La Banda Musicale
dell'Aeronautica Militare, venne costituita con decreto ministeriale
il 1° luglio 1937 e fu tenuta a battesimo da Pietro Mascagni,
alla cui presenza venne ef-fettuato il primo concerto. La Banda
è costituita da professionisti diplomati presso i conservatori
italiani che entrano a farne parte per concorso statale e sono
considerati in servizio permanente effettivo. Il repertorio comprende
moltissimi brani di autori che vanno dal '600 ai giorni nostri,
tra i quali ricordiamo Bach, Rossini, Verdi, Bellini, Wagner,
Ger-shwin, Hindemith e Schoenberg. Dal 1937 a oggi, la Banda
ha svolto un'intensa attività compiendo tournée
in tutto il mondo e suonando nei piu importanti teatri, riscuotendo
sempre il favore della critica e del pubblico. Tra gli altri,
vanno ricordati i concerti tenuti a New York, Buenos Aires, San
Paolo e Rio de Janeiro, Chicago, Amburgo, Monaco di Baviera,
allo Sleswig-Holstein Musik Festival, a Lussemburgo, Ankara,
al Ravenna Festi-val, al Roma Europa Festival, al Nuova Consonanza,
al Fe-stivaI Internazionale dei Fiati, al Teatro dell'Opera di
Roma, al San Carlo di Napoli e ancora in Belgio, Francia, Olanda,
Danimarca, Bulgaria e Spagna. Oltre ai concerti la Banda svolge
altri compiti istituzionali come il servizio d'onore al palazzo
del Quirinale in alternanza con le altre bande militari e partecipazioni
alle cerimonie più significative delle Forze Armate. Dal
1992 la Banda è diretta dal tenente colonnello Patrizio
Esposito.
Nato a Roma, Patrizio
Esposito si è diplomato in composi-zione sotto la guida
di Mauro Bortolotti presso il Conservatorio di Santa Cecilia
in Roma. Ha inoltre studiato con Aldo Clementi e si è
specializzato con Franco Donatoni presso l'Accademia di Santa
Cecilia. Per la direzione d'orchestra èstato allievo di
Donato Renzetti, si è diplomato in strumentazione per
Banda e ha compiuto studi di musica elettronica con Walter Branchi.
La consapevolezza della relazione tra i vari linguaggi artistici
e la ricerca in campo estetico lo hanno inoltre portato a intraprendere
gli studi di Filosofia. Nel 1990 inizia una collaborazione col
Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell'Univesità
La Sapienza, realiz-zando l'opera multimediale Sguardi. E' presente
con le sue opere nei maggiori festival di musica contemporanea
in Italia e ha ricevuto commissioni dai festival di Zurigo, Parigi-Versailles,
Stoccolma, Madrid e Roma Europa, dal Festival Mondiale del Sassofono
e dall'Interna zionale dei Fiati, oltre che da Istituzione Sinfonica
Abbruzzese, Festival di Cuba, Nuova Consonanza, Istituto Italiano
Culturale di Lussemburgo e Sleshwig Holstein Musik Festival ecc.
Nel 1994 realizza l'opera multimediale Il Sogno, l'anno seguente
Il Luogo Armonico; entrambe le opere sono state rea lizzate ed
eseguite nell'ambito del "Progetto Musica" all'Ac quario
Romano. Nel 1996 ha curato la direzione artistica della prima
edizione del festival per strumenti a fiato "Il Carro di
Eolo" che si è tenuto ad Assisi. Nel 1997 ha realizzato
la suite scenica MA su testi di Carlo Bordini su commissione
del Festival di Bomarzo. Ha pub blicato con Edipan e Agenda,
le sue opere sono state trasmesse da emittenti radiofoniche nazionali
ed estere. Affianca da sempre all'attività di compositore
quella di direttore, con particolare attenzione al repertorio
per strumenti a fiato. Da 1986 dirige il New Winds Ensemble,
del quale è anche fondatore, e dal 1992 è Maestro
Direttore della Banda dell'Aeronautica Militare.
