Direzione Partecipazioni Comunali
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Settore Gestione
Societaria 0/C
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CITTÀ DI TORINO
DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA
COMUNALE
3 maggio 2011
Convocata la Giunta presieduta dal Vicesindaco
Tommaso DEALESSANDRI, sono presenti, gli Assessori:
Alessandro
ALTAMURA
Marco BORGIONE
Giuseppe BORGOGNO
Ilda CURTI
Gianguido
PASSONI
Giuseppe SBRIGLIO
Maria Grazia SESTERO
Roberto
TRICARICO
Mario VIANO
Assenti per
giustificati motivi, oltre il Sindaco Sergio CHIAMPARINO, gli Assessori:
Fiorenzo ALFIERI - Giovanni Maria FERRARIS - Marta LEVI - Domenico
MANGONE.
Con l’assistenza del Segretario Generale
Mauro PENASSO.
OGGETTO: DIREZIONE E COORDINAMENTO
DI SOCIETÀ PARTECIPATE DALLA CITTÀ DI TORINO. APPROVAZIONE.
Proposta del Vicesindaco
Dealessandri.
La fattispecie
dell’attività di Direzione e coordinamento nel Cod. Civ: la
responsabilità ex art. 2497
La Riforma societaria attuata con D.Lgs. 6/2003 e s.m.i. ha introdotto la
disciplina relativa alla “Direzione e Coordinamento di
società” agli artt. 2497 – 2497 septies cod.civ.,la cui
fattispecie può essere sintetizzata come segue:
i) soggetti
responsabili individuati in società o enti (è prevista anche la
responsabilità solidale di coloro che abbiano partecipato al fatto lesivo
e coloro che ne abbiano consapevolmente tratto
beneficio);
ii) l’esercizio dell’attività di direzione e
coordinamento;
iii) l’agire nell’interesse imprenditoriale
proprio o altrui;
iv) in violazione dei principi di corretta gestione
societaria e imprenditoriale delle società assoggettate;
v) il
pregiudizio di redditività e di valore della partecipazione sociale
arrecato ai soci delle società assoggettate;
vi) oppure la lesione
cagionata all’integrità del patrimonio delle società
assoggettate risentita dai creditori di queste società;
vii) un
risultato dell’attività di direzione che comporti danno in assenza
di vantaggi compensativi il mancato compimento di operazioni dirette ad
eliminare integralmente il danno;
viii) la mancata soddisfazione di soci e
creditori sociali da parte della società assoggettata.
In primo luogo,
è opportuno rilevare che il legislatore ha scelto di non definire il
“gruppo”, il cui termine viene usato invece sia nelle norme penali
societarie (artt. 2621, 2622, 2634, C.C.), sia nella disciplina delle
società cooperative (art. 2545- septies nel testo novellato del C.C.),
né “l’attività di direzione e coordinamento”,
espressione ricorrente nel D.Lgs. n. 385/1993, in materia bancaria e creditizia
e nel D.Lgs. n. 58/1998, in materia di intermediazione finanziaria, oltre che
nell'art. 10 della citata legge delega n. 366/2001 (è invece utilizzata
l'espressione "attività di direzione e controllo" nell'art. 4, c.1 del
D.Lgs. n. 155/2006 “Disciplina dell'impresa sociale”), ma ha
preferito disciplinare quest’ultima sotto il profilo della
responsabilità, introducendo un elemento di novità rispetto agli
schemi comuni della responsabilità, contrattuale o aquiliana, nei
rapporti societari, riferita sempre e comunque a chi è incaricato della
gestione sociale e cioè, in primis, l'amministratore.
Rientra
sotto il profilo della responsabilità contrattuale la fattispecie in cui
l’amministratore risponde verso la società per mala gestio (artt.
2392 e 2393 C.C.) e verso i creditori sociali, dal momento che l'azione degli
amministratori deve essere tale da garantire anche l'integrità del
patrimonio sociale in favore dei creditori (art. 2394 C.C.), mentre si realizza
l’ipotesi della responsabilità aquiliana nella fattispecie relativa
alla responsabilità dell'amministratore verso il singolo socio
direttamente danneggiato dall'atto, colposo o doloso, di esso (art. 2395 C.C.):
in tal caso infatti il socio non ha alcun rapporto con l'amministratore se non
attraverso la società di cui è partecipe.
L’art. 2497
C.C. disciplina, invece, la responsabilità di “società od
enti” che esercitano l'attività di "direzione e coordinamento"
delle società appartenenti al “gruppo”, dove si configurano
più società, operanti sotto la direzione unificata di una
società chiamata capo-gruppo o società “holding” nei
confronti delle altre società del gruppo.
La disciplina in materia di
responsabilità di società od enti ha portato la Dottrina a
rilevare l’esistenza di una insolita responsabilità del socio verso
altri soci ove le società od enti, definiti responsabili, possano anche
essere soci di maggioranza della singola società controllata, concernendo
la fattispecie una responsabilità sui generis e specifica, il cui
fondamento è proprio nel fenomeno del "gruppo" di cui l'attività
esercitata di "direzione e coordinamento" non è che la manifestazione
più evidente. In realtà, anche altre forme di manifestazione del
"gruppo" possono esistere, come l'attività prestata di consolidamento del
bilancio delle società controllate ad opera della capogruppo (art. 2497 -
sexies C.C.), così come l'esistenza di un contratto tra essa e le
società controllate (art. 2497 - septies C.C.). È vero che
trattasi di presunzione iuris tantum e non de iure, ma certo è che anche
gli elementi ivi previsti (consolidamento del bilancio e contratto) finiscono
con l'assumere il valore di circostanze significative ai fini dell'esistenza del
"gruppo".
A tal proposito si rende necessario precisare i casi in cui si
manifesta il fenomeno del gruppo, ossia nei casi in cui si realizzi una
concentrazione di società senza che ciò determini la loro fusione
in termini giuridici comportando, da un lato, la formale separazione delle
persone giuridiche e dei loro patrimoni, e, dall’altro, la formazione di
una volontà omogenea di gruppo di regola coincidente con quella della
holding.
