
uno dei migliori allievi americani di Schoenberg. Singolare è
però il tocco di leggerezza e il carattere mai irreversibile
che Adams mette in questo tipo di operazioni: "La Chamber
Symphony rappresenta il punto più estremo del mio viaggio
all'interno di quella che mi piace definire come giocosa complessità".
Anche in questo caso bisogna convenire che aveva visto giusto
Jacob Druckman, quando osservava che le più svariate aperture
sul fronte della contemporaneità potevano tranquillamente
aggiungersi alle conquiste più sofisticate della cultura
musicale del nostro secolo. Adams non si sente lontano affatto
dall'orizzonte musicale quotidiano, ritiene anzi che l'attenzione
per questo genere di musica sia inevitabile per un compositore
americano: "Non credo si possa essere un artista americano
e non avere alcun interesse per la cultura pop, in un modo o
nell'altro". L'interesse per tutto ciò che stà
intorno a noi induce il nostro compositore ad un singolare confronto
tra la sua musica e l'opera filmica di Woody Allen e, ancora
nell'intervista a Boccadoro, lo sentiamo dichiarare:
Ho sempre cercato, come musicista, di possedere la stessa capacità
di assorbimento della realtà e questa è stata la
battaglia della mia vita, poiché i compositori della generazione
precedente alla mia erano quasi tutti degli accademici la cui
ambizione principale sembrava proprio quella di voler escludere
gli stimoli provenienti dal mondo esterno; io invece volevo includerli
tutti.
Non diversamente da John Adams gli ex allievi di Jacob Drukman
desiderano includere nella loro musica tutti gli stimoli provenienti
dal mondo esterno, ma c'è nel loro modo di operare qualcosa
in più in cui è dato cogliere il salto generazionale.
L'esempio più calzante credo che sia in questo caso quello
di Michael Daugherty, che ha messo a fuoco, nel suo lavoro di
compositore, quella che potremmo definire la "poetica dell'icona
americana".
L'opera Jackie O., una riuscitissima rilettura teatrale di uno
dei grandi miti dell'America moderna attraverso il personaggio
di Jackie Kennedy, la Metropolis Symphony, ispirata alle strisce
fumettistiche di Superman, Dead Elvis, scaturito dal mito del
re del rock rinnovato quotidianamente dagli "impersonators",
Le tombeau de Liberace; tutti titoli che da soli la dicono lunga,
ma la cosa più interessante è l'acume con cui Daugherty
ha musicalmente messo a fuoco questa mitologia popolare americana
incarnata per l'appunto in queste "icone".
Osservare il paesaggio americano in compagnia di Michael Daugherty
è un'esperienza indimenticabile che mi è capitata
un po' di tempo fa durante un'interminabile passeggiata notturna
attraverso le strade di New York. Parlavamo di musica, naturalmente,
ma tutti i momenti la conversazione si interrompeva perché
lui si fermava estasiato davanti a qualche vetrina o qualche
locale pubblico. Voleva attirare la mia attenzione su qualche
gadget o su qualche personaggio carico di valore simbolico. Abbigliamenti,
menù, oggetti d'uso, gesti, poster, insegne pubblicitarie,
fotografie e architetture offrivano lo spunto ad ampie considerazioni
condotte con acume, ma anche con affettuosa ironia. In un'altra
parte di questo fascicolo potrete leggere come questo degno discendente
di William Carlos Williams sa scendere musicalmente Nelle vene
dell'America:
Le idee musicali mi vengono quando guido lungo un'autostrada
americana deserta. Ci sono libertà di muoversi e spazio
per riflettere. Penso alla mia esperienza come compositore di
musica contemporanea, tastierista di complessi jazz, funk e rock,
percussionista in un gruppo di trombe e tamburi...
Quel famoso ranch con le cadillac sotterrate a metà, le
sagre degli "impersonators" che si radunano a Menphis
per tenere ben vivo il culto di Elvis Presley, il ricordo delle
musiche per film di Ennio Morricone che va ad animare una partitura
intitolata Spaghetti western, le strisce dei fumetti, le "Brillo
box" di Andy Worhol. Questi e tanti altri oggetti si trasformano
attraverso le osservazioni di Daugherty in icone.
A questa trasformazione hanno provveduto già da anni alcuni
grandi pittori americani e la cosa non soprende se si pensa che
viviamo in un mondo dominato dalle immagini. In musica però
non è successo fino a oggi niente di simile, anche se
è più lecito che mai parlare di una mitologia popolare
anche nella dimensione acustica. Forse le uniche eccezioni di
un certo rilievo, ma si tratta pur sempre di episodi marginali,
le possiamo riscontrare in qualche dettaglio dell'opera di Berio
e del suo allievo Louis Andriessen.
Tra i musicisti dell'ultima generazione mi sembra che Daugherty
possegga una curiosità e un acume critico che lo destinano
a questo compito. È sullo sfondo di questi pensieri che
attraversando con lui le strade di New York, gli oggetti mi vengono
incontro carichi di significati tra i quali mi sembra di intravedere
proiezioni musicali. Rendere musicalmente eloquenti gli oggetti
quotidiani è un'impresa difficilissima e per compierla
bisogna probabilmente aver bazzicato a non finire con tutte le
musiche. Daugherthy ha fatto l'arrangiatore per celebri formazioni
jazzistiche, ha improvvisato le colonne sonore per i film muti,
ha suonato il pianoforte nei cocktail bar e nei locali jazzistici
di tutto il Village, così come David Lang ha convissuto
con la musica di Jimi Hendrix e Steven Mackey ha vagabondato
con la sua chitarra elettrica da un complesso rock all'altro
fino a essere folgorato da Stravinsky.
Se ascoltiamo le musiche di tutti questi compositori sintonizzando
l'orecchio e la fantasia verso quell'ideale sintesi che assorbe
e riplasma a un livello più alto gli infiniti frammenti
della realtà sonora quotidiana e non, possiamo restare
in fiduciosa attesa del momento in cui le icone musicali dell'America
sprigioneranno un'energia pari a quella che già irradia
dalle icone raccolte nei musei e nelle gallerie d'arte.
JOHN ADAMS
Nota dell'autore in occasione della prima mondiale di "Naive
and Sentimental Music"
"Ingenuo" e "sentimentale": uso questi due
aggettivi ben sapendo che potrebbero venire fraintesi. Li intendo
infatti non nell'interpretazione convezionale bensì nel
senso in cui li usò Schiller nel saggio Über naive
und sentimentalische Dichtung (Della poesia ingenua e sentimentale)
testo alquanto influente nel 1795 e ormai caduto nell'oblio.
Schiller individuò essenzialmente due tipi di personalità
creativa: "coloro i quali non sono consapevoli della spaccatura
fra se stessi e l'ambiente o all'interno di se stessi e coloro
i quali lo sono" (cito Isaiah Berlin che così efficacemente
riassunse il punto di vista di Schiller). Ingenui sono gli artisti
"inconsapevoli", per i quali l'arte è una forma
naturale di espressione, non contaminata da autoanalisi o preoccupazioni
sulla sua collocazione all'interno del processo storico. "Essi
percepiscono direttamente e cercano di esprimere ciò che
vedono per se stesso e non per scopi ulteriori, per sublimi che
siano". Come esempi di artisti ingenui Schiller cita Omero,
Shakespeare, Cervantes e, tra i contemporanei, Goethe.
Dall'altra parte c'è lo stagno sentimentale che "si
apre quando l'uomo entra nello stadio culturale perdendo l'unità
sensoriale primordiale [
] L'armonia fra sensi e pensiero,
che era reale nello stadio precedente (ingenuo), ora esiste soltanto
sotto forma di ideale. Non è più nell'uomo, come
esperienza di vita: bensì fuori di lui come ideale da
realizzare". La dimensione sentimentale nasce quando si
è spezzata l'unità e il poeta (o il compositore,
il pittore ecc.) tenta di recuperarla oppure, scegliendo l'estremo
opposto, di parodiarla o satirizzarla.
Secondo lsaiah Berlin, l'artista sentimentale "è
alla ricerca dell'armonioso mondo svanito che alcuni chiamano
natura, e lo costruisce con la propria immaginazione; la sua
poesia è il tentativo di ritornare a quel mondo perduto,
a un'infanzia immaginaria, ed esprime la consapevolezza dell'abisso
che divide il mondo quotidiano, che non riconosce come suo, dal
paradiso perduto concepito soltanto idealmente, soltanto in riflessione".
Per Schiller il poeta è "o natura stessa (e quindi
ingenuo) oppure alla ricerca della natura (e di conseguenza sentimentale)".
Come tutte le dicotomie, anche quella di Schiller diventa ridicola
se applicata con eccessivo zelo. Tuttavia apre un nuovo modo
di affrontare il comportamento artistico e il processo creativo,
e in questo senso è provocatoria e per me più illuminante
di tante altre contrapposizioni in cui spesso ci imbattiamo ai
concerti o alle inaugurazioni delle mostre d'arte: "classico
e romantico", "apollineo e dionisiaco", "moderno
e post-moderno" e così via.
Naturalmente, la possibilità che si sviluppi un'arte veramente
"ingenua" nel nostro tempo così ferocemante
storicizzato e consapevole dal punto di vista artistico è
praticamente inesistente. Oggi tutta l'arte è in un modo
o nell'altro autoreferenziale. Per chi frequenta le gallerie
d'arte, le sale da concerto e i teatri, l'immancablie "Nota
dell'autore" è un requisito da consumarsi rigorosamente
prima di accingersi a qualsiasi nuova esperienza artistica.
I costanti sconvolgimenti stilistici nella musica classica e
di consumo testimoniano un'autoconsapevolezza dolorosamente acuta,
e due fra gli autori che hanno messo più vistosamente
in ridicolo la nostra epoca, Frank Zappa e Jeff Koones, esprimono
chiaramente il furore dell'artista "sentimentale" che
si trova a dover superare un guado sovraffollato di detriti storici.
Anche scrivere del mio lavoro, come ora devo decidermi a fare,
trasferisce il mio processo creativo dal reame della spontaneità
alla violenta luce della verbalizzazione, della ragione e dell'analisi.
Questo pezzo, forse più di altri da me scritti, tenta
di lasciar parlare l'ingenuo che è in me, di lasciarlo
giocare liberamente. Mahler e Ravel, due compositori intensamente
sentimentali, trascorsero l'esistenza cercando di raggiungere
la condizione mentale "ingenua". Per conquistare quell'imposslbile
stato di grazia "dell'ingenuo" ricorsero alla ricostruzione
delle immagini e delle tonalità dell'infanzia.
Sapendo benissimo che l'"ingenuo", come l'uva della
volpe, ormai esiste soltanto come ideale irraggiungibile, mi
servo di questo obbiettivo come di un motore che mi aiuti a trovare
il mio senso dell'equilibrio. Così scrivere per l'orchestra
quando l'epoca della grande musica orchestrale è già
fiorita e passata diventa un atto profondamente sentimentale,
che potrebbe anche essere inteso come atto ingenuo, perché
parlare per mezzo dell'orchestra è sempre stato per me
un gesto naturale e spontaneo. In questo senso "sono a mio
agio con il mezzo scelto" (un requisito essenziale per Schiller),
e il risultato, per quanto è possibile, è musica
spontanea ed emotivamente realizzata.
Scritto tra la primavera del 1998 e l'inverno seguente, Naive
and Sentimental Music è dedicato a Esa-Pekka Salonen.
La mia ammirazione per il suo lavoro dipende dal fatto che condivido
la sua natura musicale "bipolare". Il compositore che
è anche direttore d'orchestra sperimenta quotidianamente
lo stridente conflitto tra pubblico e privato, estroversione
e introversione, e il duro dilemma è all'interno della
propria vita. "E-P" sembra muoversi tra questi due
mondi meglio di altri; inoltre, poiché il mio pezzo tratta
di polarità, mi pare una dedica appropriata. [...]
Essere "a mio agio con il mezzo scelto" significa in
questo caso usare una forma in tre movimenti per un ampio lavoro
di 45 minuti che, a parte le mie due opere, è la cosa
più ambiziosa che ho scritto finora. Il primo movimento
è un "saggio sulla melodia" ed è governato
dal tono "ingenuo-sentimentale" di una melodia che
fluttua durante i 20 minuti della struttura come un'idée
fixe, generalmente accompagnata dai suoni pizzicati della chitarra
e delle arpe. Il concetto di una melodia diatonica estremamente
semplice, che abbandona il nido e si avventura nel vasto mondo
come un bambino di Dickens, richiama parecchi miei pezzi precedenti:
il "Chorus of Exilied Palestinians" da The Death of
Klinghoffer e, più recente, il movimento finale del mio
concerto per clarinetto Gnarly Buttons: Put Your Loving Arms
Around Me.
Il secondo movimento, Mother of the Man, ha uno stretto legame
con la Berceuse élégiaque di Busoni. Il sottotitolo
che Busoni diede a questo pezzo poco noto è "Ninnananna
dell'uomo accanto alla bara della madre. La scelta stessa del
titolo, oltre a riassumere il conflitto tra "ingenuo"
e "sentimentale", richiama una scena archetipa che
giace nel subconscio di ogni essere umano: la morte della madre
e il desiderio di ritrovare la condizione incorrotta dell'infanzia.