IL PROGRAMMA
Charles Edward Ives
(1874-1954)
Variations on a National Hymn, America
Paul-Abraham Dukas
(1865-1935)
L'apprenti sorcier. Scherzo
Daprs une ballade de Goethe
Patrizio Esposito
(1960)
Musica per strumenti a fiato e percussioni
Petr Il'c Cajkovskij
(1840-1893)
Capriccio Italiano, op. 45
George Gershwin
(1898-1937)
An American in Paris
Charles Edward
Ives
(1864-1954)
Variations on a National Hymn, "America"
Ci sono musiche così pirotecniche, così patriottiche,
così "stars-and-stripes" che è difficile
immaginarle per qualcos'altro che una grande banda americana.
Di quelle con le gigantesche campane dei sousaphones levate nell'aria
come orecchie d'elefanti d'ottone. Per esempio le Variations
on a National Hymn, "America" di Charles Ives. E invece
anche questa è una trascrizione. L'originale è
addirittura per organo. Niente di strano: nel campestre e bacchettone
New England fin de siècle, l'amor di patria è una
religione al pari dei salmi, delle torte di mele e del club Delta
Kappa Epsilon dell'università di Yale.
Il giovane Charles scrive le Variations a soli diciassette anni,
nel 1891, in mezzo a una quantità di marce e pezzi corali
per i services e i church meetings liturgici alla Centre Church
di Danbury, la cittadina natale persa nelle verdi campagne del
Connecticut dove è organista. In quel triangolo verde
all'estremo Nordest, l'orizzonte musicale è punteggiato
dalla melassa di vecchi inni puritani, dalle canzonette sentimentali
di Stephen Foster, dalle bande di paese con i loro virtuosi di
cornetta, dai primi ragtime, dagli spettacoli dei minstrels dipinti
di nero che scimmiottano persino l'opera. In più Charles
cresce nel cono luminoso del padre, singolare personaggio che
sperimenta con l'ingenuità senza rete tipica dell'artigiano
tecniche rivoluzionarie come l'uso di più tonalità
simultanee, la divisione delle scale in quarti di tono, la distribuzione
di diversi gruppi sonori nello spazio. Pensate al tormento delle
pie signore e dei probi parrocchiani della cantoria finiti nelle
mani del terribile Charles, che li tormenta con le scale a toni
interi del suo Psalm 54, con la serie dodecafonica (trent'anni
prima di Schönberg!) dello Psalm 25 o con i cluster di note
e gli effetti stereofonici degli Psalms 90, 100 e 150. I primi
esempi di politonalità in Ives sono proprio qui nelle
Variations: i brevi interludi aggiunti nel 1894 fra la seconda
e la terza variazione, fra la quarta e la quinta e nell'Allegretto
finale. Per la prima volta si passa da una tonalità all'altra
sovrapponendole come in una dissolvenza incrociata al cinema.
All'università di Yale Charles approda nello stesso 1894.
Va a lezione da un maestro fin troppo serio: Horatio Parker.
Un professore da Attimo fuggente, un epigono di Brahms che ha
sciacquato i suoi panni in Danubio. La Fuga in quattro tonalità
sul tema dell'inno dell'Esercito della Salvezza, che Charles
gli sottopone orgoglioso, la prende per nulla più che
un simpatico scherzo. Risultato: quando nel 1898 esce da Yale,
Charles capisce che quel modo di far musica non potrà
mai essere la sua professione. Trova lavoro alla Mutual Life
Insurance Company, ramo assicurazioni. Nel 1907 si mette in proprio
e fonda la Ives & Myrick Insurance Company, dalla quale si
pensionerà dopo qualche infarto nel 1930. Tutte le sue
composizioni più celebri e sperimentali, dalla speculativa
sonata Concord, Mass, alle quattro Sinfonie, dalla congesta ouverture
Robert Browning alle centinaia di songs per canto e pianoforte
le scriverà così, nel tempo libero. Un genio per
hobby.
Paul-Abraham Dukas
(1865-1935)
Errore. Il segnalibro non è definito.L'apprenti sorcier.
Scherzo. D'après une ballade de Goethe
Poche storie. Dal 1940 L'apprendista stregone vuol dire Topolino
con la bacchetta magica, il cappello a cono e il camicione a
stelle. Potenza del genio disneyano, che con Fantasia inventa
il primo videoclip della storia e si attira le pallottole della
critica codina ("Un film in cui l'immagine è al servizio
della colonna sonora, e non viceversa"). Ma potenza anche
del fiuto di Leopold Stokowski con la sua Philadelphia Orchestra,
che fra i balzelloni di questo sabba grottesco intuisce la magia
della fiaba a colori. Così, se oggi pensiamo a Paul Dukas,
lo iscriviamo a quella categoria di autori famosi solo per una
composizione - come il Sinding del Mormorio di primavera o l'Addinsell
del Concerto di Varsavia - e magari immaginiamo con malinconia
un catalogo sterminato, pregevole ma dimenticato. E invece no.