La ratio della disciplina concernente l’attività di
direzione e coordinamento va ricercata nell’esigenza di definire la
responsabilità della società o ente capogruppo ritenendo che possa
sussistere il concreto pericolo che la capogruppo imponga la propria
volontà pregiudicando gli interessi delle altre società del gruppo
in violazione dei “principi di corretta gestione societaria e
imprenditoriale delle società medesime” (art. 2497, comma 1,
C.C.).
Il corpo normativo citato - ravvisando infatti un potenziale conflitto
di interesse tra il c.d. interesse di gruppo (ossia l’interesse della
capogruppo) e l’interesse della società controllata e quindi degli
eventuali soci di minoranza) - risponde, quindi, alla logica di salvaguardare i
soci ed i creditori delle società facenti parte del gruppo da ogni
pregiudizio che possa essere arrecato alla redditività ed al valore della
partecipazione sociale, salvo escludere la responsabilità stessa in
applicazione del c.d. principio di compensazione tra svantaggi derivanti dalla
singola operazione e vantaggi legati dall’appartenenza della
società al gruppo.
In merito all’attività di direzione e
coordinamento di società opera la presunzione relativa di cui
all’art. 2497 sexies nel caso in cui questa sia esercitata a) da
società o ente tenuto al consolidamento dei bilanci oppure b) da
società legate da vincolo di controllo ai sensi dell’art. 2359. In
particolare, le ipotesi disciplinate dall’art. 2359 C.C. sono quelle
relative ai casi in cui sono presenti le seguenti
fattispecie:
a) società in cui un’altra società dispone
della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;
b) società in cui un’altra società dispone di voti
sufficienti ad esercitare un’influenza dominante nell’assemblea
ordinaria;
c) società che sono sotto l’influenza dominante di
un’altra società in virtù di particolari vincoli
contrattuali con essa.
Tuttavia, nonostante la presunzione relativa
dell’art. 2497 sexies, non è possibile determinare
l’esistenza dell’attività di direzione e coordinamento ogni
volta che sussista la fattispecie del controllo, che costituisce solamente uno
degli elementi che possono portare a rivelarne la presenza.
Pertanto,
“direzione e coordinamento” (considerato in dottrina
un’endiadi o un sintagma) e “influenza dominante” non possono
essere considerati sinonimi: in dottrina si è affermato che la c.d.
“direzione unitaria” consiste in un’attività di
indirizzo delle decisioni gestorie dell’impresa che si concretizza in una
nozione molto più ampia della nozione di controllo, coincidente, invece,
con l’esercizio di poteri di nomina degli amministratori, dei poteri
organizzativi e delle scelte di finanziamento dell’impresa.
In ogni
caso fonte di responsabilità non è la direzione unitaria
bensì l’abuso di direzione unitaria che si concretizza
nell’agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in
violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale: la
finalità è quella di tutelare i soci non direttamente coinvolti
nella gestione della società da fatti che violino i corretti principi di
corretta gestione societaria ed imprenditoriale.
Il terzo comma
dell’art 2497 C. C. prevede, altresì, un limite
all’esperimento all’azione risarcitoria nei confronti di chi
esercita l’attività di direzione e coordinamento permettendo tale
azione solamente se il socio o il creditore non siano stati soddisfatti dalla
società soggetta all’attività stessa.
Quindi è
necessaria una sentenza passata in giudicato prima di poter partire
all’attacco del vero responsabile del depauperamento
sociale.
L’art. 2497 bis rubricato “Pubblicità”
assume la finalità di perseguire il c.d. “principio di
trasparenza” richiamato dalla Legge Delega 366/2001.
Ai sensi
dell’art. 2497 bis, commi 1, 2 e 4 l’obbligo di pubblicità
è assolto attraverso:
- l’indicazione negli atti e nella
corrispondenza della società del soggetto che esercita
l’attività di direzione e coordinamento;
- l’iscrizione,
a carico degli amministratori della società soggetta a direzione e
coordinamento, della società o ente che la esercita presso un apposita
sezione del registro delle imprese;
- l’inserimento nella nota
integrativa della società sottoposta all’attività dei dati
essenziali del bilancio della società o ente che esercita
l’attività di direzione e coordinamento.
Infine, il comma 5
dell’art. 2497 bis dispone che nella relazione sulla gestione gli
amministratori devono indicare i rapporti intercorsi con chi esercita
l’attività di direzione e coordinamento e con le altre
società soggette, nonché l’effetto che tale attività
ha avuto sull’esercizio dell’impresa sociale e sui suoi risultati,
mentre il successivo art. 2947 ter impone che le decisioni delle società
soggette ad attività di direzione e coordinamento, quando da questa
influenzate, debbono essere analiticamente motivate e recare puntuale
indicazione delle ragioni.
La pubblicità costituisce uno strumento a
tutela degli interessi dei soci di minoranza e, in generale, di tutti quei
soggetti non direttamente coinvolti nell’amministrazione della
società: il mancato esercizio delle forme di pubblicità non
impedisce comunque agli interessati il diritto all’azione di
responsabilità così come disciplinata dall’art. 2497 C.C.,
ossia ai soci per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore
della partecipazione e/o ai creditori sociali per la lesione cagionata
all’integrità del patrimonio sociale.
Per gli amministratori di
società soggette all’attività di direzione e coordinamento
l’art. 2497 bis terzo comma prospetta un'ulteriore forma di
responsabilità, oltre a quelle previste dagli artt. 2391, 2392, 2393 bis,
2394 e 2395 bis: infatti, gli amministratori di tali società -
qualora omettano l’indicazione negli atti e nella corrispondenza della
società del soggetto che esercita l’attività di direzione e
coordinamento, nonché l’iscrizione presso un’apposita sezione
del registro delle imprese ovvero la mantengono quando la soggezione è
cessata - sono responsabili dei danni che la mancata conoscenza di tali fatti
abbia recato ai soci o ai terzi.
L’art. 2497 quater (la norma ritenuta
comunque inderogabile, pone tuttavia dei problemi di coordinamento con gli artt,
2437 e ss. C. C.) attribuisce il diritto per il socio di società soggetta
ad attività di direzione e coordinamento di recedere - richiamando
l’applicazione, a seconda dei casi ed in quanto compatibili, delle
disposizioni previste per il diritto di recesso del socio nella S.p.A. o nella
s.r.l. - dalla società vedendo in tal modo liquidata la propria
partecipazione nell’ipotesi in cui la società o l’ente che
esercita attività di direzione e coordinamento abbia deliberato
(modificando il livello di rischio dell’investimento):
i) una
trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale (si tratta, in
pratica, delle cosiddette trasformazioni eterogenee di cui agli artt.