Per chi conosce la mia produzione precedente, Chain to the Rhythm,
l'ultimo movimento, apparirà colmo di familiare flora
e fauna adamsiana. Minuscoli frammenti di cellule ritmiche vengono
spostate avanti e indietro in mezzo a una varietà di campi
armonici, creando una catena di eventi culminanti in un veloce
e virtuosistico impeto di energia orchestrale. L'orchestrazione
presenta una sezione particolarmente ampia di percussioni, la
cui attività si accentra sulla delicatezza del timbro
piuttosto che sulla forza del suono.
Berkeley, California, 29 gennaio 1999
[trad. Maria Clara Pasetti]
Nato nel 1947 a Worcester,
nel Massachussets, John Adams trascorre gli anni dell'adolescenza
tra Vermont e New Hampshire, permeandosi della cultura del New
England e assorbendo allo stesso modo gli stimoli di Harvard,
della Boston Symphony Orchestra e delle band di dilettanti in
cui suona il clarinetto con il padre. Trasferitosi a San Francisco
nel 1971 si è dedicato all'insegnamento divenendo sempre
più attivo come compositore e direttore d'orchestra. Compositore
stabile della San Francisco Symphony, ha imposto all'attenzione
del pubblico e della critica la sua originale scrittura per orchestra
con New and Unusual Music, Harmonium, Grand Pianola Music e con
il fruttuoso sodalizio artistico con la poetessa Alice Goodman
e il regista Peter Sellars ha dato vita alle più rappresentate
opere della storia recente, Nixon in China e The Death of Klinghoffer,
cui è seguita, su libretto di June Jordan, I Was Looking
at the Ceiling and Then I Saw the Sky. Ha diretto la London Symphony,
l'orchestra del Concertgebouw, la Cleveland, la Philadelphia,
la New York Philharmonic e la Chicago Symphony Orchestra, ricevendo
numerosi premi e riconoscimenti accademici nel suo Paese e in
Europa. Recentemente, un sondaggio dell'American Symphony Orchestra
League lo ha identificato come il compositore vivente più
eseguito in concerto.
AARON JAY KERNIS
Aaron Jay Kernis è un compositore che si aspetta molto
dalla musica, che deve "osservare" la vita ed esserne
suggestionata per provocare ogni possibile emozione, anche con
l'uso di elementi eterogenei, di suggestioni tardo romantiche
come di contaminazioni del rap di strada. A questo suo impegnativo
programma Kernis si è dedicato esplorando generi diversi,
con una coerenza che unisce strettamente l'esuberante eclettismo
degli esordi alla maggiore introspezione della produzione più
recente, dando vita a gorghi musicali che inghiottono tutta la
musica che li circonda e sono capaci di esplosioni di colore
come di tese contemplazioni.
La fascinazione per teatralità e colori brillanti, la
ricerca di un processo musicale controllato che non rinunci alla
passione per le forti emozioni sono evidenti sin dai primi quattro
Cycle (1979-82), in cui organici strumentali cameristici si alternano
all'uso delle voci, nel corale Stein X Seven (1980), nel luminoso
Nocturne (1982) come in Morningsongs (1982-83), ma è nelle
più ampie partiture di Dream of the morning sky (1984)
e del più aggressivo Mirror of Heat and Light (1984) che
il progetto di far convivere malinconie ed esuberanza, costruzione
ed emozione in una solida griglia formale si definisce più
compiutamente.
La predilezione per la voce e l'esplorazione dell'espressività
della poesia e del teatro si manifesta ancora in due cicli vocali
quasi operistici, America(n) (Day) Dreams (1984), sei canti per
mezzosoprano e orchestra da camera su poemi di Mary Swenson,
e soprattutto Love Scenes, scritto nel 1986-87 per il violoncellista
André Emelianoff e il soprano Dawn Upshaw, dove Kernis
adatta undici poesie da Happy as a Dog's Tail di Anna Swir tratteggiando
la raffigurazione del dissolversi di una relazione amorosa, con
una musica intensa ed espressionistica.
Sul fronte esclusivamente strumentale si colloca invece il triplice
Invisible Mosaic, ispirato dalla vista dei mosaici bizantini
di Ravenna, di cui Kernis intende trasmettere l'impressione di
schiacciamento, confusione e frammentarietà che si trasformano
in ampie linee melodiche, alla ricerca di "qualche sorta
di risoluzione, emotiva o armonica". Così alle vivide
allucinazioni dei primi due Mosaic (1986-88), in un crescere
progressivo di organico e brillantezza sonora, fa seguito il
più leggero e giocoso Invisible Mosaic III, commissionato
dall'American Composers Orchestra (1988) dove le aspirazioni
di tutto il ciclo trovano compimento.
Il medesimo spirito giocoso trova un eco nel trio per flauto,
violino e pianoforte Delicate Songs (1988), dove si incrociano
influenze che vanno da Cajkovskij a Reich, passando attraverso
Sinatra, e nel tuffo nel mondo infantile dei Songs of Innocents
Books I and II (1989-91). In questa composizione per soprano
e pianoforte, Kernis raccoglie intorno a un nucleo di testi dell'Inghilterra
del XVIII e XIX secoli versi provenienti dall'India e poesie
contemporanee di Mary Swenson, accompagnando la giornata di bambini
buoni e discoli dal risveglio alla ninnananna.
L'inquietudine emotiva trova invece forma nelle immagini di onde
sonore, di luce, di vento, e nei mille barbagli d'acqua della
complessa Symphony in Waves (1989). Il contrasto tra sogni e
mondo naturale, uno dei fili conduttori della musica di Kernis,
trova poi corpo nel 1990 nel classico String Quartet ("musica
coelestis"), in Brilliant Sky e Infinite Sky per baritono,
violino e percussioni, e in Simple Songs (1991), per soprano
e piccola orchestra, su testi tratti da un'antologia di poesia
sacra, The Enlightened Heart, che racchiude brani di Ildegarda
di Bingen, dei Salmi, di un maestro Zen giapponese e di un mistico
Sufi. Qui Kernis ha iniziato un processo di spoliazione della
propria musica, utilizzando un contrappunto scarno e un'espressione
musicale ancor più diretta.
Il percorso di Kernis prosegue alternando bizzarrie come la "fanfara
per trio d'archi" Mozart en Route (1991), la cui allegra
chiassosità ricorda Ives, ai più consapevoli e
tragici Second Symphony (1992), Hym, Aria-Lamento e Still Movement
with Hym (1993), con organici che prevedono dalle formazioni
cameristiche alla fisarmonica e all'orchestra, fino a raggiungere
un culmine di intensità emotiva nel concerto Colored Fields
(1994), ispirato ai campi inzuppati di sangue di Auschwitz e
Birkenau. Allo stesso modo l'interesse mai sopito per la vita
urbana e la musica popolare produce i vivaci 100 Greatest Dance
Hits e New Era Dance, a raccogliere suoni e inquietudini delle
strade newyorkesi.
In questi ultimi anni Aaron Jay Kernis ha concentrato la sua
curiosità per l'umanità e il suo romanticismo,
la consapevolezza politica e l'inclinazione per la teatralità,
nell'elaborazione di Goblin Market, un elaborato adattamento
teatrale per voce recitante e 14 strumenti dell'omonima opera
di Christina Rossetti, in Air (1995), concisa e dolcemente melanconica
partitura per violino e pianoforte scritta per Joshua Bell, e
segue inoltre numerosi progetti sinfonici per la St. Paul Chamber,
la Minnesota, la Los Angeles Chamber Orchestra e altre grandi
formazioni americane.
Aaron Jay Kernis è
nato a Philadelphia il 15 gennaio 1960. Vero figlio di quella
decade esplosiva, ha iniziato il suo apprendistato musicale a
12 anni, autodidatta al pianoforte prima, studente di violino
poi, scoprendo le opere per tastiera di Bach, le sinfonie di
Mahler e la musica di Steve Reich. Precoce compositore, ha studiato
nella sua città natale, con John Adams a San Francisco,
alla Manhattan School of music e alla Yale University, dove incontra
Jacob Druckman che nell'83 gli regala uno dei suoi primi momenti
di celebrità con una lettura del suo Dream of the morning
sky durante una prova aperta della New York Philarmonic. Costretto
a difendere le sue scelte di strumentazione dalle critiche che
Zubin Metha gli muoveva dal podio, Kernis riscosse la simpatia
del pubblico e ottenne l'attenzione della stampa.
STEVEN MACKEY
Vi sono alcune persone nel mondo musicale odierno, tra cui l'autore
di questo articolo, che rivendicano a sé soltanto il merito
di avere scoperto Steven Mackey. È probabile che la spiegazione
di questo paradosso attenga al fatto che le qualità della
sua musica, la sua originalità, la sua freschezza, la
sua stupefacente inventiva, una certa impertinenza, danno all'ascoltatore
l'impressione di trovarsi di fronte a un ciottolo insolito scoperto
su di una spiaggia disseminata di pietre; un ciottolo di cui
non si conosce bene la provenienza, che attira vivamente l'occhio,
non sembra al suo posto e pare spiccare tra i suoi vicini. Lo
si raccoglie, incantati dalla scoperta, lieti che nessun altro
l'abbia notato, contenti di essere passati di lì. Dopo
un esame più minuzioso, ci si comincia a stupire per le
sue caratteristiche. Chi avrebbe avuto l'idea di combinare queste
qualità particolari? - di solito le cose non sono fatte
così, ma che bella idea, per un sasso.
L'insieme di qualità che caratterizzano Mackey e la sua
musica non provengono da circostanze abituali. Steven (anche
i suoi studenti lo chiamano per nome) ha trascorso la giovinezza
sulle piste di sci, i campi di tennis e di baseball di Marysville,
nel Nord della California, diventando così un magnifico
atleta. Quando non faceva sport, si sforzava d'imitare Jimmy
Page e Jimi Hendrix sulla propria chitarra elettrica.
Il destino ha voluto che, afflitto da uno strappo al tendine
d'Achille, scoprisse la Sagra della primavera. È lo stesso
Steven a raccontarci di essere stato travolto da questa musica,
e dall'idea di divenire compositore. Abbandonato il corso di
studi di fisica all'Università di California, si è
rivolto rapidamente alla musica, con risultati altrettanto brillanti.
Studi di terzo ciclo a Stonybrook e Brandeis e incarichi di insegnante
a William, Mary e Princeton, dove poi è stato nominato
professore all'età di 36 anni, lo hanno messo in contatto
con il mondo esaltante della musica contemporanea, sperimentale
e avventurosa.
Dopo il suo periodo di apprendistato, Steven ha tolto dall'astuccio
la chitarra, e con essa l'eredità musicale di un'"infanzia"
che accoglieva nel suo metodo di composizione influenze diverse:
Led Zeppelin, Monteverdi, Stravinsky, Muddy Waters, Mahler, Monk
e altri. Inoltre, la musica di Steven ha iniziato ad affermare
le sue qualità di atleta: estroversione, ottimismo, entusiasmo.
Costruendo accuratamente le proprie opere con l'attenzione rivolta
al ruolo dell'interprete, influenzato probabilmente dall'energia
esuberante di cui necessita un chitarrista rock per proiettare
la propria musica verso la folla, Steven è divenuto -
secondo la sua espressione - più un narratore che uno
scultore di suoni. Brani come Deal, Eating Greens e Banana/Dump
Truck mostrano una particolare e personalissima attenzione al
ruolo dell'interprete in un processo nel quale il lavoro non
consiste semplicemente nel suonare le note giuste. I musicisti
divengono personaggi di un dramma a un tempo palpitante, rischioso,
vivificante e intellettualmente stimolante. In Deal, ad esempio,
Mackey ha creato un convincente sfondo musicale sul quale un
chitarrista e un batterista improvvisano guidati dalla partitura
del complesso che li accompagna e da indicazioni generali d'interpretazione.
La musica del complesso, che Mackey ha paragonato a un "arido
paesaggio urbano", crea un ambiente spoglio ma che avvolge
i musicisti, e il risultato è assolutamente originale
nel campo dell'improvvisazione. Ad accompagnare il complesso,
inoltre, è un nastro magnetico, su cui sono incise la
suoneria di un telefono a cui nessuno risponde, l'abbaiare di
un cane e un volo di oche selvatiche. Il risultato è a
un tempo straziante, appassionato e profondamente commovente,
e traduce un sentimento profondo che ricorda il Mahler dell'ultimo
periodo.
In numerosi casi i suoi brani contestano la stessa autorità
del palcoscenico, ad esempio la consegna di pizze di Eating Greens
oppure la messa in scena stile vaudeville di Banana/Dump Truck,
in cui l'orchestra continua a suonare durante i saluti d'ingresso
e d'uscita del violoncellista. Non si tratta mai di gags; al
contrario, è un modo per incoraggiare lo spettatore a
un ascolto diverso, per tentare di comprendere meglio la relazione
tra come la musica è percepita e cosa essa cerca di dire.
La consegna di pizze, ad esempio, provoca una tregua passeggera
e assai insolita, spezzando il fascino della musica. Ma l'orchestra
riprende poi con forza, e gli ascoltatori devono di nuovo concentrare
l'attenzione con rinnovata energia. Eating Greens rivela inoltre
la mano di un maestro dell'orchestrazione, fluido, brillante
e pieno d'inventiva, difficile e stimolante per gli interpreti.