Pochi compositori sono altrettanto poco prolifici di Dukas. Il
problema è il suo eccesso di autocritica. Nei quarant'anni
in cui la Francia migra dal turgore wagneriano e dall'accademismo
di Saint-Saèns ai nitidi enigmi dell'ultimo Debussy, Dukas
scrive e distrugge pacchi di musica. È un continuo rovello
estetico, una cronica sfiducia nelle proprie capacità
espressive. Salva appena una dozzina di lavori, fra cui l'opera
Ariane et Barbe-Bleue tratta da Maurice Maeterlinck (1907) e
il poema coreografico La Péri (1912).
E l'Apprenti Sorcier, naturalmente. Un pezzo riuscitissimo: il
trionfo della prima da lui diretta il 18 maggio 1897 alla Société
Nationale porta alle stelle un trentaduenne ancora sconosciuto.
Sono anni in cui tutti i grandi nomi d'oltralpe si lasciano sedurre
dalla facile sirena della musica a programma: lo stesso Saint-Saèns,
Henri Duparc, Vincent D'Indy, César Franck. Come ogni
poema sinfonico, anche questo scherzo dietro le note ha un cartone
letterario: l'omonima ballata di Wolfgang Goethe. Lasciato solo,
un maldestro maghetto vuole comandare alla scopa fatata, ma dimentica
la parola magica. Tenta di mettere fuori combattimento il diabolico
arnese spaccandolo con l'ascia, ma i due tronconi si animano
mentre l'antro viene inondato dal blob fumante che trabocca dai
calderoni. In questo brano misterioso e sulfureo, sarcastico
e scatenato, Dukas raggiunge un soprannaturale punto d'equilibrio
fra capacità costruttiva e fantasia nel colore strumentale.
Patrizio Esposito
(1960)
Errore. Il segnalibro non è definito.Musica per strumenti
a fiato e percussioni
In Italia, oggi, le grandi bande militari come quella dell'Aeronautica
sono fra le poche a potersi permettere il lusso di proporre in
trascrizioni scintillanti anche il repertorio sinfonico più
impegnativo e di presentare nuovi brani dal respiro che vada
al di là del pot pourri di temi classici, sudamericani
o di musiche da film. È il caso di Musica per strumenti
a fiato e percussioni di Patrizio Esposito: l'unico brano del
programma odierno scritto apposta per banda.
Il problema è che - salvo pochi esempi, come Accordo per
quattro gruppi di bande che Luciano Berio scrisse nel 1980 per
la Marcia della Pace di Assisi - nel nostro dopoguerra la composizione
per banda resta sostanzialmente un sotto-genere specializzato
e coltivato soprattutto dagli stessi maestri. Le superciliosissime
avanguardie nostrane hanno infatti snobbato un organico reputato
troppo popular e dai mezzi tecnici insufficienti a esprimere
un pensiero, il loro, in fuga come un velocista dopato. Niente
di più sbagliato, naturalmente. Per esempio, Esposito
si è formato e perfezionato con nomi seri al di sopra
di ogni sospetto, come Aldo Clementi, Mauro Bortolotti e Franco
Donatoni. E alla composizione per banda affianca quella per organici
cameristici e sinfonici con incursioni nella multimedialità.
Quando si scrive un'opera - dice lo stesso Esposito - non si
può prescindere dal materiale scelto per la sua realizzazione.
La materia, purché risponda, va assecondata, in alcuni
casi addirittura è la materia stessa a suggerirci l'opera.
Sembra questo un concetto più vicino alla scultura che
alla musica, ma dovendo scrivere per fiati e percussioni è
evidente che si adotterà una scrittura diversa da quella
per archi. Non per questo però è impossibile scrivere
una musica "rarefatta" o "sfumata" con gli
strumenti a fiato. Ebbene, la mia ricerca in questo caso è
stata tesa a mostrare come questi strumenti possano esprimere
"sentimenti" così diversi da meravigliarci.