2500-septies e octies C. C.);
ii) una modifica del suo oggetto sociale
consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile
e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta
a direzione e coordinamento (anche se in questo caso sorgeranno notevoli
problemi interpretativi e potrebbe essere difficile la possibilità di
prova in merito all’alterazione delle condizioni economiche e patrimoniali
in assenza di un esplicito riferimento normativo);
iii) quando a favore del
socio (intendendosi solo un determinato socio e non genericamente uno tra i soci
di minoranza) sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, condanna di chi
esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art.
2497 (la norma, in tale caso, prevede che il diritto di recesso debba essere
esercitato per l’intera partecipazione escludendo, pertanto, un esercizio
parziale);
iv) all’inizio ed alla cessazione dell’attività
di direzione e coordinamento quando ne deriva un’alterazione delle
condizioni di rischio dell’investimento (salvo che non si tratti di
società quotate o quando sia promossa un’o.p.a.).
La riforma del
diritto societario ha, inoltre, posto una particolare attenzione alle
operazioni di finanziamento infragruppo: viene richiamata in toto
all’interno del capo IX in tema di direzione e coordinamento delle
società l’art. 2467 C. C. operante in materia di s.r.l., prevedendo
che i rimborsi dei finanziamenti effettuati a favore della società da chi
esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti ad
essa sottoposti siano postergati rispetto alla soddisfazione degli altri
creditori e, se avvenuti nell’anno precedente la dichiarazione di
fallimento della società, dovranno essere restituiti.
L’art.
2497 septies prevede l’applicazione della fattispecie
dell’attività di direzione e coordinamento di società, al di
fuori della presunzione juris tantum di cui all’art. 2497 sexies, alle
ipotesi in cui l’attività di direzione e coordinamento di
società sia dovuta sulla base di un contratto con le società
medesime o di clausole di loro statuti, trovando quindi applicazione anche nei
c.d. gruppi paritetici.
In conclusione l’impianto normativo in tema di
direzione e coordinamento ha il merito di introdurre nella nostra legislazione
degli strumenti di tutela, organicamente raccolti nel capo IX, per chi, soci di
minoranza e creditori, ha stretti rapporti con la società ma non
può influire direttamente sulla sua gestione.
In ogni caso è
doveroso ribadire che la disciplina dettata in materia non esaurisce le
fattispecie e le problematiche che nella pratica possono verificarsi e, a causa
della mancanza di definizione chiara dell’attività di direzione e
coordinamento, l’applicazione della disciplina e la conseguente tutela in
essa racchiusa rischia di trovare ostacoli.
Ambito soggettivo di
applicazione nel rapporto tra Ente locale e società a partecipazione
pubblica: natura delle società pubbliche.
L’indeterminatezza
della previsione relativa alla fattispecie dell’attività di
Direzione e Coordinamento si riflette anche sull’ambito soggettivo di
applicazione: si discute, infatti, sulla sua applicabilità nei confronti
delle società pubbliche e nei rapporti con gli enti pubblici che le
controllano.
L’approccio analitico da adottare dovrà
necessariamente tener conto del diritto amministrativo e di quello che è
stato definito da parte della dottrina Diritto Societario Pubblico, data
l’esistenza di «molteplici regole in base alle quali
l’attività delle società “pubbliche” è
disciplinata in maniera tutt’affatto differente da quella svolta dalle
società nella cui compagine sociale si ritrovano soltanto soggetti
privati, in quanto tali disinteressati alle finalità di attuazione degli
interessi della collettività».
Per dare risposta ai dubbi
interpretativi è necessario partire dal dettato normativo evidenziando
che sotto il profilo soggettivo la norma richiama “Le società o gli
enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di
società,...”: il riferimento alla parola “enti”
parrebbe estendere la sua applicazione agli enti pubblici in generale.
Come
già detto precedentemente, gli elementi qualificanti detta
attività sono stati individuati nell’imposizione agli organi
direttivi della società controllata di decisioni provenienti dalla
società dominante, oppure nell’influenza dominante che non si
esaurisce nell’esercizio dei poteri istituzionalmente spettanti al socio
di maggioranza (compresi quelli di scelta di amministratori e sindaci) ma deve
implicare - affinché vi sia direzione unitaria in senso proprio -
l’accentramento, presso gli organi gestori della società
controllante o di società intermedie investite di compiti direttivi, di
funzioni amministrative inerenti alle diverse realtà aggregate.
Per
altro verso, si è ravvisata l’attività di direzione e
coordinamento nell’esercizio, da parte della capogruppo, nei confronti
delle controllate, di un’influenza non soltanto assembleare, ma anche
extra-assembleare di coordinamento amministrativo e finanziario, di controllo
gestionale ed in definitiva di una attività di governo continua e non
saltuaria. Si tratta, dunque, di un’attività volta a coordinare la
politica economica e gli aspetti essenziali della gestione delle società
del gruppo; la stessa potrà riguardare uno o più settori
fondamentali della gestione, quale ad esempio il settore del personale, gli
investimenti, le vendite e così via. Pare, quindi, sussistere
un’attività di direzione in presenza di una serie rilevante di atti
decisionali sistematici imposti da soggetti diversi rispetto
all’organigramma interno.
Tale interpretazione potrebbe portare a
individuare l’attività di Direzione e Coordinamento in capo
all’ente locale soprattutto per ciò che concerne le società
in house, ossia le società a capitale interamente pubblico, che abbiano i
requisiti richiesti dall'ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta
“in house” e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina
comunitaria in materia di “controllo analogo” e di prevalenza
dell'attività svolta dalla stessa con l'ente o gli enti pubblici che la
controllano, secondo la definizione data dal comma 3 dell’art. 23 bis del
D. L. 112/2008 e s.m.i.
Tuttavia, la norma dell’art. 2497 C. C. va
letta alla luce delle peculiarità dell’attività della P.A.
che si caratterizza per il perseguimento dell’interesse pubblico
attraverso la c.d. funzione amministrativa, intesa come attività
giuridica finalizzata, che si estrinseca nell’esercizio di poteri
amministrativi atti a realizzare in concreto i fini pubblici individuati dal
potere politico e precettivamente conferiti alla P.A., la cui organizzazione
burocratica diviene, quindi, munus
poiché in base ad una norma dell’ordinamento essa riceve
il compito di curare un interesse altrui e, di conseguenza, il dovere giuridico
fondamentale di comportarsi in modo da ottenere il miglior risultato per
l’interesse pubblico.