Taluni brani, come No Two Breaths e See Ya Thursday, mostrano
un lato contemplativo. Per riprendere la metafora dell'atleta,
non si tratta tanto di una contemplazione chiusa in se stessa
quanto di uno stato d'animo simile a quello di uno sportivo che
si prepari a uno sforzo intenso. No Two Breaths vibra per tutta
la sua durata del ritmo di un respiro meditativo.
Un altro aspetto della sua musica si rivela in opere come Never
Sing Before Breakfast e Indigenous Instruments, che esplorano
paesaggi immaginari sperimentando accordi di strumenti e suoni
registrati, creando contesti nei quali la musica sembra essere
la voce degli abitanti di un mondo lontano. In ogni caso, la
musica resta profondamente pensierosa, e dà l'impressione
di un magistrale narratore che inventi un racconto con straordinaria
attenzione, abilità, cura del dettaglio e della profondità.
A parte ogni retorica, ci troviamo qui in presenza di una musica
che si distingue da ogni altra della nostra epoca. Eseguita brillantemente,
specificamente americana, accessibile a una nuova categoria di
ascoltatori, la musica di Mackey proviene da recessi che non
avevano finora fatto ascoltare la loro voce nella musica da concerto.
Ma ora ci si rende conto che quel che dicono valle la pena di
essere ascoltato. Chi l'avrebbe creduto...
Paul Lansky
[Steven Mackey, Boosey & Hawkes, trad. Paolo Martinaglia]
Steven Mackey
Chi ritengo di essere?
Un tipo che ha passato un sacco di tempo a suonare in bande rock,
quand'era giovane
che ha lasciato la bella vita di musicista rock per diventare
uno sciatore di freestyle
che ha lasciato la bella vita di sciatore di freestyle per suonare
il liuto e diventare direttore di un ensemble di musica antica
che ha lasciato la bella vita di suonatore di liuto e aspirante
direttore di ensemble di musica antica per diventare un compositore
"serio"
che oggi ha girato la boa dei quaranta (14/2/96)
che nel mondo della musica contemporanea è noto come un
compositore cameristico e per orchestra che qualche volta inserisce
in organico la chitarra elettrica
che dalle parti della Princeton University è noto come
insegnante di composizione, teoria, e musica del XX secolo
che svolge attualmente attività musicali che comprendono:
composizione a tavolino, al pianoforte, con la chitarra, direttamente
su nastro, al computer, per altri, per se stesso; improvvisazione
da solo, con amici e con studenti; arrangiamento di musiche altrui
per organici vari; a solo di chitarra, tanto per esibirsi, interpretazioni
di musica da camera propria che includa la chitarra, sit-in con
gruppi musicali al campus
un ottimista
[cd Lost & Found, Bridge, trad. Paolo Martinaglia]
MICHAEL TORKE
Con le sue due opere meglio conosciute, Ecstatic Orange e The
Yellow Pages, scritte nel 1985 quand'era allievo di composizione
a Yale, Michael Torke ha praticamente definito il post-minimalismo:
una musica nella quale un gruppo eclettico di giovani compositori
utilizza strutture musicali ripetitive, ereditate da una generazione
precedente, allo scopo di introdurre tecniche di composizione
provenienti tanto dalla tradizione classica quanto dal mondo
pop contemporaneo.
Se a questo aggiungiamo un'energia esuberante e la rumorosa applicazione
di un colore strumentale vivissimo, The Yellow Pages per complesso
di musica da camera ed Ecstatic Orange, la prima opera per orchestra
di Torke, sembrano riflettere l'aspetto ottimista e quasi arrogante
che regnava nell'ambiente artistico degli anni Ottanta. Come
in un procedimento architettonico, la musica di Torke non esita
a prendere in prestito il materiale familiare della musica pop
e a frammentarlo per poi ricostruirlo in un ribollente amalgama
caratterizzato da una straordinaria imprevedibilità. Così
come fanno la letteratura e la pittura post moderniste, Torke
crea un'immagine musicale sorprendente, che cattura i sensi e
li trascina con una marzialità ritmica da molti considerata
irresistibile.
Sorprendente è il fatto che Torke abbia realizzato tutto
ciò utilizzando metodi e procedimenti cari a compositori
di epoche lontane quali il Medioevo - ad esempio l'uso di musiche
popolari di danza per animare la musica colta, o l'evocazione
visiva di colori per mezzo della sonorità - ma con modalità
che sembrano incarnare qualcosa di completamente nuovo. Ciò
è dovuto al fatto che Torke, pur attingendo gran parte
della propria ispirazione alla canzone popolare, conserva in
fondo un'ispirazione essenzialmente personale, ad esempio quando
utilizza una linea di basso di Chaka Kahn come base per un proprio
ostinato. La sua concezione del colore è allo stesso modo
capricciosa e individuale. Torke è estremamente sensibile
agli effetti sinestesici provocati dall'associazione di accordi
e tonalità diverse con colori particolari; molte sue composizioni
hanno come titolo il nome di un colore, traendo atmosfera e carattere
dall'interpretazione che a questo colore viene data.
All'opposto di numerosi compositori americani, che si sono sviluppati
a contatto con la musica popolare e che si sentono in seguito
obbligati a ripulirsi da queste influenze quando si rivolgono
alla musica "seria", Torke (che è inoltre un
abilissimo pianista) ha trascorso la propria infanzia letteralmente
immerso nella musica classica convenzionale. Soltanto al momento
di entrare nella Eastman School of Music ha scoperto la musica
rock e jazz, e da allora il suo entusiasmo per la musica popolare
è diventato in qualche modo una missione nella sua opera.
Gli elementi di musica pop influenzano in gradazioni diverse
la struttura del brano, ne determinano il contenuto armonico
e melodico, animano il ritmo e la pulsazione della partitura.
Non sono tuttavia tanto la sonorità o la struttura apparenti
di questi elementi pop a infiltrarsi nell'opera di Torke - dal
momento che la sua musica è costruita in modo squisito
e spesso neoclassico - quanto, in modo più soggettivo,
è l'energia stessa del rock a esservi introdotta da questi
stessi elementi.
Ed è grazie a quest'energia irresistibile - poiché,
dopo tutto, la musica popolare è prima di ogni altra cosa
musica di danza - che le opere sia cameristiche sia orchestrali
di Torke hanno sedotto i coreografi, in particolare Peter Martins
del New York City Ballet, che finora ha già prodotto la
coreografia di sette composizioni di Torke, fatto che ci ricorda
un precedente nella storia di questa compagnia: i rapporti tra
Balanchine e Stravinsky.
Il paragone con Stravinsky si riaffaccia costantemente quando
si parla della musica di Torke, poiché essi hanno in comune
la capacità di sviluppare senza sosta temi frammentati
e un'ingegnosità ritmica ridondante. Ma, prima di tutto,
a iscriversi più precisamente nella tradizione di Stravinsky
sono i procedimenti formali di Torke. In Adjustable Wrench, ad
esempio, una frase pop di quattro battute è sottoposta
nel corso di uno sviluppo totalmente imprevedibile a trasformazioni
tanto radicali e complesse quanto quelle che subirebbe un'aria
popolare originale tra le mani di Bartòk o Stravinsky.
Benché questi metodi caratterizzino quasi tutte le composizioni
di Torke, il loro utilizzo varia considerevolmente a seconda
delle opere. Evidentemente, era necessario che Torke introducesse
un numero costantemente crescente di elementi presi a prestito
ai secoli XVIII e XIX - ad esempio i procedimenti beethoveniani
di sviluppo che utilizza con tanta naturalezza in Ash - prima
di sperimentare apertamente dei pastiches nello stile di questi
due secoli, come è provato dalla Messa corale, danza rituale
scritta per il New York City Ballet, e Bronze per pianoforte
e orchestra.
Queste opere non rappresentano tuttavia se non una breve divagazione,
e il recente ritorno di Torke a uno stile più moderno,
trascinato dall'energia della sua vibrazione, ha creato tensioni
tanto più spettacolari quanto più il complesso
sviluppo del suo linguaggio armonico e melodico non cessa di
evolversi. Per di più, egli continua a scoprire vie nuove
per arricchire la musica da concerto con tecniche non classiche.
Nel suo nuovo quartetto per archi Chalk (per il quale il compositore
evoca la straordinaria immagine di "una nube di colofonia
che si solleva dai ponticelli degli strumenti, tanta è
l'intensità data alle arcate dagli strumentisti")
Torke chiede ai musicisti di lasciarsi andare completamente allo
scopo di rendere i ritmi meccanici. In questo caso specifico,
Torke incrina il formalismo classico del ritmo minimalista con
lo stile appassionato di esecuzione tipico del rock, e ricrea
l'eterno conflitto tra classicimo e romanticismo attraverso la
modernità di colori e di forme propria alla fine del XX
secolo.
Mark Swed
[Michael Torke, Boosey & Hawkes, trad. Paolo Martinaglia]
Intervista a Michael
Torke di Michelle Ryang
-Com'è arrivato
al titolo di Javelin?
Ero in bicicletta lungo una strada sterrata della MacDowell Colony
(dove ho scritto quest'opera) quando pensai: "Mi piace la
parola "Javelin"". Mi piace la forma delle lettere,
soprattutto la "J" maiuscola . C'è in essa qualcosa
di filante; forse ricordo ancora la macchina sportiva che mio
padre possedeva nei primi anni Settanta (una AMC), che si chiamava
"Javelin". Il movimento veloce di buona parte di questa
musica ricorda quello di un oggetto lanciato; una sottile saetta
qual è un giavellotto sembrava un paragone adatto. Questo
spirito semi-eroico si applica certamente ai Giochi Olimpici
del 1996, e fin dal momento in cui mi è giunta la richiesta
da parte del Comitato Olimpico per i Giochi e della Atlanta Symphony,
sapevo che il titolo sarebbe stato appropriato.
-Come si colloca Javelin nel catalogo delle sue opere?
Volevo che fosse un brano da parata, adatto a iniziare un concerto.
Sapevo che era questo che voleva il pubblico pagante. Che cosa
avrei dovuto fare, scrivere un Adagio?
-Ci sono molti che lo ascoltano come se fosse un punto di
partenza per le altre sue opere.
Forse il carattere espressivo di questo brano è ancor
più diretto di quello delle opere precedenti. Riconosco
che con Javelin ho avuto un approccio più "umanistico"
a quel che ciascun membro dell'orchestra avrebbe dovuto suonare,
e assegnando loro compiti come quelli che erano abituati a eseguire,
può darsi che sia risultato un suono più tradizionale.
Taluni vi avvertono un'influenza francese. Dal momento che io
ritengo di aver sempre subito - fin dai tempi di Ecstatic Orange
e persino per Vanada - l'influsso di Messiaen e di Ravel, se
non del francesizzato Stravinsky, non ci vedo nulla di nuovo.
Michael Torke su
"Four Proverbs", "Music on the Floor" e altro
Il punto di partenza di Four Proverbs (completato nel 1993) fu
che le melodie vocali possono essere trattate come uno qualsiasi
degli elementi di base manipolati dal compositore. Secondo me,
il pop è fondamentalmente una musica di presentazione:
questo è il verso, ed ecco il ritornello. Poi mi chiesi:
che cosa accadrebbe se le melodie con i brevi proverbi biblici
che avevo scelto venissero riarrangiate, mescolate alla rinfusa,
per poi assumere gradualmente la loro forma attuale? Non solo
la voce sarebbe diventata uno strumento tematico, sviluppando
le melodie originali fino alla loro dissoluzione, ma l'orecchio
avrebbe potuto udire la sintassi verbale perdere e riassumere
significato. In tal modo le parole avrebbero rafforzato l'effetto
del mio gioco con le note.
Con il loro stile conciso, questi proverbi biblici si prestavano
alla creazione di semplici melodie binarie. Ma ad attrarmi non
era soltanto la loro utilità tecnica: c'era anche una
componente di nostalgia personale. All'età di dodici anni,
quando per coincidenza feci la duplice scoperta delle ragazze
e di Dio (che a quel tempo non mi parvero in contraddizione),
tolsi dallo scaffale la Bibbia di famiglia, e fu il libro dei
Proverbi a produrre in me l'impressione più chiara e immediata.
L'intersecarsi di poesia ed etica mi colpisce ancor oggi e, seppure
in forme diverse, è un'associazione presente anche in
certa musica pop urbana dei nostri giorni. Le rime della musica
rap comunicano anch'esse un messaggio (pur se a volte violento
e misogino) su come i giovani dovrebbero o non dovrebbero comportarsi.
I termini della mia commissione per Music on the Floor (scritto
sempre per Present Music e portato a termine all'inizio del 1992)
prevedevano l'uso di un piccolo gruppo di musicisti. Pensai allora
a due vibrafoni (uno a sinistra e uno a destra) a sostegno del
tema principale, un pianoforte come terza voce, un quartetto
d'archi come base armonica e due legni che avrebbero contribuito
con ulteriori apporti melodici.
Dopo aver trovato un accordo di base (in sei parti, dalla caratteristica
aura lidia) e un particolare ritmo sincopato (che si può
ritrovare in quasi tutti i brani che ho scritto negli ultimi
dieci anni), procedetti come d'abitudine, cercando di sviluppare
da questo accordo e da questi ritmi tutte le possibili estensioni,
proliferazioni e nuovi motivi che da essi spontaneamente sorgevano.