Per i compositori di fine millennio continuare a ignorare quel
formidabile mezzo di riproduzione sonora, di istruzione musicale
diffusa e di spirito aggregativo che è la banda, significa
scartare a priori la possibilità di parlare e avvicinare
pubblici nuovi e più ampi. Perché - non dimentichiamo
- quella del pubblico d'élite e ridotto ai minimi termini
è stata proprio una delle afasie in cui, appena qualche
anno fa, si sono insabbiati i voli di troppe avanguardie.
Petr Il'c Cajkovskij
(1840-1893)
Capriccio Italiano, op. 45
Avete mai notato che le musiche più "tipicamente
italiane" dell'Ottocento le scrivono i francesi, i tedeschi,
i russi? D'accordo, è un'Italia tutta pizza-amore-mandolini,
popolata da straccioni affamati ma baciati dal sole e quindi
sempre dietro a cantare. Però non siamo ingrati. Mentre
da noi (a parte sparutissimi e sopravvalutati cenacoli) si continuava
a correre dietro ai capricci del soprano o del tenore e l'interesse
verista per la musica popolare era ancora di là da venire,
il colore delle nostre musiche popolari si posava per la prima
volta sui pentagrammi solo grazie a compositori stranieri che
si portavano nei bauli la cultura romantica dell'ethnos e la
tradizione sinfonica europea.
Armati di fogli e carboncini, studenti, pittori e viaggiatori
del "grand tour" schizzavano dal vivo le rovine dei
Fori e le pecore dell'Agro pontino, i profeti di Michelangelo
e il costume delle contadine ciociare. E allo stesso modo Mendelssohn,
Liszt, Glinka, Berlioz, Bizet e Cajkovskij fissavano l'aria profumata,
la luce del Mediterraneo, la bellezza classica del paesaggio
e dei monumenti in un'accorata nenia di marinai, una tarantella
sfrenata, una serenata melanconica e galante. Con loro, l'Italia-cartolina
del viaggiatore non si ferma più solo fra le righe o sulla
tela, ma cattura un universo sonoro remoto eppure ancora del
tutto vergine.
Il notissimo Capriccio Italiano di Cajkovskij appartiene a questa
categoria. Completato il 27 maggio 1880 e diretto a Mosca il
18 dicembre 1880 da Nikolaj Rubinstein, ha come modello la Seconda
Ouverture Spagnola che Mikhail Glinka scrive durante il soggiorno
iberico dal 1845 al '47: la suggestiva ricreazione interiore
d'un paesaggio del Sud attraverso l'abile e libera aggregazione
di temi popolari. Da Roma, nella lettera del 16 gennaio 1880
Cajkovskij annuncia entusiasta all'amico Sergej Tane'ev: "Ieri
ho ascoltato una deliziosa canzone popolare che sicuramente impiegherò".
Pochi giorni e il progetto si fa più chiaro: non nascerà
una suite, ma un capriccio imbastito di melodie popolari italiane,
un po' prese da antologie, un po' carpite a volo dalle mille
anonime voci delle strade capitoline.
Pura street music è ad esempio la fanfara d'apertura,
che Petr Il'ic sentiva levarsi ogni mattina dalle caserme presso
l'albergo. Seguono quattro temi popolari cuciti insieme a mo'
di piccola suite: melodie sempre in rilievo, affidate anche nell'originale
ai timbri taglienti e plebei degli ottoni acuti, fra cui una
coppia di cornette a pistoni che sa di banda di paese lontano
chilometri. E proprio come una suite di danze, il Capriccio si
chiude con la sfrenata tarantella Ciccuzza. L'idioma è
quello tipico popolare-colto dell'Ottocento: armonie di sesta
napoletana, frequenti alternanze di modo minore e maggiore, costruzione
a blocchi che arieggia all'andamento strofico da canzonetta.
Insomma, l'Italia sta al Capriccio come la maestà ineffabile
del Cupolone a una pagina di quel Baedeker che anche Cajkovskij,
ovviamente, teneva in mano nelle sue passeggiatine sul Pincio.
George Gershwin
(1898-1937)
Errore. Il segnalibro non è definito.An American in Paris
Se la coppia Disney-Stokowski riconsegna al cartoon le suggestioni
letterarie imprigionate in partitura da Dukas, nel film An American
in Paris del 1951 Vincente Minnelli fa più o meno lo stesso.