Recentemente anche la Legge 241/90 e s.m.i.,
all’art. 1, comma 1-bis, nell’affermare che la Pubblica
Amministrazione agisce secondo le norme di diritto privato, parrebbe sposare una
tesi da tempo invalsa secondo la quale, in una prospettiva di semplificazione e
snellimento, l’azione amministrativa dovrebbe incanalarsi lungo gli argini
posti dal diritto privato, fermo restando il vincolo di scopo che la
caratterizza.
Tuttavia non pare si possa affermare che la norma innovi
rispetto al già affermato riconoscimento della capacità di diritto
privato dell’Amministrazione per approdare ad un’enunciazione
inequivoca e generalizzata di tale assunto, il quale risulta, al contrario,
nella formulazione poi tradotta in legge, condizionato nella sua applicazione da
una duplice clausola che, da un lato, ne limita l’area agli atti non
autoritativi e, dall’altro, ne circoscrive la portata introducendo una
possibilità di deroga ad opera della legge.
Pertanto, pur
riconoscendosi in capo alla P.A. un’autonomia negoziale di carattere
generale, in qualche modo alternativo all’applicazione del diritto
pubblico, resta, tuttavia, inalterata la funzione amministrativa, che rimane
finalizzata al miglior perseguimento dell’interesse pubblico: infatti, il
richiamo all’autonomia negoziale di carattere generale concerne solo la
forma, che potrà esprimersi attraverso i modelli dell’azione
consensuale, quando non sia richiesta necessariamente l’adozione di atti
di natura non autoritativa.
In quest’ottica occorre analizzare, per
quanto concerne l’implicazione della norma civilistica
dell’attività di direzione e coordinamento, quali siano le funzioni
del Comune, partendo dalla formulazione dell’art. 118 Cost. e
dell’affermazione del principio di sussidiarietà, per arrivare
all’indicazione dell’art. 13 del T.U.EE.LL – comunque
antecedente alla riforma del titolo V Cost. in quanto approvato con D.Lgs. 18
agosto 2000 n. 267 -, che ha attribuito genericamente al Comune tutte le
funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio,
precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla
comunità, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello
sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri
soggetti dalla legge statale o regionale, senza dimenticare i servizi pubblici
locali ex art. 113 T.U.EE.LL, oggi parzialmente abrogato, ed ex art. 23 bis del
D.L. 112/2008 convertito, con modificazioni, nella Legge n.133/2008 e
s.m.i.
Nell’ambito delle proprie funzioni amministrative destinate a
prestare servizi o produrre beni il Comune opera in proprio o attraverso
specifiche entità che possono assumere la forma di imprese pubbliche
oppure di organismi di diritto pubblico.
A proposito della fattispecie
dell’impresa pubblica è necessario rammentare che la
“Direttiva Cee 80/723 della Commissione, relativa alla trasparenza delle
relazioni finanziarie tra Stati Membri e imprese pubbliche (modificata dalla
direttiva della Commissione 85/413), definisce le “imprese
pubbliche”come le imprese nei confronti delle quali i pubblici poteri
possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante
per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o di normativa
che le disciplina”, mentre in ambito nazionale, ora l’art. 3, comma
28, del Codice dei contratti di cui al D.Lgs. n. 163/2006, recependo le
definizioni comunitarie in materia, considera “pubbliche” le imprese
su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o
indirettamente, un’influenza dominante o perché ne sono
proprietarie o perché ne detengono una partecipazione finanziaria o in
virtù delle norme speciali che disciplinano tali imprese; in particolare,
l’influenza dominante si può considerare presunta quando le
amministrazioni aggiudicatrici detengono la maggioranza del capitale
sottoscritto o controllano la maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni
emesse dall’impresa o hanno il diritto di nominare più della
metà dei membri del consiglio di amministrazione, di direzione o di
vigilanza dell’impresa.
La definizione di organismo di diritto
pubblico, invece, trae la propria origine dalla pronuncia della Corte di
Giustizia C.E., 20 settembre 1988, n. 31, che partendo da una nozione di tipo
funzionale, affermava che dovesse rientrare nella nozione di Stato un ente che,
pur dotato di personalità giuridica distinta, tuttavia dipendeva in modo
sostanziale dai pubblici poteri, non fosse altro che per la composizione e le
funzioni disciplinate dalla legge.
Oggi la definizione si trova nella
Direttiva 2004/18/C.E. e recepita in ambito nazionale dal Codice dei contratti
pubblici di cui al D.Lgs. n. 63/2006 e s.m.i., art. 3 comma 26.
L’allegato III della direttiva 2004/18/CE fornisce, per ogni Stato
membro, un elenco e delle categorie degli organismi di diritto pubblico e per
l’Italia tra i soggetti e le categorie indicate vi sono gli Enti preposti
a servizi di pubblico interesse.
Alla luce dell’art. 3 comma 26, del
D.Lgs. n. 63/2006 e s.m.i. per organismo di diritto pubblico s'intende qualsiasi
organismo:
a) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse
generale, aventi carattere non industriale o commerciale;
b) dotato di
personalità giuridica;
c) la cui attività sia finanziata in
modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri
organismi di diritto pubblico; oppure la cui gestione sia soggetta al controllo
di questi ultimi; oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di
vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà
è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri
organismi di diritto pubblico.