Ognuno di questi frammenti aveva una propria rilevanza emotiva
e drammatica, ma l'espressione musicale sorgeva dall'organizzazione
e dall'assemblaggio di questi frammenti sparsi in una forma di
tre movimenti, e non viceversa. I compositori che lavorano diversamente
potrebbero pensare: "Oggi sono triste, vediamo che cosa
ne viene fuori"; o in forma più estrema: "Oggi
mi sento oppresso dalla tristezza, posso solo scrivere musica
che rispecchia la mia angoscia". Ho sempre pensato che la
musica sia più che semplice autoespressione (o autoterapia,
a seconda dei casi).
Non è mia intenzione disingannare l'ascoltatore che presume
che Music on the floor si riferisca all'intima natura della "love
music" del secondo movimento: nella vita non riusciamo sempre
ad arrivare in tempo alla camera da letto! Ma la verità
è più prosaica: alla fine del 1991, quando lavoravo
a questa composizione, usavo cartelline con etichette descrittive
per suddividere i fogli manoscritti che si accumulavano sul pavimento:
"Musica vivace", "Musica più bagnata",
"Musica con gerarchie"... Alla fine avevo ancora materiale
anonimo ma potenzialmente utile ammucchiato sotto la scrivania
e sul tappeto. Raccolsi allora tutti questi fogli in una cartella
su cui scrissi "Music on the floor". Ciò che
è utile a un compositore non può sempre essere
descritto con parole semplici.
I due brani che prendono il titolo da due giorni della settimana
nascono dalla mia passione per i rituali della vita di ogni giorno.
Da bambino non sopportavo la monotonia. Non riuscivo a capire
perché tutti volessero attenersi a una tabella oraria
quotidiana: al mattino in piedi con la stessa sveglia, poi la
colazione, esattamente alla stessa ora. Non capivo perché
la messa cattolica dovesse essere ogni domenica la stessa. Quando
facevo il lanciatore nella squadra di softball degli scout, ripetere
la stessa mossa quattro volte di fila mi sembrava noioso e dopo
il terzo lancio provavo qualcosa di brillante e diverso; così
davo agli avversari uno schiacciante vantaggio, noi perdevamo
e l'allenatore era furioso.
Ma più tardi cominciai ad apprezzare le cose che si ripetono,
le cose che restano invariabili. La ripetizione non è
necessariamente un insulto all'intelligenza. Essa può
avere una forma di rituale: la base stessa della vita. Il cuore
umano batte con una scansione periodica, pompando la vita a ogni
cellula del corpo. Gli esseri umani sarebbero migliori se i loro
cuori battessero imprevedibilmente?
I metodi compositivi di cui mi servivo all'epoca di Monday &
Tuesday (terminato nel 1992) potrebbero essere descritti come
una macchina delle funzioni musicale. Si dà un input e,
a seconda della funzione, si ha un dato output. Ma che cosa accade
se la composizione stessa è la macchina delle funzioni,
e per ogni movimento tu immetti una nuova sequenza di accordi,
ritmi e melodie? Come lo sentiranno gli ascoltatori? Le differenze
risaltano maggiormente a causa dell'invariabilità della
forma e dell'orchestrazione? Cosa rende diversi i due movimenti?
Quando orchestro alle tre del mattino, e lavorando ho bisogno
di ascoltare musica in cuffia, mi scoraggia scoprire come finisce
presto la mia musica favorita. Con una combinazione di Monday
più Tuesday, l'ascoltatore "paga uno e prende due":
una seconda corsa gli riproporrà la maggior parte delle
attrattive che aveva presumibilmente apprezzato nella prima versione,
ma con diversi risultati musicali.
[cd Music on the Floor, Decca, trad. Giulio Lupieri]
Color Music
Ogni compositore è, in certa qual misura, egli stesso
composto dalle dicerie e dalle critiche che vorticano nei teatri,
nei caffè e sulla stampa. Nei pochi brevi anni compresi
fra la prima grande opera orchestrale di Torke, Ecstatic Orange,
e la comparsa della sua incisione, il cicaleccio su di lui si
è quasi consolidato in un'ortodossia da catechismo. Alla
domanda sulle ragioni della sua celebrità la risposta
elaborata dal concistoro critico pare debba essere che Torke
è riuscito a ben fondere musica jazz, pop e classica.
È anche indispensabile sapere, fra l'altro, che Torke
è giovane e pieno di vita, brioso ma serio, avventuroso
ma motivato. Il suo nome richiama alla mente un Siegfried contemporaneo,
l'ingenuo innocente nato in mezzo ai crollo di forze sinistre
e corrotte. La maggior parte di tutto ciò corrisponde
forse a verità.
Nato nel 1961, Torke è senza dubbio giovane, specialmente
se si considera che la sua musica è già stata eseguita,
coreografata e incisa da alcuni dei più prestigiosi gruppi
artistici mondiali. La sua è senza dubbio una musica energica
e audace, caratteristiche da lui stesso sottolineate scarabocchiando
sulle partiture nomi di colori primigeni associati alle spiagge
e alle sale da ballo, lo spettro cromatico della gioventù.
Ma questa reputazione a pronta presa trascura una delle gioie
essenziali insite nel primo ascolto di un'opera di Torke; trascura
il senso di precarietà della sua musica, l'impossibilità
di dare per scontato l'equilibrio musicale fra rigore formale
e fascino emotivo.
La musica di Torke pullula di ironia, a partire dalle sue ambigue
segnature sulle partiture, fino alle insolite vie che lo hanno
condotto al successo. La più curiosa di queste passa per
la sua lunga associazione con Peter Martins, erede al trono di
Balanchine al New York City Ballet. Nel 1986 Martins, indiscriminatamente
a caccia di nuove musiche, incappò su di un nastro di
Ecstatic Orange scritta dal Torke studente. Il coreografo afferma:
"Il brano mi comunica un senso di padronanza dell'orchestra
assai affascinante". E non fa grande meraviglia che Martins
reagisse così a quest'elemento torkiano, nocciolo del
più profondo legame del compositore col passato. Quello
che è strano invece è che una compagnia di danza
nota come il più energico baluardo della tradizione americana
sia diventata il più grande alleato di Torke. Ci si potrebbe
attendere un gruppo di danza moderna metropolitano ispirato da
Torke a frenetici balzi e giravolte, ma non la disciplina di
ballerini classici al limite del loro equilibrio anatomico.
Per quanto possa parere strano, Martins continuò a lavorare
con Torke, fornendogli commissioni di valore, e proponendolo
ad ambienti che lo avrebbero preso sul serio. L'originale Ecstatic
Orange divenne un balletto in tre tempi, comprendente il precedente
Green e Purple; una nuova commissione di Green, in origine chiamato
"Verdant Music", ebbe la première nel 1986 per
opera della Milwaukee Symphony Orchestra sotto la bacchetta di
Lukas Foss. Il compositore per l'occasione scrisse: "Green
suggerisce una qualità fatta di semplicità, di
immediatezza, riferita sia ai semplici blocchi costitutivi del
brano (accordi di tonica e settima di dominante giustapposti),
che ai valori della gente del Wisconsin". È questa
la terra natale del compositore, ricordata con affetto.
Come Ecstatic Orange, Green è essenzialmente monotematico,
un arco di dodici minuti che paradossalmente si rilassa nella
sua complessità armonica e si tende nella semplicità
armonica. Anche Ecstatic Orange è monotematico, basato
su un tema di sei note che appare in contesti sempre differenti
durante l'impeto senza posa che porta a una conclusione in fortissimo.
Il brano restante del trittico del City Ballet è Purple,
inteso come un pas de deux più lento inserito al centro
del balletto. Sebbene chiaramente lirico se paragonato a Ecstatic
Orange e Green, si tratta di ben altro che un interludio sentimentale,
anche quando viene rallentato dal City Ballet per incorporare
movimenti più lunghi e lirici.
Torke sviluppa implicazioni musicali di un'idea tratta da Wittgenstein
in Bright Blue Music del 1985, commissionatagli ed eseguita per
la prima volta dalla New York Youth Symphony, e in Ash, del 1989,
eseguita in première dalla Saint Paul Chamber Orchestra
sotto la direzione di John Adams. Cercando il parallelo al ragionamento
wittgensteiniano secondo cui il significato consiste non nell'etimologia
ma nelle moltitudini di grammatiche che abbondano nel linguaggio,
Torke decide che "il linguaggio armonico è allora
in un certo senso insignificante". Non sono le particolari
armonie o la gerarchia di complessità che le ordina, ma
piuttosto la grammatica locale di tensione e rilassamento a strutturare
la loro interazione; in tal modo, come scrive il compositore,
"Se la scelta dell'armonia è arbitraria, perché
allora non usare accordi di tonica e dominante, i più
semplici e diretti e, per me, i più piacevoli?".
Certo, perché no? Una possibile risposta potrebbe provenire
dallo stesso uomo che ispirò l'idea. È noto che
Wittgenstein abbia criticato anche la possibilità di linguaggi
privati, e a prima vista pare che Torke si dedichi proprio a
questi nella propria musica. Ma ognuno tenga ciò che gli
interessa, e lasci il resto. Se mi piacciono queste particolari
armonie, le userò nella mia grammatica privata. Se la
musica significa per me "arancione", ecco che allora
è arancione. Nonostante ciò non vi è nulla
di solipsistico circa la composizione di Torke, e non vi è
neppure alcun autocompiacimento. La musica è pubblica,
affascinante e popolare. La ripetizione, la propulsione ritmica
e le armonie luminose e solari saranno piaceri privati di Torke,
ma lo sono anche per il suo pubblico. Bright Blue Music e Ash
paiono, a prima vista, tratte dallo sviluppo o dalla coda di
una sinfonia classica, visioni frammentate della prima, quintessenziale
musica pubblica. La scrittura è libera, esuberante, perfino
in Ash, dalle tinte più fosche. È il timbro di
un compositore che si delizia dei propri rimaneggiamenti di materiale
familiare, dimentico di polemiche trite e ritrite. Almeno questo
è assolutamente vero, della sempre crescente fama di Michael
Torke come nuovo dissidente.
Philip Kennicott
[cd Colour Music, Decca, trad. Gabriele Azzaro]
The Yellow Pages
The Yellow Pages, scritto nel 1985 ed eseguito per la prima volta
dagli Yale Contemporary Music, presenta già molti elementi
che Torke ha poi continuato a sviluppare durante gli anni successivi.
Una delle caratteristiche dell'opera, come in quasi tutti i pezzi
scritti dal compositore fino a quel momento, è il fatto
che è ispirata dal colore. Torke è un compositore
ispirato dalla sinestesia che associa i colori agli accordi -
in questo caso il vivido sol maggiore attorno al quale ruota
la partitura è rappresentato dal giallo. Ma il titolo
è anche un doppio gioco di parole sulla guida telefonica
e le osservazione di un professore di Yale. Questi aveva avvertito
i suoi allievi che se fossero entrati nel "banco dei pegni
della tonalità" essi avrebbero pagato un prezzo altissimo.
E Torke, attratto da tale locale, immagino che avrebbe effettivamente
finito per trovarvi della musica su pagine ingiallite.
Con The Yellow Pages, Torke annuncia quello che poi sarebbe divenuto
il suo caratteristico stile cinetico e sincopato. La partitura
è basata su una linea di basso di una sola battuta (derivato
da una canzone di Chaka Khan), ripetuta come un ostinato (in
modo che è sempre avvertibile il battito vigoroso del
piede ma non si sa mai esattamente a che punto della battuta
avvenga). Per le ripetizioni vengono aggiunti dei diesis all'armonia,
che contribuiscono a spingere in avanti la musica a scatti discontinui,
imitando l'effetto che si otterrebbe sfogliando le Pagine Gialle
del telefono. E, tipico del metodo d'invenzione tematica di Torke,
il motivo viene continuamente sviluppato e condotto attraverso
svolte sorprendenti, cosicché si avverte una base nella
musica ritmica che tuttavia non è mai prevedibile.
Slate è l'esperimento più radicale di Torke nel
campo della sinestesia musicale, e anche quello più discusso.
La versione registrata qui è una riduzione per orchestra
da camera del primo movimento di una partitura per orchestra
composta all'origine per un balletto di Peter Martins intitolato
Ecno e allestito per la prima volta dal New York City Ballet
nel 1989. Nell'opera completa ognuno dei quattro movimenti è
formato dal medesimo brano, tranne che per l'armonia che modifica
il carattere e il colorito della musica, quasi fosse l'equivalente
sonoro di una serie di serigrafie di Andy Warhol. Ma, al pari
delle immagini di Warhol, Slate può anche stare in piedi
da sola.
Al contrario delle altre partiture comprese in questa serie,
Adjustable Wrench del 1987 non comincia con una grossa esplosione
ma timidamente, con una semplice frase pop ripetuta da quattro
battute, sulla quale viene sviluppato un facile tema ritmato
degli ottoni. Ma come suggerisce il titolo, le regolazioni della
torsione vengono effettuate con l'innocuo materiale che acquista
carattere quando viene disposto in maniera intricata tra i tre
gruppi strumentali (fiati con pianoforte, ottoni con marimba
e archi). Com'è tipico di Torke, i giri e le svolte repentine
della partitura sono sempre sorprendenti, a maggior ragione quando
una parte indipendente di sintetizzatore viene introdotta verso
la fine con una linea cromatica di basso tanto frastagliata che
sembra intenta a trascinare l'innocente ostinato pop nell'avventura
più esilarante della sua esistenza.
