Sainkho Namtchylak, voce
Ghera Popov, strumenti tradizionali tuvani, voce
Maxim Chapochnikov, campionatore
Paolino Dalla Porta, contrabbasso
Caspar Sacker, chitarra
Sainkho Namtchylak
è una cantante straordinaria che proviene dalla repubblica
di Tuva. Nata in un piccolo villaggio della Siberia meridionale,
vicino al confine della Mongolia, Sainkho ha studiato musica
presso l'Università della sua regione e si è recata
a Mosca per completare gli studi. Ha anche studiato varie tradizioni
siberiane lamaiste e sciamaniche, così come gli stili
autoctoni di canto gutturale bifonico di Tuva e della Mongolia.
Successivamente ha iniziato la carriera professionale come cantante
folk con "Sayani", l'ensemble folk di Stato di Tuva,
facendo tournée in Europa, Australia, Nuova Zelanda, Stati
Uniti e Canada. È stata membro chiave del complesso "Tri-O"
e suscitò l'attenzione della stampa occidentale a causa
del suo aspetto così esotico. Improvvisamente il pubblico
ebbe modo di incontrare tonalità strane, canzoni a due
voci, melodie bifoniche fuse con il jazz, musica contemporanea
e suoni d'ambiente in un contesto transglobale. "È
il momento ed è la musica: le categorie non sono necessarie".
Questa è una delle ferme convinzioni di Sainkho. Sente
le potenti radici delle tradizioni di Tuva e usa l'improvvisazione
per esprimerle e renderle più intense.
Ascoltare il khoomii
per la prima volta è come scoprire che esiste un "altro
mondo", tanto all'orecchio suona inaudita quella modulazione
di voce. Che è una sola ma sembra due, poiché alla
nota fondamentale e prolungata si sovrappongono sopratoniche
e armonici ottenuti con movimenti di lingua, laringe e mandibole.
Una tecnica raffinata nel corso dei secoli dai cantanti mongoli.
Uomini, perlopiù. "Ci vuole la forza di un uomo per
comprimere i polmoni in quel modo, e le donne che ci provano
finiscono per perdere la voce", dice Sainkho Namtchylak.
E spiega così la natura non ortodossa del suo "canto
di gola", conseguenza coerente a un originale approccio
ai canoni della tradizione di appartenenza.
Nata nel 1957 da genitori insegnanti di stirpe nomade a Kyzyl,
minuscolo villaggio minerario situato nel cuore dell'Asia, al
confine tra Siberia e Mongolia, nella Repubblica di Tuva, consacrò
alla musica la propria adolescenza iscrivendosi al conservatorio
locale e perfezionando quindi i propri studi all'università
di Mosca. Affascinata dal folklore tuva, e in particolare dalla
suggestione pristina del canto "bifonico", approfondì
la conoscenza dei ritmi lamaisti e sciamanici, infine debuttando
in voce con Sayana, l'ensemble musicale della Repubblica di Tuva.
Fu ponendo in relazione tecniche e nozioni antiche apprese allora
con l'estro bohèmien dell'avanguardia jazz moscovita che
Sainkho Namtchylak foggiò il proprio profilo artistico,
alla fine degli anni Ottanta. Cantava in Tri.O, che a dispetto
del nome era un quartetto: sassofono, tuba, fagotto e la sua
voce. Così esotica e "ultraterrena", quest'ultima,
da conquistare di slancio le platee occidentali, a cominciare
da quella del Muenster Festival del 1990.
È da allora che la vita è cambiata per lei, avendo
come nuovi epicentri Vienna, Berlino e Amsterdam, ossia le città
dove - di volta in volta - più facilmente i suoi progetti
possono giungere a compimento. In tutti questi anni ha pubblicato
una pletora di dischi, primo della serie a suo nome Out of Tuva
del '93, sovente a fianco di alcune delle intelligenze più
irrequiete della "free music" europea, da Evan Parker
(Mars song) a Peter Kowald (When the sun is out you don't see
the stars).
Ultimo in ordine di apparizione: Naked spirit, animato dalla
presenza del musicista armeno Djivan Gasparian - una "scoperta"
di Brian Eno - e pubblicato nell'estate del 1998 dall'etichetta
toscana Amiata Records.
Ed è appunto il repertorio incluso in quel disco a informare
l'omonimo spettacolo che Sainkho Namtchylak presenta a Settembre
Musica, nell'occasione accompagnata da Ghera Popov, suonatore
di igil, scacciapensieri e violino piccolo. "Spirito nudo"
perché - dice la protagonista - "nuda sono nata e
nuda morirò". E aggiunge: "La vita è
un grande viaggio attraverso l'illusione e ogni momento di quel
viaggio è intensissimo: c'è gente che ci gioca
e cerca di imparare a vincere, mentre altri ci passano attraverso
e basta. Tutto ciò che io posso trarre da questa grande
illusione chiamata Vita è il mio Spirito". Una vocazione
ascetica mutuata evidentemente dall'habitat originario, a cui
l'artista di Tuva resta legata ombelicalmente: prova ne sia l'abitudine
che ha di invitare a Kyzyl i musicisti con cui le capita di collaborare,
per far conoscere loro luoghi e costumi che hanno segnato la
sua formazione artistica e umana. Individuo in bilico fra oriente
e occidente, passato e presente, tradizione e modernità,
insomma. E ciò si riflette nella musica di cui è
artefice, insieme arcaica e avveniristica.
Ammirata già dal vivo a Torino nell'ottobre 1997, in occasione
del secondo Salone della Musica, Sainkho Namtchylak è
personaggio che calamita l'attenzione, avvincendo l'orecchio
e ipnotizzando lo sguardo. Diafana e minuta come silfide, si
muove con grazia leggera mentre fa compiere alla propria voce
sbalorditive acrobazie tonali, dall'alto al basso e ritorno,
con disarmante disinvoltura. Una Laurie Anderson asiatica, con
"effetti sonori" interni al corpo anziché esterni,
se l'accostamento è lecito. E se anche solo per un istante
ci si volesse sottrarre a quel garbato incantesimo chiudendo
gli occhi, subito si finirebbe per soccombere a un altro genere
di malìa. Alla cieca, quei suoni ineffabili possono richiamare
infatti alla memoria il frinire di un grillo o lo squittire di
un roditore, il gorgheggio di un cardellino come il sordo ruggito
di una leonessa. È dunque musica "ecologica",
quella di Sainkho Namtchylak: sia per le fantasie che evoca,
sia per le modalità di realizzazione. Minimo il corredo
tecnologico: niente più di un microfono e un sistema di
amplificazione. E in "Naked Spirit" gli strumenti di
contorno sono ridotti all'essenziale, semplici guarnizioni intorno
a una voce che ha presenza tale da bastare a sé stessa.
Anche perché, si diceva, non di una voce sola si tratta,
bensì delle infinite voci a cui l'essere umano può
attingere se sceglie di esplorare sé stesso, nel corpo
e nello spirito. Perciò si resta incantati di fronte a
Sainkho Namtchylak: non tanto e non solo per il suo virtuosismo
"tecnico", quanto perché esso altro non è
che il risultato di un'applicazione costante sul significato
profondo del suono. Sulle sue qualità di comunicazione.
In definitiva, sulla sua stessa origine.
Esperienza metafisica, quasi. Molto più o molto meno di
un concerto, a seconda delle opinioni che si hanno a proposito
della musica. E della vita.
Alberto Campo
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