Quindi, mentre l’impresa pubblica
indipendentemente dalla veste formale, pubblicistica o privatistica assunta, per
definizione, soddisfa bisogni di interesse generale a carattere industriale o
commerciale, operando secondo le regole e i meccanismi propri del mercato, con
conseguente sussistenza di quegli indici, come l’agire in normali
condizioni di mercato, il perseguimento di uno scopo di lucro nonché
l’assunzione del relativo rischio, al contrario l’organismo di
diritto pubblico si caratterizza, tra le altre cose, per una carenza di
imprenditorialità sostanziale e per la ricorrenza cumulativa dei
requisiti prescritti, quali il possesso della personalità giuridica, la
sottoposizione ad un’influenza pubblica
nonché la tipicità del fine perseguito, che è stato
individuato nel soddisfacimento di bisogni di interesse generale non aventi
carattere industriale e commerciale, anche se non perseguito in via prevalente
dall’ente.
Pertanto, la nozione di impresa pubblica non coincide con
quella di organismo di diritto pubblico e ne deriva che la normativa comunitaria
sugli appalti non si applica all’impresa pubblica, stante il fatto che la
medesima è normalmente sottoposta alle regole della concorrenza e dunque
al funzionamento naturale dei meccanismi di mercato.
Tornando alla lettura
dell’art. 2497 C.C., la norma afferma che le società o gli enti
che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società,
“agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in
violazione dei princìpi di corretta gestione societaria e imprenditoriale
delle società medesime, sono direttamente responsabili...”: a tal
proposito la Giurisprudenza (Cass. 26/2/1990 n. 1439), ha precisato che la
natura imprenditoriale della holding “non deriva dal fatto che essa
svolge attività di partecipazione e di coordinamento tecnico –
finanziario, in sé e per sé considerata , ma deriva dalla
specifica attività di produzione e di scambio che formano oggetto delle
società operanti ed il cui esercizio, in forma di controllo, è
attuabile dalla capogruppo. La capogruppo, quindi, è imprenditore per il
fatto di esercitare attività imprenditoriale nella sua completezza, in
una fase in via diretta, in altra fase in modo mediato ed indiretto”.
Pertanto, nella holding, l’attività di direzione e
coordinamento è riconoscibile perché l’interesse
imprenditoriale è insito nella forma privatistica di società
lucrativa: sulla base di tale principio è ovvio che laddove una
società pubblica, suscettibile di essere definita impresa pubblica, si
trovasse nei confronti delle altre società del proprio gruppo nella
posizione di esercitare la direzione e coordinamento rientrerebbe
nell’applicazione della fattispecie di cui agli artt. 2497 e ss.
C.C.
Tuttavia è opportuno rilevare che la recente normativa in materia
di partecipazioni pubbliche introdotta dall’art. 3, comma 27 e ss. della
Legge 244/2007 - nel disporre che le Pubbliche amministrazioni non possono
costituire società aventi per oggetto attività di produzione di
beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie
finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente
partecipazioni, anche di minoranza, in tali società – intende
evitare assolutamente la partecipazione in società diverse da quelle
costituite e assunte per il perseguimento dei fini istituzionali e quindi in
tale prospettiva la figura dell’impresa pubblica è senza dubbio
destinata a sparire dall’ordinamento giuridico.
Con la decisione n.
148/09 la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sul punto ha affermato
che tali limitazioni “sono appunto dirette ad evitare che soggetti
dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei
quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie
finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse
generale (casi compiutamente identificati dal citato art. 3, comma 27), al fine
di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza, quindi sono preordinate a
scongiurare una commistione che il legislatore statale ha reputato
pregiudizievole della concorrenza (sentenza n. 326 del 2008). Inoltre, esse
mirano a realizzare detta finalità con modalità non irragionevoli,
siccome il divieto stabilito dalle disposizioni censurate e l'obbligo di
dismettere le partecipazioni possedute in violazione del medesimo non hanno
carattere di generalità, ma riguardano esclusivamente i casi nei quali
non sussista una relazione necessaria tra società, costituite o
partecipate dalle amministrazioni pubbliche, e perseguimento delle
finalità istituzionali.”
Diventa quindi interessante
verificare quali siano i beni e servizi “strettamente necessari al
perseguimento delle attività istituzionali”: sul punto si
è espressa la Corte dei Conti sez. Veneto n. 5/09 che, nel richiamare il
principio di sussidiarietà, individua un primo riferimento normativo
utile nell’art. 13 del D.Lgs. 267/00 e s.m.i. che elenca le funzioni
proprie del Comune legate alla “stessa struttura del bilancio
dell’ente, e precisamente dalle funzioni, - che individuano in modo
articolato le spese in relazione alla tipologia delle attività espletate
e cioè all’oggettivo esercizio di operazioni da parte delle
articolazioni organizzative dell’ente -e dai servizi - che individuano le
attività che fanno capo alle varie compagini organizzative
dell’ente.”, mentre un secondo riferimento diventa lo
Statuto comunale, atto fondamentale dell’ente, “(che delinea i
contorni dell’attività istituzionale dell’ente, come definita
dalle fonti legislative), e dalle linee programmatiche di mandato (che segnano,
sin dall’insediamento dell’amministrazione, le direttrici entro cui
tale attività dovrà svilupparsi)”.
Si tratta
sicuramente di criteri elastici, da utilizzare nella predisposizione delle
deliberazioni dei consigli che, comunque, non potranno non tenere in
considerazione ulteriori elementi di fatto quali l’emergere di
“esigenze di ordine tecnico (ad esempio, con riferimento a beni e
servizi non altrimenti reperibili nel libero mercato, o strutturalmente non
erogabili direttamente dall’ente) o economico (per es., legate alla
maggiore convenienza economica dell’autoproduzione del bene o servizio
rispetto all’acquisizione di esso sul mercato) che depongano in favore
dell’opzione societaria. Inoltre, la valutazione in ordine
all’attività sviluppabile dalla società partecipata
dovrà essere il risultato di un processo complesso, nel quale, seguendo
il consolidato orientamento delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei
Conti, l’ente dovrà attentamente valutare i costi e i benefici
dell’affidamento del servizio alla società, in termini di
efficienza, efficacia ed economicità di gestione in un’ottica di
lungo periodo, nonché le ricadute sui cittadini e sulla
responsabilità dell’Amministrazione stessa.”.