Vanada, scritta per un gruppo studentesco nel 1984 durante l'ultimo
anno trascorso alla Eastman School da Torke, mostra più
apertamente l'influenza della musica pop, ma è anche,
stranamente, il pezzo più tradizionale di questa registrazione.
È una partitura di transizione fra le composizioni studentesche
più complesse e accademiche e il suo stile successivo,
dalle linee più ruvide e l'orchestrazione più aggressiva
(piena di esuberanti strumenti metallici ed elettrici). Le forme
musicali, tutte basate su un intreccio di 16 note, contengono
anche più sostanza della musica successiva di Torke, ma
questa è pur sempre un'anticipazione vigorosa della musica
d'azione che Torke avrebbe ben presto sviluppato. Il titolo è
un composto dai nomi di due personaggi, Van e Ada, tratti da
un racconto di Nabokov intitolati Ada, che Torke stava leggendo
quando compose questo pezzo.
In Rust, un concerto per pianoforte, fiati e basso elettrico
scritto nel 1989, Torke ritorna quasi al punto di partenza della
Vanada di cinque anni prima. Esso conserva infatti gran parte
dell'energia ruvida di Vanada e utilizza un accordo di otto note
associato a quest'ultima partitura. Ma il modo in cui i frammenti
cinetici si dividono fra la parte per pianoforte solo e i fiati
(e sono trasformati in una bella e lirica sezione centrale senza
mai interrompere il ritmo, per poi ricomporsi per una tremenda
esplosione finale) tutti sostenuti dall'entusiastico basso, è
finora l'esempio più notevole e riuscito di Torke nel
catturare l'energia della musica pop e riprodurla in una forma
musicale più sofisticata.
Mark Swed
[cd The Yellow Pages, Decca, trad. Giovanni Maragno]
ancora su
Torke
- Da tutto il mondo le mandano registrazioni di Adjustable
Wrench. Che cosa prova?
Naturalmente mi fa piacere ricevere le registrazioni, e sapere
di queste continue esecuzioni. Penso ad Adjustable Wrench come
a qualcosa di tipicamente americano, che attinge a tradizioni
americane, eppure quando ricevo un nastro dalla Sicilia, mi stupisco
di come questo linguaggio sia compreso. O da Vienna - ho ascoltato
un'esecuzione assolutamente straordinaria a Vienna. Se ne deve
concludere che o la cultura americana domina imperialisticamente
il mondo, oppure che lo stile di questo brano è più
comprensibile di quanto io stesso non abbia mai pensato che potesse
essere... Spero che la seconda ipotesi sia quella vera!
-December sembra
essere stato pesantemente influenzato dalla sua opera vocale
Four Proverbs. È una coincidenza o un fatto intenzionale?
Veramente c'è un legame diretto. Dovevo buttar giù
delle idee per l'allestimento del Mercante di Venezia curato
dal Public Theater. Il direttore Barry Edelstein, dopo aver sistematicamente
rifiutato gli spunti che avevo scritto, disse alla fine: "Ha
presente l'inizio di Four Proverbs? La melodia ossessiva del
clarinetto mi piace molto. Non potrebbe scrivere qualcosa del
genere?". Io scrissi una versione imbastardita di quel tema
e tutto il resto venne necessariamente appresso.
Si stava avvicinando sempre di più il termine di scadenza
della commissione di December. Mi resi improvvisamente conto
che cambiando chiave e segnando sulla partitura le arcate necessarie,
avrei dato a questo materiale un aspetto unico e peculiare. Con
mia grande sopresa, l'impulso musicale originale sembrava nella
sua essenza molto più adatto a un'orchestra di archi di
quanto non lo fossero le scelte strumentali fatte per il progetto
teatrale.
-December era inizialmente intitolato Rain Changing to Snow.
Perché ha cambiato il titolo?
Mi piaceva l'immagine di precipitazione, di aggressiva percussività
della pioggia, che si trasforma nel silenzioso accumularsi della
neve sui rami degli alberi; penso che l'ascoltatore possa immaginare
tutto questo quando la musica si sposta nella più tranquilla
sezione centrale. Ma mi sono sempre trovato a disagio con i titoli
troppo poetici. È buffo, ma l'approccio a un titolo così
poetico in realtà limita quel che io voglio esprimere
nella mia musica. Questo brano non si riferisce soltanto al cadere
della pioggia e della neve. Le sue cangianti sfumature corrispondono
a ricordi che s'insinuano nella mia mente; ricordi di cose come
i bei momenti dell'adolescenza nei sobborghi di Milwaukee girando
a consegnare giornali mentre enormi fiocchi di neve cadono e
si confondono con le luci di Natale, e così via. Quindi,
December è un titolo più aperto, e dà più
spazio agli ascoltatori per collocarvi le proprie allusioni.
- Lei ha diretto quest'esecuzione di December. Pensa che sia
fuorviante per un compositore dirigere le proprie opere?
Certo devo riflettere su come accordare la mia musica con il
modo di stimolare altri musicisti a suonarla bene, e in questo
non è facile essere equilibrati. Devo concentrarmi sulla
forma e le sensazioni complessive, e lasciare che gli esecutori
si occupino dei dettagli. Non cessa mai di stupirmi come il più
piccolo movimento della mano possa cambiare tanto drasticamente
l'effetto generale; le tue mani sono sui comandi! È come
la più grande playstation mai inventata. E naturalmente
tutta la faccenda funziona piuttosto bene; io, il compositore,
non sono obbligato a servirmi di intermediari, e se sorge qualche
dubbio, chi ha scritto la musica è lì, in piedi
sul podio.
- La maggior parte
della sua musica è veloce e ritmica. Perché lei
non scrive più spesso musica lenta, come il secondo movimento
di Music on the Floor?
È buffo, ma quand'ero ragazzo la parte che preferivo delle
sonate e sinfonie erano i movimenti lenti. Il mio naturale metabolismo
è veloce, e io sono attratto dalle cose che mi stimolano.
Sono sicuro che la mia scelta di vivere a New York, dove lo stile
di vita è a passo di corsa, contribusca al genere di musica
che scrivo. Ma le cose potrebbero cambiare; ad esempio, mi sento
particolarmente vicino al secondo movimento del Saxophone Concerto
e a Four Proverbs, due opere composte più recentemente.
BANG ON A CAN
Quando giungemmo a New York, negli anni Ottanta, la situazione
era molto definita: musica accademica nei quartieri alti, concerti
affollati di specialisti di New Music, un'atmosfera molto critica,
e tutti quanti in smoking; nei quartieri bassi, invece, un altro
tipo di uniforme, T-shirts nere, e altre pretese di serietà.
Né da una parte né dall'altra ci si divertiva davvero,
e c'era un'intera generazione di giovani compositori che ovunque
si sentiva a disagio.
Noi avevamo la semplicità, l'energia e la linearità
della musica pop nelle orecchie. L'avevamo ascoltata fin dalla
culla. Ma avevamo anche l'idea, derivata dal nostro apprendistato
classico, che comporre fosse un'attività valorizzata,
che i brani potessero essere ordinati e strutturati, e che scrivere
musica rappresentasse ancora un valore.
Troppo alternativi per l'accademia e troppo strutturati per il
palco dei clubs, non avevamo nessun posto preciso dove andare.
Sapevamo che c'erano altri giovani compositori come noi, e cercavamo
di definirci. Così nel 1987 decidemmo di creare un evento,
una Maratona di 12 ore che presentasse le opere di 28 compositori:
il primo festival annuale Bang on a Can.
Esso ebbe luogo alla Exit Art Gallery di Soho. Per il nostro
programma mettemmo insieme brani che erano davvero forti e che
appartenevano a differenti ideologie o a nessuna ideologia, che
sfidavano la catalogazione, cadevano negli interstizi tra una
definizione e l'altra. La musica di compositori sconosciuti era
presentata accanto a quella di maestri viventi. Non volevamo
essere limitati da alcun confine, e non volevamo che neppure
l'ascoltatore fosse limitato.
Nelle stagioni che seguirono, il festival divenne follemente
popolare, e Bang on a Can si rivolse a palcoscenici più
grandi con concerti al RAPP Arts Center, la Town Hall, La Mama,
The Kitchen e, più recentemente, al Lincoln Center. Superata
l'eccitazione e lo slancio della Maratona, si era formato il
gruppo All-Stars di Bang on a Can, un ensemble di solisti, guerrieri
della nuova musica, che avevano colto lo spirito di Bang on a
Can e l'avrebbero portato nella strada.
Il compositore olandese Louis Andriessen è stato un ispiratore
fin dall'inizio. Quando ascoltammo per la prima volta la sua
musica, nei primi anni Ottanta, essa risuonò a fondo dentro
di noi. I suoni erano belle marcate percosse, nessuna sottigliezza.
Ciò era ribelle e originale, ma anche intellettuale.
Noi sentimmo una reale affinità, sentimmo che musicalmente
venivamo dalla stessa collocazione. Per noi, Louis era l'anello
mancante, un legame col pensiero rigoroso del classicismo europeo,
ma ispirato dai minimalisti americani. Era anche il primo compositore
europeo da noi incontrato che fosse esperto della tradizione
modernista europea ma che riconoscesse che esisteva il rock'n'roll,
che ammettesse con forza l'esistenza dell'America. Ascoltare
l'energica musica di Louis è un'esperienza estremamente
sorprendente.
Egli prese parte al primo concerto Bang on a Can nel 1987, e
ha poi continuato a costituirne la presenza principale negli
anni successivi. Quando lo incontrammo, eravamo affascinati dalla
sua semplicità e generosità e dal suo entusiasmo
per la vita musicale in genere. Louis ama discutere la filosofia
e la visione che stanno dietro la costruzione di un brano musicale.
Egli parla delle giuste "note false", del giusto approccio
alla musica. C'è qualcosa nella sua personalità
che ricorda un richiamo alla battaglia.
Siete con lui o contro di lui? Volete unirvi alla schiera che
combatte per l'autentica originalità e per l'arte oppure
andare dall'altra parte, dove ognuno si trincera dietro vecchie
idee superstiziose? Egli fa sì che la gente si senta parte
di un movimento. Un'intera generazione di compositori è
stata trascinata dal rigoroso radicalismo di Louis Andriessen.
Affinare la ribellione con disciplina è un'idea importante
per il nostro tempo. È il genere di idea che ci piace,
a Bang on a Can.
Michael Gordon, David Lang, Julia Wolfe
[cd Industry, Sony Classical, trad. Paolo Martinaglia]
MICHAEL GORDON
Gordon, compositore newyorkese co-fondatore del festival Bang
on a Can, è nato in Florida ed è cresciuto in una
comunità di europei dell'Est nei pressi di Managua, in
Nicaragua. Ha studiato composizione con Edward Troupin all'università
della Florida e con Martin Brasnick a Yale, dove strinse amicizia
con David Lang e Julia Wolfe. La sua musica è la conseguenza
degli studi di composizione come delle esperienze fatte con gruppi
rock underground di New York.
La prima edizione della Bang on a Can Marathon si svolse in una
galleria d'arte nel 1987, ma si trasformò in un evento
annuale in sedi come il Lincoln Center, la Knitting Factory eThe
Kitchen. Dal 1993 il festival dispone della propria band, la
Bang on a Can All Stars, per cui i tre compositori scrivono gran
parte della loro musica.
Nel 1983 Gordon fondò la Michael Gordon Philharmonic che,
ristrutturatasi nel 1996 come Michael Gordon Band, esegue e incide
la sua musica negli Stati Uniti e in Europa. Qui Gordon ha lavorato
intensamente con l'ensemble londinese Icebreaker, per cui ha
composto Yo Shakespeare e Trance, un pezzo di 52 minuti per 22
elementi e voci campionate.
Van Gogh Video Opera (1991) segna l'inizio della collaborazione
con il video-artist Elliot Caplan a questa nuova forma di teatro
musicale che, dopo la sua prima rappresentazione a New York,
ha incontrato un vivo successo a Vienna nel 1992. La capitale
austriaca ha anche ospitato, nel 1996, la prima di Grand Dairy,
che insieme a Weather (1999), scritta per l'Ensemble Resonanz
di Francoforte dimostra la continuità della collaborazione
con Caplan. Sempre per il teatro Gordon ha realizzato Chaos,
opera di fantascienza su libretto di Matthew Maguire, musiche
di scena per House Arrest di Anna Deavere oltre a pezzi per Ashley
Page e il Royal Ballet.
John Adams ha diretto nel giugno del 1997 l'Ensemble Modern nella
prima esecuzione di Love bead, commissionato a Michael Gordon
dalla BBC Proms, e agli stessi interpreti spetta quest'anno l'esecuzione
di un nuovo lavoro.
Per descrivere la musica di Gordon, che comprende un vasto spettro
di suggestioni che vanno dalla musica indiana a Steve Reich,
dal rock alternativo a John Cage, sono stati evocati da Alex
Ross del "New York Times" "la furia del punk rock,
la brillantezza nervosa del free jazz e l'intransigenza del modernismo
classico".