Inventa immagini in movimento sulle canzoni più famose
e sul brano omonimo che George Gershwin aveva pensato ventitré
anni prima, nel 1928. Il prodigio di An American in Paris è
qui. Una partitura zampillante che, con i suoi clacson e i suoi
trafficati boulevards, impressiona le sensazioni direttamente
sulla pellicola della mente.
Per questo An American è un poema sinfonico atipico. Non
ha un "programma" letterario, una storia da seguire
in musica passo dopo passo, ma ha una musica talmente capace
di evocare storie che bastano un regista fantasioso, un Gene
Kelly e una Leslie Caron in stato di grazia per portarsi a casa
sei Oscar. È una forza di cui Gershwin si rende conto,
nel momento in cui fa appello a illustri precedenti d'avanguardia
per dare una legittimazione estetica ai rumori della turbinante
real life parigina che irrompono fra le note. Lo fa nel suo scritto
più noto, Il compositore nell'era della macchina, del
1930:
L'Era della Macchina ha praticamente influenzato tutto. [...]
Nel mio American in Paris ho usato quattro trombe di taxi per
creare un effetto musicale. George Antheil ha usato di tutto,
compresi eliche di aeroplani, campanelli, tasti di macchine per
scrivere, e così via. Possiamo inoltre usare i vecchi
strumenti per ottenere effetti moderni. Prendete una composizione
come Pacific 231 di Honegger scritta per una locomotiva a vapore
e ad essa dedicata. La musica riproduce completamente l'effetto
di un treno che si ferma e riparte, eppure impiega soltanto strumenti
tradizionali.
È una giustificazione posticcia e ingenua. Quello di Gershwin
è un impressionismo metropolitano che nulla ha in comune
con le sirene metafisiche di Ameriques di Edgar Varèse,
con il bric-à-brac dadaista di eliche e motori in Parade
di Eric Satie o il costruttivismo industriale anni Venti dei
sovietici Aleksandr Mosolov o Aleksandr Davidenko, che portano
in orchestra magli, presse e lastre d'acciaio. An American in
Paris è una storia evanescente come un'anisette, una visione
che sembra uscita dalla penna di Francis Scott Fitzgerald o Ernest
Hemingway:
È mia intenzione ritrarre le impressioni di un visitatore
americano a Parigi, come cammina attraverso la città,
ascolta i vari rumori della strada, e assorbe l'atmosfera francese.
L'allegra sezione iniziale è seguita da un blues molto
intenso con un forte sottofondo ritmico. Il nostro amico americano,
forse dopo essere entrato in un caffè e aver bevuto un
po', improvvisamente soccombe alle fitte della nostalgia di casa.
Ora l'armonia è al tempo stesso più ricca e più
semplice che nelle pagine precedenti e il blues raggiunge il
suo punto culminante; segue quindi una coda in cui lo spirito
della musica ritorna alla vivacità e alla traboccante
esuberanza della parte iniziale con le sue impressioni di Parigi.
Apparentemente l'Americano malato di nostalgia, uscito dal caffè
per raggiungere l'aria aperta, ha cancellato la sua parentesi
di tristezza e una volta ancora si mette ad osservare attentamente
lo spettacolo della vita parigina. Alla fine i rumori della strada
e l'atmosfera francese trionfano su tutto.
Gershwin non è Duchamp o Man Ray. Non fa collages di objects
trouvés sonori. Se un clacson strombazza nella sua orchestra,
è un'incursione del quotidiano nell'ordinato mondo dell'immaginario
artistico fatto per materializzare la poetica frenesia d'una
metropoli. Gershwin è infatti il primo che compone non
con la penna, ma con la macchina da presa. In Porgy and Bess
ogni scena è un carrello, un controcampo, un piano sequenza.
Per la prima volta occhio e orecchio si spostano con i tempi
di un montaggio d'autore, e la drammaturgia da empirismo teatrale
si fa cultura dell'immagine. Ecco perché An American in
Paris è cinema immaginario. Noi lo possiamo anche ascoltare
anche a occhi chiusi, sempre che siamo disposti a perderci lo
spettacolo dei barriti lucenti dei sousaphones.
Nicola Gallino
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