Quindi
la norma, escludendo la partecipazione in società che non siano
preordinate ad attività di produzione di beni e di servizi non
strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità
istituzionali, esclude a priori il carattere imprenditoriale non solo
dell’attività della P.A. che abbia partecipazioni societarie, ma
anche delle stesse società partecipate che assumano a loro volta la
qualità di holding rispetto alle proprie collegate e
controllate.
Tuttavia è indubbio che le
società a partecipazione pubblica, almeno sotto il profilo civilistico,
siano formalmente suscettibili di essere qualificate come imprese economiche, la
cui definizione, non rintracciabile nel Codice Civile, è facilmente
desumibile dalla definizione di imprenditore data dall’art. 2082 a norma
del quale “è imprenditore chi esercita professionalmente
un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello
scambio di beni o di servizi”.
L'impresa - diversamente
dall'azienda che giuridicamente è (art. 2555) il complesso di beni
organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa - è dunque
l'attività economica esercitata dall'imprenditore in possesso di tutti i
seguenti caratteri essenziali dell'impresa:
- l'esercizio dell'impresa deve avere carattere professionale, non dando luogo
ad impresa un esercizio non abituale o occasionale dell'attività;
- l'attività deve essere economica cioè finalizzata al lucro,
non essendo qualificabili come imprese le attività c.d. no profit
(sindacati, partiti politici, enti benefici,...);
- l'organizzazione come elemento essenziale, nel senso che ci deve essere un
minimo di organizzazione del lavoro, del capitale, delle risorse, ecc...,
è la mancanza di questa caratteristica che porta in dottrina a non
riconoscere la qualifica di impresa ai professionisti che svolgono un lavoro
intellettuale (avvocati, dottori commercialisti, medici,...);
- lo scopo è quello della produzione (impresa industriale) e/o dello
scambio (impresa commerciale) di beni (materiali) e/o servizi (beni
immateriali), sempre finalizzati alla realizzazione di un
profitto.
Inoltre l’art. 2088 C.C. prevede la
responsabilità dell’imprenditore verso lo Stato per
l’indirizzo della produzione e degli scambi, mentre l’art. 2195 C.C.
elenca tra le imprese commerciali quelle che esercitano
un’attività:
a) Industriale, diretta alla produzione di beni o
di servizi;
b) Intermediaria, nella circolazione dei beni (-impresa
commerciale- propriamente detta);
c) Di trasporto, per terra, acqua e
aria;
d) Bancaria o assicurativa;
e) Ausiliaria alle precedenti,
contribuendo a definire l’ambito di applicazione dello statuto
dell’imprenditore commerciale, cioè di tutto quel complesso di
norme che regola obbligatoriamente le imprese commerciali, come
l’iscrizione nel Registro imprese, la tenuta della contabilità,
ecc....
Infine, l’art. 2195 serve per distinguere le imprese
commerciali in varie categorie in modo da poter creare degli statuti particolari
ad hoc atti a regolamentare la singola categoria.
L’imprenditore
commerciale è dunque obbligato all'iscrizione nel Registro Imprese ed
è obbligato alla tenuta delle scritture contabili.
È corretto
evidenziare che sotto il profilo prettamente civilistico sono obbligati
all’iscrizione le imprese commerciali di cui all’art. 2195, le
società commerciali, le società cooperative, anche se non hanno
un’attività commerciale, gli enti pubblici che hanno per oggetto
esclusivo o principale un’attività commerciale.
Se questi sono
gli elementi essenziali per la definizione dell’imprenditore e
conseguentemente per qualificare l’attività come imprenditoriale
sotto il profilo civilistico non si può escludere, almeno formalmente,
che la società a partecipazione pubblica sia un’impresa e al
contrario, sotto il profilo amministrativistico, l’attività
industriale, diretta alla produzione di beni o di servizi, e
l’attività commerciale, diretta alla circolazione dei beni, non
possono assumere carattere imprenditoriale in quanto esplicate per soddisfare
specificatamente esigenze di interesse generale: quindi, al di là della
forma assunta, le società in questione non possono essere considerate
imprese economiche in senso stretto, in quanto non svolgendo attività
prettamente imprenditoriale non possono, nel caso in cui abbiano la natura di
capogruppo, esercitare la direzione e coordinamento sulle proprie controllate e
collegate.
Esclusione dell’esercizio dell’attività di
direzione e coordinamento in capo all’Ente Pubblico.
Sulla base di
tale presupposto a maggior ragione l’ente pubblico non può
esercitare la direzione e coordinamento sulle società
partecipate.
In dottrina si è affermato, pur ritenendo improponibile
l’azione ex art. 2497, che tale fattispecie sia ravvisabile soprattutto
nel caso in cui l’ente eserciti il c.d. controllo analogo necessario per
gli affidamenti in house.
Appare necessario evidenziare che, tra gli
strumenti giuridici e gestionali da adottarsi sotto il profilo societario e
pubblicistico per concretizzare il requisito del “controllo
analogo”, vanno considerati Statuto, Poteri dell’Assemblea, Nomina e
poteri degli amministratori, Governance delle aziende partecipate alla luce del
nuovo diritto societario e la funzione del contratto di servizio ai fini
dell’esercizio del controllo analogo, mentre il modello in house è
un modello organizzativo in cui la P.A. si avvale di propri organismi
appartenenti all’organizzazione amministrativa che fa loro capo una sorta
di amministrazione “indiretta”, nella quale la gestione del
servizio, in un certo senso, resta saldamente nelle mani dell’ente
concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della
società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente
destinata in modo assorbente a operazioni in favore di questo: tale concetto
è stato sostanzialmente ribadito dalla Corte di giustizia europea, Sez.
II, 17/7/2008 n. C-371/05 29 e Sez. III, 10/9/2009 n. C-573/07.
Probabilmente
nell’attribuire in capo agli enti pubblici locali l’attività
di direzione e coordinamento nei confronti delle proprie società a totale
partecipazione pubblica ed in possesso dei requisiti dell’in house ci si
è richiamati alla comunicazione 26 giugno 2002 della Commissione Europea
che in materia di controllo analogo ha dichiarato “affinché tale
tipo di controllo sussista non è sufficiente il semplice esercizio degli
strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del
diritto societario” occorre verificare che l’amministrazione
controllante eserciti “un assoluto potere di direzione, coordinamento e
supervisione dell’attività del soggetto partecipato e che riguarda
l’insieme dei più importanti atti di gestione del
medesimo”.