JULIA WOLFE
È così bello scrivere musica! Come cantare a voce
spiegata, costruire ponti, andare in bicicletta. Comporre è
un'attività che raccoglie tutto ciò che fa parte
della vostra esperienza. Può essere un'attività
dalla puntigliosità assoluta, maniacale, e allo stesso
tempo di un'espansività infinita. Ho cominciato a scrivere
musica da ragazza, folk songs sulla chitarra. Poi, al college,
ho suonato tamburi africani, dulcimer di montagna, ossa, armonica
e flauto. Ho ripreso il pianoforte. Ciò che mi ha trascinato
a scrivere musica è stata la straordinaria commistione,
nell'eseguirla, di fisicità, poesia, idee. Dopo aver scritto
musica per l'Ann Arbor's Wild Swan Theater, che avevo fondato
con tre amici, ho proseguito i miei studi di composizione a Yale
e nel 1987 ho avviato il Bang on a Can festival a New York con
i compositori Michael Gordon e David Lang. Erano le origini di
quella che si sarebbe rivelata un'esplosione fenomenale. Non
avevamo nessuna idea della strada che avrebbe preso in seguito
quell'evento iniziato come un semplice incontrarsi tra amici.
Ci limitavamo a pensare che sarebbe stata una buona scusa per
far colazione insieme tutti i giorni. Bang on a Can è
stato qualcosa in cui ospitare le nostre idee e i nostri sogni.
Nel 1991 venne a suonare al festival il Cassatt String Quartet,
dal momento che un altro quartetto aveva disdetto all'ultimo
momento. Non li conoscevamo. Quando iniziarono a suonare ne fui
meravigliata: sembravano angeli, uniti nei gesti e nel respiro.
Nel 1992 scrissi Four Marys per i Cassatt. Pensavo al loro modo
di suonare, come se fossero un organismo unico. Four Marys riprende
il suono del dulcimer di montagna e lo amplifica: scivolamenti
tonali, toni di nudo lamento, note di bordone, accordi strimpellati
che attraversano il quartetto. Abbiamo passato ore nel loro appartamento,
cercando idee, rielaborando qualcosa, ordinando cibi pronti a
domicilio. È stato l'inizio della nostra amicizia.
Nel 1992 sono andata a vivere per un anno ad Amsterdam. È
una città splendida e un posto ideale per un artista.
L'arte è una componente fondamentale della vita olandese.
Vivere in quell'atmosfera era di un incredibile sollievo. Ho
frequentato molti concerti, mi sono aggregata alla squadra di
tennis da tavolo dei compositori, e ho scritto Arsenal of Democracy.
Questo brano è scritto per l'Orkest de Volharding, una
band di strada che fa musica d'impegno politico, fondata dal
compositore olandese Louis Andriessen e altri. Il gruppo fa musica
chiassosa e dura ed è organizzato secondo principi socialisti:
ciascuno ha eguale diritto di esprimersi, ciascuno si adegua
alla decisione collettiva. Il titolo del mio brano è preso
da una frase coniata da Franklin Roosvelt, che si riferisce al
ruolo degli USA prima del loro ingresso a pieno titolo nella
Seconda Guerra mondiale. In tempi più recenti della storia
degli USA questo "arsenale della democrazia" ha raggiunto
proporzioni assurde e terrificanti. Ho immaginato che l'Orkest
de Volharding sarebbe stata un arsenale di gran lunga migliore,
con trombe e tromboni in prima linea. Sempre durante il mio soggiorno
ad Amsterdam ho iniziato Early that Summer. Stavo leggendo un
libro sulla storia politica degli USA, e l'autore continuava
a introdurre la narrazione di piccoli incidenti con frasi come
"Al principio di quell'estate...". Incidenti che -
come una palla di neve si trasforma in valanga - si sarebbero
alla fine trasformati in grandi eventi e rovinose crisi politiche.
Mi sono resa conto che la musica che stavo scrivendo era esattamente
così, che stavo creando qualcosa che costantemente anticipava
qualcos'altro, un futuro edificio. Early that Summer è
stato scritto per il Lark Quartet. Ho chiesto loro di suonarlo
come suonavano Beethoven. Sono chiari e forti, pieni di fuoco
e aggressività.
Sono molti i musicisti virtuosi a New York cresciuti nella tradizione
della musica classica occidentale che suonano in gruppi come
gamelan balinesi, bande rock, complessi di violini irlandesi,
orchestrine jazz, band brasiliane, gagaku e quant'altro. Immaginate
40 musicisti di questo genere associati a formare un ensemble
e avrete la SPIT Orchestra. Il motto della SPIT [sputo] è
"fuori dei musei e sulla vostra faccia" e questo è
lo spirito che hanno portato in Tell me Everything. Il brano
era originalmente scritto per La Camarata di Mexico City che
la eseguì per la prima volta al Festival Cervantino. Mi
interessava molto il ritmo - renderlo irregolare - facendo sì
che ciascuno suonasse seguendo il proprio tempo, ma che l'insieme
risultasse una specie di samba fuori tempo, come il modo di suonare
di bande di paese gioiosamente pasticcione. Mentre scrivevo questo
pezzo, i ritmi erano tanti che esplosi in una risata, meravigliandomi
di poter davvero scrivere una cosa del genere, che potesse davvero
funzionare. Provai le stesse sensazioni con Steam. Ma questa
volta mi ero abituata a me stessa. Anche qui i ritmi scorrono
incessantemente, ma l'insieme suona come una confusa unificazione.
Ho scritto Steam per tre strumenti costruiti da Harry Partch,
due "canoni armonici" e un bloboy, a cui si aggiungono
flauto amplificato, violoncello e organo elettrico. I membri
della Newband sono particolarmente abili nel suonare gli strumenti
originali di Partch, che possiedono fin dal 1990. La Newband
mi prestò per diverse settimane uno dei "canoni armonici",
grandi cetre tirolesi microtonali. L'accordatura è straordinariamente
bella, con 43 note all'interno di un'ottava. Passai ore a strimpellare,
pizzicare, suonare dei glissando - quando si esegue un glissando
verso il grave si ottiene un suono che ricorda il grido di un
animale selvaggio. Mantenni l'accordatura di Partch per i suoi
strumenti, utilizzando la consueta accordatura temperata per
gli altri. Amavo il suono di questi due universi che scorrevano
stridenti uno contro l'altro, confondendosi in un'armonia di
nuova specie.
[cd Arsenal of Democracy, Point of Music,
trad. Paolo Martinaglia]
DAVID LANG
"Creating, Lying, Stealing"
Un paio di anni fa, cominciai a pensare che quasi sempre i compositori
classici, quando scrivono un brano musicale, tentano di raccontare
agli altri qualcosa di sé di cui vanno orgogliosi o che
semplicemente piace loro: Qui è la melodia fluente: lo
vedi come sono sensibile? Oppure qui c'è l'astratto brano-severo-tutto-calcolo:
lo vedi come sono complicato? Lo vedi che ho davvero una gran
testa? Sono più nobile, più sensibile: come sono
contento!
Il compositore, uomo o donna che sia, crede davvero di essere
esemplare in questo o quel campo. Ciò è interessante,
ma di umiltà ce n'è poca. Così penso: come
andrebbero le cose se i compositori avessero fondato i loro brani
su quel che pensavano fosse sbagliato in loro? Tipo, qui c'è
un pezzo che ti fa vedere quanto sono disgraziato. Ora, qui c'è
un pezzo che vi mostra che razza di bugiardo, che razza d'imbroglione
io sia. Ho cercato di comporre un brano che tratti di qualcosa
di sconveniente.
È un fosso duro da saltare. Devi lavorare contro tutto
quel che hai imparato. Non ti hanno insegnato a trovare il lato
brutto, in musica. Non ti hanno insegnato a essere meschino,
maldestro, subdolo e sornione. In Creating, Lying, Stealing,
sebbene in forma comica, sto cercando di guardare qualcosa di
oscuro. Il brano è costituito da una serie di ripetizioni
imperfette, inattendibili. C'è un millantatore, ma non
è attendibile. In effetti, le istruzioni su come eseguire
lo spartito dicono: "minacciosamente vigliacco".
[cd Creating, Lying, Stealing, Sony Classical, trad. Paolo
Martinaglia]
MICHAEL DAUGHERTY
Metropolis Symphony
Ho iniziato a comporre la Metropolis Symphony nel 1988, ispirato
da un'occasione particolare: la celebrazione a Cleveland del
cinquantenario della comparsa di Superman nei fumetti. Completai
la partitura nel 1993 e la dedicai a David Zinman, che mi aveva
incoraggiato a comporla: ebbe la sua prima esecuzione a Baltimora
nel gennaio 1994.
Il lavoro si ispira alla mitologia americana che avevo scoperto
leggendo avidamente i fumetti durante gli anni Cinquanta e Sessanta.
I movimenti della sinfonia - che possono essere eseguiti anche
separatamente - sono risposte musicali al mito di Superman. Ho
usato un personaggio fantascientifico come metafora compositiva
per creare un mondo musicale indipendente e in grado di allettare
la fantasia.
La sinfonia è un'opera strutturata, per niente programmatica,
che esprime le energie, le ambiguità, i paradossi e lo
spirito della cultura popolare americana. Come Charles Ives,
la cui musica rievoca l'America delle piccole cittadine degli
inizi del nostro secolo, io attingo all'eclettismo del mio background
musicale per riflettere sull'America del tardo Novecento. Grazie
a un'orchestrazione piuttosto complessa, allo sfruttamento dei
timbri e della poliritmia, ho combinato gli idiomi di jazz, rock
e funk con la composizione sinfonica e d'avanguardia.
La Metropolis Symphony è strumentata per due flauti, ottavino,
due oboi, corno inglese, clarinetti in mi bemolle e si bemolle
e clarinetto basso, due fagotti, controfagotto, quattro corni,
quattro trombe in do, due tromboni, trombone basso, tuba, sintetizzatore,
pianoforte, archi, nonché un'ampia gamma di strumenti
a percussione: xilofono, vibrafono, marimba, campanelli (glockenspiel),
crotali, fischietto, cimbalini, piatti, tam-tam, campanaccio,
woodblock, bongos, triangolo, frusta, flexaton, tamburello, campane
da nave, raganella, cassa rullante, tamburo militare, brake drum,
sirena, nacchere, campane tubolari e timpani.
Questi i cinque movimenti.
I. LEX deriva il titolo da uno dei nemici più fastidiosi
di Superman, il superfurfante e capitano d'industria Lex Luthor.
Con l'indicazione "Diabolical" nella partitura, il
movimento contiene un motivo in terzine di infernale rapidità
e in moto perpetuo, suonate da un violino solista virtuoso (che
rappresenterebbe Lex) inseguito da una sezione di strumenti a
percussione, compresi quattro fischietti da arbitro collocati
in quadrifonia sulla ribalta.
II. KRYPTON si riferisce al pianeta alla cui esplosione
è scampato Superman da piccino. La cupa sonorità
microtonale di questo mondo viene creata con una combinazione
di glissandi di archi, tromboni e una sirena. Una coppia di percussionisti
suona le campane da nave in antifona durante tutto il movimento;
da un ricorrente motivo solistico dei violoncelli si passa alle
minacciose urla degli ottoni, crescendo verso l'apocalittica
conclusione.
III. MXYZPTLK prende il nome dal folletto capriccioso
della quinta dimensione che regolarmente crea scompiglio nella
Metropolis. Questo movimento riccamente orchestrato rappresenta
lo scherzo della sinfonia, evidenziando il registro acuto dell'orchestra.
Due flauti solisti, in duello tra loro, sono posizionati stereofonicamente
ai due lati del direttore. Rapide scale ascendenti e discendenti
dei flauti passano echeggiando attraverso l'intera orchestra,
mentre dei pizzicati sulle corde vuote lampeggiano, creando con
la loro coreografia un effetto spaziale.
IV. OH, LOIS! è dedicato a Lois Lane, cronista
del giornale Daily Planet e collega di Clark Kent, alias Superman.
Caratterizzato dall'indicazione "Faster than a speeding
bullet [più rapido di una pallottola in volo]", questo
concerto per orchestra della durata di cinque minuti impiega
il flexaton e la frusta per produrre un vivace contrappunto poliritmico,
alludendo in tal modo a un repertorio fumettistico di disavventure,
urla, dialoghi, boati e disastri; il tutto velocissimo.
V. RED CAPE TANGO [Tango del mantello rosso] conclude
la mia opera basata sulla mitologia di Superman. Ispirato alla
lotta mortale dell'eroe contro Doomsday, il tema principale di
Red Cape Tango è derivato dal Dies irae e viene esposto
inizialmente dal fagotto. Questa "danza della morte"
è concepita come tango e a tratti si presenta in forma
di concertino, consistente in quartetto d'archi, trio di ottoni,
campane tubolari e nacchere. Il ritmo di tango, introdotto dalle
nacchere e più tardi dai cimbalini, viene sottoposto a
una graduale trasformazione timbrica, concludendosi con il drammatico
fragore di piatti, brake drum e timpani. L'orchestra si alterna
tra le sezioni in legato e in staccato, suggerendo una corrida
musicale.
[cd Metropolis, Argo, trad. Paolo Martinaglia]
Icone americane
Le idee musicali mi vengono quando guido lungo un'autostrada
americana deserta. Ci sono libertà di muoversi e spazio
per riflettere. Penso alla mia esperienza come compositore di
musica contemporanea, tastierista di complessi jazz, funk e rock,
percussionista in un gruppo di trombe e tamburi, improvvisatore
sul sintetizzatore per film muti, organista in fiere di paese,
pianista di cocktail bar.
AMERICAN ICONS è una collezione di riflessioni musicali
in America, viste come attraverso il mio specchietto retrovisore.
Attenzione - gli oggetti nello specchio sono più vicini
di quanto appaiano. Dal mio punto di vista, le icone sono affascinanti
perché sono sia vicine sia lontane. Le icone divengono
significative quando seguono variazioni e ambiguità della
nostra percezione della distanza spaziale e temporale. Esse creano
emozione perché sono costantemente in movimento, mai allo
stesso posto; il loro significato varia dando origine a molteplici
punti di vista. Le icone possono essere persone, luoghi, oggetti:
Elvis Priesley, James Cagney, Jackie O., Liberace, la bambola
Barbie, Motown, fenicotteri di plastica rosa che decorano i prati,
code pinnate di Cadillac del '59. Icone del genere hanno per
me un significato personale, e un'ampia rete di riferimenti alla
cultura contemporanea americana.
In quanto compositore, io mi sento ispirato da queste e da altre
icone a immaginare nuove sonorità con tradizionali strumenti
orchestrali. Attingendo a un ampio serbatoio di tradizioni musicali,
ho portato l'eccitazione e l'energia della cultura americana
popolare nelle sale da concerto. Il movimento attraverso lo spazio
è un importante strumento compositivo nella mia musica.
Spesso ho creato effetti stereoscopici collocando strumenti simili
ai lati opposti del palcoscenico. Nelle mie composizioni ho creato
un'intricata struttura drammatica e di memorie, utilizzando una
tavolozza ricca di timbri, di ritmi vivaci e di complessità
contrappuntistica.
Attraverso un uso anticonvenzionale delle icone americane, ho
aperto una porta agli ascoltatori, invitandoli a portare le loro
emozioni e associazioni mentali all'interno dell'esperienza musicale.
DEAD ELVIS Nessun personaggio del rock'n'roll sembra avere ispirato
tante speculazioni, adulazioni e imitazioni come Elvis Presley
(1935-1977). In Dead Elvis, il fagotto solista impersona Elvis
accompagnato da un'orchestra da camera. C'è più
di una coincidenza nel fatto che Dead Elvis abbia lo stesso organico
orchestrale dell'Histoire du soldat di Stravinsky (1918), in
cui un soldato vende il suo violino e la sua anima al diavolo
in cambio di un libro magico.
Io do un nuovo inpulso a questo scenario faustiano: una rockstar
si vende a Hollywood, al Colonel Parker e a Las Vegas in cambio
della ricchezza e della fama. Utilizzo il Dies irae come tema
principale nella mia composizione per porre una domanda: vive
ancora Elvis o giace sotto la pietra tombale di Graceland? In
Dead Elvis ascoltiamo un ostinato rock'n'roll nel basso raddoppiato,
violini e bongos, mentre il fagottista turbina, usa doppi colpi
di lingua e canticchia attraverso le variazioni del Dies irae.
Nel bene o nel male, Elvis è parte di cultura, storia
e mitologia americane. Se volete capire l'America e i suoi enigmi,
presto o tardi dovrete fare i conti con (Dead) Elvis.
SNAP!, per un nutrito complesso da camera, mette in scena due
suonatori di piatti che eseguono un duetto di vari schemi ritmici
in stereo, e cioè separati su lati opposti del palcoscenico.
L'idea di questa configurazione spaziale mi è venuta quando
ho visto James Cagney ballare il tip-tap in un film hollywoodiano
del 1937, Something to Sing About. Sfoggiando un cappello a cilindro
e uno smoking nella scena iniziale del night club, Cagney danza
un tip-tap su e giù per un palco tra due orchestrine jazz:
una a sinistra e l'altra a destra, con la cinepresa che insiste
in una panoramica avanti e indietro.
Ripensando ai miei tempi giovanili, quando imparavo a danzare
il tip-tap, ho composto una danza sincopata e un motivo brioso
per Snap! Questo motivo, presentato dapprima alla tromba, all'inizio
della composizione, passa attraverso varie trasformazioni ritmiche
ed elaborazioni melodiche. Come se la mia cinepresa musicale
effettuasse una panoramica sull'orchestra, avvicendo contrappuntisticamente
due o tre singole linee in diverse combinazioni strumentali per
creare canoni multipli. Snap! è il mio tributo jazzistico
all'età d'oro di Hollywood, e alla spavalderia dell'esibizione
di Cagney.
WHAT'S THAT SPELL? è una cantata pop per due Barbie-soprano
accompagnate da un'orchestra da camera rock'n'roll. I due soprani
recitano in pose diverse per cantare della sorte delle bambole
di plastica americane. Nel primo movimento, l'una riecheggiando
l'altra come in un coro da stadio, le interpreti intonano una
cantilena come se sillabassero il nome del giocattolo femminile
preferito dagli Americani.
Il loro mantra diventa uno scat-song ritmato dallo schioccare
delle dita in "Ballerina", una marcia ritmica in "Drum
Majorette" e un lamento lirico in "Oh Ken". "Oh
Ken, Oh Ken, che posso fare? / Sono di plastica come te. / Mi
piace quando parliamo, / quando tu e io siamo riposti nella scatola.
/ Oh Ken, che possiamo fare? / Tu sai che sono di plastica, come
lo sei tu."
Il movimento finale ritorna all'atmosfera magica del coro da
stadio e al pulsante ritmo rock dell'esordio, e si conclude con
i soprani sospesi nell'incantamento di un re acuto
LE TOMBEAU DE LIBERACE Il pianista e intrattenitore conosciuto
come Liberace è sotto diversi aspetti una delle più
ambigue icone americane che sia dato incontrare. Vestito di spettacolari
pellicce e abiti di strass, Wladziu Valentino Liberace (1919-1987)
era celebre per le sue esecuzioni di polke, melodie di Broadway
e arrangiamenti del repertorio classico per pianoforte accompagnato
da un'orchestra-spettacolo di Las Vegas.
Nel mio tributo a Liberace, io non tratto la musica popolare
come un'intrusione straniera nell'astratto idioma della composizione
classica contemporanea. Partendo da un idioma vernacolare, ho
composto Le Tombeau de Liberace come una meditazione sul sublime
americano: un dizionario di musica proibita. Il primo movimento,
"Rhinestone Kickstep", trasferisce in ritmi di boogie-woogie
la sensazione di camminare impettiti lungo le rutilanti strade
di cemento di Las Vegas. Il secondo movimento, "How Do I
Love Thee", è tratto dal famoso sonetto vittoriano
di Elizabeth Barrett Browning spesso recitato da Liberace durante
le sue esibizioni. In "Sequin Music" gli a solo arpeggiati
del pianoforte sono basati su di una sequenza di note che ho
personalmente rilevato dal muro della celebre piscina a forma
di pianoforte di Liberace. L'effetto della cadenza è dodecafonico:
dopotutto la villa di Liberace a Los Angeles non era così
lontana dai paraggi di Schoenberg. La composizione si conclude
con "Candelabra Rhumba" un tour de force pianistico
che ricrea l'eccitazione di un'orchestra-spettacolo di Las Vegas
che non lascia morire la fiamma del candelabro di Liberace.
MOTOWN METAL per ensemble di ottoni e percussioni si ispira ai
suoni e ritmi della Detroit industriale: città dei clamori
automobilistici e della musica motown anni '60. La composizione
prevede soltanto strumenti costruiti in metallo: quattro corni,
quattro trombe, tre tromboni, tuba, vibrafono, glockenspiel,
triangolo, piatti, gong, incudine, brake drum. È una catena
di montaggio di glissandi ascendenti e discendenti e di rapide
scale cromatiche, spesso affidate ai tromboni. La tuba, il glockenspiel
e l'incudine creano una polifonia funky, mentre le trombe e i
corni suonano accordi staccati in stile big-band. Ho tratto ispirazione
dalla soul music anni '60 e da fanfare militari di trombe e tamburi,
per creare bronzei poliritmi dal vigore industriale.
FLAMINGO deriva il proprio titolo dai familiari fenicotteri di
plastica rosa, che si trovano nei curatissimi giardini davanti
alle case dell'America suburbana. Ricordo di aver notato per
la prima volta questi elementi decorativi in plastica facendo
un viaggio in station wagon con la mia famiglia dallo Iowa alla
Florida, nel 1962. Come entrammo a Miami, l'immagine della Florida
sognata nel Midwest delle praterie si fece reale, e vidi autentici
fenicotteri accanto a quelli di plastica. Il sogno fu momentaneamente
interrotto da un notiziario flash sull'autoradio che annunciava
il suicidio di Marylin Monroe.
Flamingo è una parola che possiede inoltre risonanze legate
alla danza del flamenco, e così utilizzo due percussionisti
che si esibiscono nel percuotere, agitare, far rullare e risuonare
i sonagli del tamburello. Come in Snap!, i percussionisti sono
stereofonicamente separati sul palco, e i loro tamburelli duellanti
producono un contrappunto vivacemente ritmico al motivo centrale
staccato già udito per la prima volta dall'ottavino. Questo
motivo è ripetuto in un ritmo incalzante, che genera canoni
leggermente fuori sincronia con l'orchestra, ed è interrotto
da una sezione lenta che utilizza un singhiozzante fagotto.
[cd American Icons, Argo, trad. Paolo Martinaglia]
Michael Daugherty
si è creato nel
mondo musicale una nicchia particolare componendo musica da concerto
ispirata alla cultura popolare americana contemporanea. La sua
Metropolis Symphony per orchestra (1988-93) e Bizarro per legni
(1993) sono un tributo ai fumetti di Superman e sono stati incisi,
dal direttore David Zinman e dalla Baltimore Symphony Orchestra,
e il Kronos Quartet gli ha commissionato Elvis Everywhere (1993)
per tre imitatori di Elvis Presley e quartetto d'archi, e Sing
Sing: J. Edgar Hoover (1992).
La musica di Daugherty è stata eseguita da importanti
orchestre e gruppi strumentali. Negli Stati Uniti dalla Los Angeles
e dalla New York Philarmonic, dalle orchestre sinfoniche di Atlanta,
Baltimora, Chicago, Cleveland, Detroit, San Francisco, Saint
Louis, all'estero dalla Melbourne Symphony, dalla BBC Symphony,
oltre che dalla Tonhalle-Orchester di Zurigo, dall'Ensembie Intercontemporain,
dalla London Sinfonietta e dal Netherlands Wind Ensemble. L'opera
Jackie O. (1997) è stata eseguita per la prima volta e
registrata dalla Houston Grand Opera.
Nato nel 1954 a Cedar Rapids, nello Iowa, Michael Daugherty è
figlio di un percussionista di dance-band ed è il più
vecchio di cinque fratelli, tutti musicisti di professione. Cresciuto
facendo il tastierista in bande jazz, rock e funk nello Iowa,
ha studiato alla North Texas State University e alla Manhattan
School of Music di New York (1976), lavorando come pianista jazz
e per compagnie di danza moderna, e componendo i suoi primi brani
orchestrali. Dal 1979 ha diviso la propria vita tra l'Europa
e gli Stati Uniti componendo musica per computer all'IRCAM, con
Boulez, ottenendo il dottorato in composizione alla Yale University,
collaborando con il jazzista e arrangiatore Gil Evans a New York
e perfezionandosi con Ligeti ad Amburgo.
Si è esibito al sintetizzatore in concerti in cui accompagnava
classici del cinema muto, ha suonato il pianoforte in salotti
e night club e si è imposto all'attenzione nazionale quando
Snap! e Blue like an Orange (1987) hanno vinto il premio Kennedy
Center Friedheim. Dopo aver insegnato composizione per diversi
anni all'Oberlin Conservatory of Music, Daugherty è divenuto
professore di composizione all'University of Michigan, Ann Arbor,
nel 1991.
JOHN HARBISON
Quando, nel 1976, la Boston Symphony Orchestra eseguì
Diotima, la musica di John Harbison si impose all'attenzione
nazionale. Composizione per grande organico costruita intorno
a una melodia continua, che si sviluppa per un arco di 20 minuti
affidata quasi sempre ai violini, e concepita come riferimento
musicale all'omonima figura letteraria di Hölderlin e Platone,
è emblematica di una costante che percorre tutta la produzione
di Harbison: la ricerca della tensione che esiste tra parola
e suono.
Questa attitudine letteraria, parallelamente a una predilezione
per un lirismo che suggerisce crescenti inquietudini sotterranee,
è riscontrabile con chiarezza nella sua vigorosa, sconvolgente
opera da camera Full Moon in March (1977), basata sulla riduzione
del compositore di una delle ultime commedie in versi di Yeats,
e in Winter's Tale (1974), lavoro allestito nel 1979 dall'Opera
di San Francisco in cui Harbison opera da sé un adattamento
da Shakespeare.
Ma gli ultimi anni Settanta vedono anche il fiorire dell'interesse
di Harbison per il modo in cui solista e orchestra interagiscono,
che si traduce nel Piano concerto (1978) destinato al Kennedy
Center Fredheim Award del 1980 e nel Violin concerto (1978-80),
scritto per Rose Mary Harbison e da lei eseguito. A questo periodo
risalgono anche due opere da camera che sin da allora si sono
collocate stabilmente nel repertorio cameristico contemporaneo,
il Quintet for Winds (1979), ardua sfida per gli esecutori in
termini di controllo di fiato e dinamica, e il Piano Quintet
(1981), in cui talvolta affiorano angosciosamente le difficoltà
vissute in quel periodo dal compositore.