Tuttavia, non sarebbe comunque corretto attribuire alle parole un
significato ulteriore rispetto a quello richiesto: infatti la direzione e
coordinamento di cui all’art. 2497 C.C. non assume lo stesso significato
dell’affermazione della Commissione Europea, tra l’altro
antecedente, alla riforma societaria.
Tralasciando l’analisi del
controllo analogo, in quanto non è specifico oggetto del presente
provvedimento, proprio con riferimento alla fattispecie dell’in house non
si comprende quale sia la ratio dell’applicazione della norma, atteso che
la società deve essere, tra l’altro, a totale partecipazione
pubblica e dunque: totalmente partecipata da un ente pubblico ed in tal caso non
vi saranno soci di minoranza da tutelare oppure totalmente partecipata da
più enti pubblici, alcuni dei quali assumeranno la qualità di
socio di minoranza che, però, devono esercitare congiuntamente il
controllo analogo e quindi non possono essere sottoposti all’influenza
dominante del socio di maggioranza della società partecipata, altrimenti
verrebbe meno la stessa fattispecie dell’in house: non si può,
dunque, affermare l’esistenza di divergenza tra gli interessi
dell’ente e quelli della società partecipata.
Quindi, sotto il
profilo della tutela per il pregiudizio di redditività e di valore della
partecipazione sociale arrecato agli altri soci delle società
assoggettate, proprio a causa della mancanza di divergenza di interessi, non si
comprende quale sia l’utilità di affermare l’esistenza della
direzione e coordinamento nei confronti delle società in house.
Analogamente, non si comprende a quali fini si possa affermare
l’esistenza della direzione e coordinamento nei confronti delle
società in house sotto il profilo della tutela per la lesione cagionata
all’integrità del patrimonio delle società assoggettate
risentita dai creditori di queste società: infatti dei debiti della
società risponde sempre l’Ente locale, atteso che l’art. 194,
comma 1 lett. c) T.U.EE.LL. prevede il riconoscimento dei debiti fuori bilancio
per le ricapitalizzazioni di società di capitali costituite per
l’esercizio dei servizi pubblici locali.
Un ulteriore approfondimento
merita la fattispecie della società mista pubblico – privata per la
gestione dei servizi pubblici locali, rispetto alla quale il comma 2 lett. b)
dell’art. 23 bis del D.L. 112/2008 e s.m.i. richiede che al socio privato
sia ceduta la quota di almeno il 40% del capitale sociale, rispetto
all’esigenza di tutelare i soci privati di minoranza.
Si rammenta che
in questo caso, nonostante il disinteresse della Dottrina che si è
limitata ad affermare la direzione e coordinamento nei confronti della
società in house, potrebbe aver senso tutelare il socio privato di
minoranza laddove questi si trovasse a subire gli indirizzi dell’ente
pubblico socio di maggioranza: ciononostante è opportuno rammentare che
nella disciplina dell’affidamento di servizi pubblici questi soci assumono
la qualità di socio operativo industriale, il cui apporto - secondo la
Comunicazione interpretativa sull'applicazione del diritto comunitario degli
appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati
istituzionalizzati (PPPI) del 5 febbraio 2008 n. C(2007)6661 della Commissione
Europea - “consiste, a parte il conferimento di capitali o altri beni,
nella partecipazione attiva all'esecuzione dei compiti assegnati
all'entità a capitale misto e/o nella gestione di tale
entità”: in tale ipotesi dunque il partner privato è
selezionato nell'ambito di una procedura trasparente e concorrenziale, che ha
per oggetto sia l'appalto pubblico o la concessione da aggiudicare
all'entità a capitale misto, sia il contributo operativo del partner
privato all'esecuzione di tali prestazioni e/o il suo contributo amministrativo
alla gestione dell'entità a capitale misto. Quindi ben potrebbe il socio
privato di minoranza avere stringenti poteri di gestione della società in
virtù di specifiche attribuzioni (ad es. l’attribuzione della
nomina a favore del socio privato dell’Amministratore Delegato oppure
attraverso la previsione di quorum assembleari di decisione superiori al 51%).
Diversa potrebbe essere, ancora, la fattispecie in cui si sia in presenza di
una società mista pubblico – privata non riconducibile al PPPI
della Comunicazione summenzionata, bensì alla fattispecie del socio
privato finanziatore al quale è richiesto esclusivamente l’apporto
di capitali: in tal caso non potrebbe escludersi la responsabilità della
P.A. nel caso di danno da depauperamento al socio privato, nei limiti della
mancanza dell’esercizio dell’attività imprenditoriale da
parte della P.A. stessa.
A proposito delle società miste si è
rilevato che l’interesse pubblico perseguito dall’Ente che assume la
partecipazione nella società costituisce causa del contratto che in tal
modo diviene duplice: scopo di lucro e perseguimento dell’interesse
pubblico, sostenendo che l’interesse pubblico integri comunque
l’interesse sociale, arrichendolo di ulteriori finalità non
necessariamente coincidenti con quelle degli azionisti privati.
In ogni caso
in virtù della novella normativa in materia di assunzione, costituzione e
mantenimento delle partecipazioni societarie si può continuare ad
escludere, almeno per il futuro, che possa parlarsi di direzione e coordinamento
nei confronti delle società miste sempre per la mancanza di interesse
imprenditoriale della stessa società mista a partecipazione maggioritaria
dell’Ente, suscettibile di rientrare nella definizione di organismo di
diritto pubblico, piuttosto che in quella di impresa pubblica.
Le stesse
considerazioni possono essere fatte per le società strumentali di cui
all’art. 13 del D.L. 223/2006 converito in Legge n. 248/2206 c.d. D.L.
Bersani relativamente alle “società, a capitale interamente
pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche
regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali
all’attività di tali enti”, alle quali è stato
imposto di “operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti
o affidanti”, non potendo “svolgere prestazioni a favore di altri
soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con
gara” e nemmeno “partecipare ad altre società od enti”.
Un altro elemento utilizzato dalla dottrina per attribuire
l’attività di direzione e coordinamento in capo all’Ente
pubblico è l’esistenza di contratti di servizio con le proprie
partecipate richiamando la disciplina in un primo tempo contenuta
nell’art. 2497 sexies comma 2, poi abrogato, ed ora contenuta
nell’art. 2497 septies.