La ricettività di Harbison per le ambiguità dell'argomento
poetico, il suo orecchio attento alle sfumature della lingua,
lo porta negli anni Ottanta a incontrare l'ambigua e allusiva
musicalità dei testi della raccolta Le occasioni di Eugenio
Montale. I venti Mottetti di Montale per mezzosoprano e pianoforte
(1981) sono il prodotto di una sensibilità delicatissima
per il senso delle parole, e fusione totale di suono, ritmo e
immagini che vinsero ogni remora del poeta e convinsero imprevedibilmente
il suo esigente orecchio musicale. La più ridotta versione
per voce e complesso da camera, intitolata Due libri e realizzata
durante un soggiorno sulla costa ligure del compositore - che
sperava di poter introdurre qualcosa del paesaggio stesso nella
strumentazione - mantiene intatta l'intensità emotiva
della distanza che separa chi ama da chi è amato, il dramma
del passaggio dalla profonda intimità allo straziante
isolamento.
Lo stesso sdoppiamento, versione per soprano o mezzosoprano e
pianoforte e trascrizione per voce e complesso da camera, caratterizza
il ritratto musicale di una giovane poetessa e mistica indiana
del XVI secolo di Mirabai Songs (1982), mentre sarebbe probabilmente
intraducibile per altro organico il fitto tessuto polifonico
atonale di Simple Daylight (1988), da sei poesie di Michael Fried.
Il 1987 è segnato dal prestigioso Premio Pulitzer per
la musica che Harbison ottiene con la cantata religiosa per soprano,
baritono, coro e orchestra da camera The Flight into Egypt, dallo
String Quartet No 2, pieno di inquietudini e solarità
barocche, e dai 25 intensissimi minuti della Second Symphony.
Vera rappresentazione della mescolanza e della contrapposizione
di stati d'animo contrari, quest'ultima grande architettura sinfonica
rispecchia musicalmente i mutamenti d'animo di un uomo e il modificarsi
del suo atteggiamento in rapporto ai diversi momenti della giornata.
Il primo movimento, "Dawn", in un tranquillo clima
di attesa molto simile al dormiveglia semi-conscio del primo
mattino, ospita un latente senso d'inquietudine. L'abbagliante
"Daylight" del secondo sfrenato e brutale episodio
si interrompe brusco e dissonante per lasciare spazio alle delicate
figurazioni dei legni che introducono "Dusk", un movimento
che fluisce ininterrotto per terze mentre "distrazioni"
di strani motivi fortemente ritmici vi si intessono intorno.
Paura e minaccia si addensano poi nel tempo finale, "Dark",
di cui la costante cupezza, affidata al corno e alla tromba,
non non è sufficiente a preparare l'allucinata violenza
del climax, e che si risolve verso una consolazione non del tutto
rassicurante.
I rapporti stretti per mezzo di queste opere con istituzioni
prestigiose come la Pittsburg Symphony e la Los Angeles Philharmonic
hanno origine in questi anni, e dietro incoraggiamento di André
Previn, interprete dell'omaggio a Gabrieli, Monteverdi e Janácek
del Concerto for Double Brass Choir and Orchestra (1990), sono
continuati nel tempo. Allo stesso modo la collaborazione con
la Boston Symphony Orchestra e Ozawa ha dato origine al Cello
Concerto (1993), mentre la piana scrittura in triadi perfette
di The Most Often Used Chords (Gli accordi più usati),
ispirato allo schema semplificato della quarta di copertina di
un album pentagrammato italiano, inaugura il sodalizio con la
Los Angeles Chamber Orchestra.
Un sintetico excursus sul catalogo di Harbison non può
trascurare un accenno alle composizioni vocali religiose, realizzate
ora per coro a cappella, come Two Latin Motets, Two Emmanuel
Motets e Concerning Them Which Are Asleep, ora per voci maschili
e pianoforte, come Nunc dimittis, ora per l'originale abbinamento
di lettore e quintetto di ottoni dei Christmas Vespers. Un cenno
a parte merita la solida architettura formale di Samuel Chapter
(1978) per soprano e complesso da camera, tratto dal testo in
prosa dell'Antico Testamento.
L'impegno nella ricerca della verità gli fa concepire
Between Two worlds (1991), un brano per soprano, due pianoforti
e due violoncelli su testi poetici di Robert Bly e meditazioni
di Jacob Boheme; mentre il soggetto, la natura fondamentalmente
buona dell'uomo e per contro la sua manifesta barbarie, e gli
echi delle canzoni di protesta potrebbero far pensare a una proiezione
negli anni Sessanta, le sonorità graffianti e il razionale
controllo delle strutture ci trasmettono una pessimistica consapevolezza
di fine millennio.
Harbison ha evocato le aspirazioni irraggiungibili dell'Età
del Jazz in Remembering Gatsby: Foxtrot for Orchestra e ha scritto
per i giovani della Music School di Rivers in Weston, dando vita
al mottetto O magnum mysterium e alla passacaglia per archi I
II III IV V: Fantasia on a Ground. Di volta in volta si è
rivolto al passato e al futuro proponendo per voci e strumenti
i molteplici aspetti della sua personalissima espressione musicale,
che attira l'attenzione dell'orecchio e sfida l'intelligenza;
una musica antica e recente che non cessa di parlarci a proposito
di qualcosa.
John Harbison è
nato ad Orange, nel New Jersey, il 20 dicembre 1938 ed è
cresciuto tra gli stimoli letterari e culturali di Princeton,
dove mosso i suoi primi passi come pianista jazz. Negli anni
di formazione ha beneficiato dei consigli di Roger Sessions e,
da Harvard a Berlino, degli insegnamenti di Walter Piston, Boris
Blacher ed Earl Kim, e inoltre ha incontrato l'interprete che
ha ispirato la maggior parte delle sue opere per violino, sua
moglie Rose Mary Pedersen. Apprezzato direttore di musica vocale
e strumentale di Schütz, Bach e Händel, Dallapiccola
e Schoenberg, compositore residente del Festival of Contemporary
Music di Tanglewood, dal 1969 insegna al Massachusetts Institute
of Technology di Boston, città dove vive e dove anima
le attività musicali dell'Emmanuel Church. Harbison lavora
come compositore perlopiù durante i mesi estivi, nella
solitudine di una fattoria del Wisconsin.
CHARLES EDWARD
IVES
Quarta sinfonia: istruzioni per l'uso
[Inserire Ives, nato nel 1874, tra queste nuove "voci americane"
potrebbe sembrare strano, ma d'altra parte un omaggio a questo
"patriarca" della giovane musica statunitense non si
poteva proprio trascurare.]
Come sempre in Ives, dentro la mezz'ora più magmatica
della musica del Novecento c'è tutta l'America. Inni quaccheri,
cornette di cavalleggeri, brass band di paese, marcette da clown,
pianole scordate da café chantant in Central Park, fuguing
tunes bacchettoni usciti dall'american gothic d'una chiesetta
del Vermont. Il problema di questa roba è riconoscerla,
perché Ives ce le fa ascoltare tutta insieme: frammenti
e conati di centinaia di linee melodiche diverse, sovrapposte
e indipendenti, che affiorano dai marosi e dalle sorde risacche
del rumore e ne vengono subito risucchiati per affondare nel
nulla.
Qui c'è un'orchestra dove ciascuno sembra suonare per
conto proprio, incurante degli altri e occupato solo a seguire
il filo d'una propria parte persa in un bailamme sperimentale
di cluster, politonalità e quarti di tono. Attenti. L'anarchia
è solo apparente. Le parti sono tutte scritte per esteso,
con una complessità ritmica e tecnica diabolica. Due direttori
sono chiamati contemporaneamente a guidare altrettanti gruppi
orchestrali, che si scompongono e ricompongono pagina per pagina
e procedono a velocità metronomiche differenti e fissate
con minuzia. Anche l'organico è senza precedenti: un'orchestra
di due ottavini, tre flauti, due oboi, tre clarinetti, tre fagotti,
se si vuole tre saxofoni, quattro corni, due cornette, sei trombe,
tre tromboni, tuba, un pianoforte a quattro mani, un piano solista,
celesta, organo, un "theremin" elettronico ad libitum,
una vasta sezione di percussioni, archi e nel finale un coro
a quattro voci usato come semplice vocalizzo. In più,
nel primo movimento, un coro in lontananza accompagnato da quattro
violini con sordina, viola sola e arpa, e nell'ultimo un'"unità
percussiva", come la chiama Ives, con tamburo, piccoli timpani,
piatti, tamburo basso e gong.
Che ci affascini, che ci lasci attoniti o sconcertati, la complessità
della futuribile Sinfonia scritta dal contitolare della Ives
& Myrick Insurance Company ci fa perdere di vista il suo
aspetto più familiare. Anche questo tritatutto sonoro
dopotutto è una narrazione: musica referenziale, descrittiva,
che rinvia a un programma metafisico imbevuto del trascendentalismo
filosofico di Ralph Waldo Emerson, Henry D. Thoreau e della "poetica
dell'interrogazione" del selvaggio Walt Whitman. Gli stessi
autori che ispirano il "codice etico per giovani agenti
d'assicurazione", che Ives consegna a un suo manualetto
del 1912. Insomma, è musica a programma non così
lontana dai caserecci Pini di Roma.
La Sinfonia nasce dal montaggio di quattro pannelli concepiti
in momenti diversi e imbastiti a loro volta di materiali sonori
remoti. Il primo movimento nasce nel 1910-11 e ricicla il terzo
tempo della Prima sonata per violino e pianoforte (1903-1908),
che già citava senza parole la melodia dell'inno Bethany
("Watchman, Tell Us of the Night"). Imperturbabile
e irraggiungibile, qui l'inno è librato da un "coro
in distanza," a simboleggiare la quiete divina, cui anelano
invano come in The Unanswered Question le "assillanti domande
[dell'uomo] sul 'che cosa' e sul 'perché'" dell'esistenza,
rappresentate dal drammatico e inquieto vagare del pianoforte.
Il secondo movimento all'inizio indugia, fa melina. Poi monta
ed esplode come un'eruzione. Ives ci lavora fra il 1911 e il
1916. Gli dà per titolo Comedy: la commedia umana, ovviamente,
in cui "un'eccitante, comoda e mondana carriera nella vita
pratica è messa a confronto con le prove dei Padri Pellegrini
nel loro viaggio attraverso le paludi e il deserto". È
il Grande Circo Barnum dell'America contemporanea, dove la spiritualità
dei primi pionieri naufraga miseramente nella corsa al dollaro
e alla carriera. Percepiamo un'accumulazione assordante di frammenti,
un frastornante sovrapporsi di citazioni che sta a rappresentare
proprio la giungla di vetro e acciaio delle tentazioni metropolitane.
Impossibile elencarle tutte. Musichette scipite da tea room,
falsi spiritual di Stephen Foster come Massa's in de Cold Ground,
un ragtime tolto dalla Sonata "Concord", lo Yankee
Doodle, temi popolari come Marching Though Georgia o Turkey in
the Straw, la Country Band March, brandelli dell'ouverture "1776"
per piccola orchestra (1903).
Un caos che in pochi secondi si spegne nel silenzio, lasciandoci
risvegliare interdetti fra le scolastiche e disarmanti progressioni
di una fuga in piena regola. Siamo nell'Andante moderato (1909-11):
la melodia è l'inno dell'Esercito della Salvezza From
Greenland's icy mountains, che Ives arrangia per organo nel 1897
e l'anno dopo ricicla nel Primo quartetto per archi insieme a
un Preludio, un Offertorio e un Postludio scritti per uno dei
tanti servizi nella Center Church della Yale University, dove
è studente e organista. Se Comedy è il caos dell'America
che corre, questo è il ringraziamento del bravo yankee
seduto con tutta la famiglia davanti al tacchino farcito: il
formalismo vacuo e ipocrita con cui l'americano medio si autoassolve
dai propri peccati di materialismo egoista.
Tesi, antitesi, sintesi. Con il suo tappeto ostinato di percussioni
e il riaffiorare qua e là di citazioni di inni (ancora
Bethany, Proprior Deo, Westminster Chimes) e della Memorial Slow
March per organo (1901), il quarto movimento esprime il vacillante
tentativo dell'uomo di recuperare quei valori trascendenti sopraffatti
o rimossi nei due movimenti precedenti.
La Quarta Sinfonia è l'ultima grande composizione di Ives,
la summa, il testamento artistico e filosofico. Dopo il 1917
la sua vena creativa si prosciuga, come inghiottita da vene carsiche
che si perdono in un sottosuolo speculativo incapace di trovare
in superficie una convincente forma espressiva. Il primo infarto
nel 1918 fa il resto. Fino alla morte, nel 1954, le composizioni
di Ives si fanno sempre più rare e ridotte perlopiù
a songs per canto e pianoforte. La stessa Sinfonia per vedere
la luce deve aspettare il 26 aprile 1965 e la bacchetta del grande
Leopold Stokowski. Ma appena tre anni dopo, con i suoi fonemi
fatti a pezzettini e le sue citazioni di Mahler e Lévi-Strauss,
arriva la Sinfonia di Luciano Berio. Finalmente i tempi sono
maturi per capire anche il cerebrale, solitario assicuratore
del New England.
Nicola Gallino
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