In realtà, le previsioni sono
sostanzialmente diverse in quanto la disciplina civilistica si riferisce ai
contratti in forza dei quali la capogruppo viene a svolgere direttamente le
attività relative a servizi amministrativi, tecnici o gestionali a favore
delle società controllate, mentre il contratto di servizio tra
l’Ente pubblico e le proprie partecipate vede come soggetto regolatore
l’ente pubblico, mentre il soggetto erogatore è la società
affidataria che deve effettuare le proprie prestazioni a favore degli utenti.
A riprova della volontà di risolvere il problema in merito
all’attività di direzione e coordinamento con riferimento ai
“gruppi pubblici” il D.L. 78/09 c.d. Decreto anticrisi
all’art. 19 comma 6, disponendo l’interpretazione autentica
dell’art. 2497 C.C., recita “L’art. 2497, primo comma del
codice civile si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti
giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione
sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero
per finalità di natura economica o finanziaria”, escludendo
espressamente dall’applicazione della norma lo Stato (presupposto
soggettivo), mentre lascia aperto il problema per gli altri soggetti giuridici
collettivi che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della
propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura
economica o finanziaria.
In questo contesto quindi, si tratta, cioè,
di capire se nel riferimento agli “enti” dell’art. 2497 c.c.
rientrano anche gli enti pubblici economici. Com’è noto,
l’attività imprenditoriale esercitata in via principale è
riferibile solo a quegli enti pubblici per i quali l’esercizio di
attività economiche costituisce l’oggetto esclusivo o principale
della propria finalità istituzionale: ciò si verifica nei
cosiddetti “enti pubblici economici” dove l’esercizio di tale
attività costituisce oggetto principale od esclusivo (art. 2093 comma 1
ed art. 2201 C.C.) ma non negli “enti pubblici territoriali”, i
quali, come più volte sopra affermato, perseguono interessi pubblici
privi del carattere dell’imprenditorialità.
Relativamente
all’attività imprenditoriale se ne è già affermata
l’esclusione per le Pubbliche Amministrazioni in generale e per il Comune
in particolare, nonché per le società partecipate che non possono
assumere la qualità di impresa economica, come ribadito anche dalla
novella normativa in materia di assunzione, costituzione e mantenimento delle
partecipazioni societarie.
Problemi interpretativi possono, invece, porsi
circa le “finalità di natura economica o finanziaria”
intendendosi per natura economica la capacità di conseguire ricavi
superiori ai costi e per natura finanziaria la capacità di lucrare
rendite finanziarie.
Relativamente a tale ultimo profilo è necessario rilevare che il
Comune di Torino, nell’ambito della partecipazione a società
strumentali che non rientrano necessariamente nei limiti dell’art. 13 del
D. Legge Bersani, opera anche attraverso società finanziarie e di
riscossione dei tributi: ma anche in tali casi si tratta di strumenti utilizzati
per il perseguimento delle finalità pubbliche rientranti esclusivamente
nella funzione amministrativa dell’ente e, come le altre società a
partecipazione pubblica, anche tali società sono soggette ai limiti
imposti dalla normativa in materia: ci si riferisce al divieto dell’extra
moenia, cioè alla impossibilità di operare al di fuori del
territorio dell’ente di pertinenza, oppure alle regole e limiti per le
assunzioni nelle società di cui all’Art. 18 del D.L. 112/2008,
convertito in Legge 133/2008, e s.m.i. che recita “A decorrere dal
sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto-legge, le società che gestiscono servizi
pubblici locali a totale partecipazione pubblica adottano, con propri
provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per
il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3
dell’art. 35 D.Lgs. 165/2001.
Le altre società a
partecipazione pubblica totale o di controllo adottano, con propri
provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per
il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione
comunitaria, di trasparenza, pubblicità e
imparzialità.
Le disposizioni in oggetto non si applicano alle
società quotate su mercati regolamentati”.
Il successivo comma 2-bis (introdotto dall'art. 19, comma 1, D.L. 78/2009)
recita “ Le disposizioni che stabiliscono, a carico delle
amministrazioni divieti o limitazioni alle assunzioni di personale si
applicano, in relazione al regime previsto per l’amministrazione
controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale
totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi
pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare
esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né
commerciale, ovvero che svolgano attività nei confronti della Pubblica
Amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica
inserite nel conto economico consolidato della P.A., come individuate
dall’ISTAT ai sensi del comma 5 dell’ articolo 1 Legge 311/2004.
Le predette società adeguano inoltre le proprie politiche di personale
alle disposizioni vigenti per le amministrazioni controllanti in materia di
contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o
indennitaria e per consulenze. Con D.M., da emanare entro il 30 settembre 2009,
sono definite le modalità e la modulistica per l’assoggettamento al
patto di stabilità interno delle suddette società”.
Inoltre, occorre considerare che vige, altresì, la giurisdizione
della Corte dei Conti sulle società a partecipazione pubblica: con
riguardo a tale ultimo aspetto però recentemente la Corte di Cassazione
(Sentenza Cass. S.U. 19 dicembre 2009, n. 26806) ha affermato che è
esclusa la giurisdizione contabile nel caso di responsabilità degli
amministratori di società di diritto privato partecipate dall’ente
pubblico, la cui disciplina resta quella degli artt. 2392 C.C. e ss., mentre
rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti l’azione di
responsabilità per il danno arrecato all’immagine dell’ente
da organi della società partecipata, anche se non si tratta di danno che
comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla P.A., è
comunque suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del
bene giuridico leso.
Tali limiti, per le società a partecipazione
pubblica operanti nei servizi pubblici locali di rilevanza economica, sono
riassunti nell’art. 23-bis, comma 10, del D.L. 112/2008 e s.m.i. che
rimanda all’emanazione di uno o più regolamenti al fine di
prevedere, tra le altre cose, l’assoggettamento dei soggetti affidatari
diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e
l’osservanza da parte delle società in house e delle società
a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per
l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale,
così da profilare, al termine della c.d. privatizzazione formale , il
ritorno della pubblicizzazione attraverso l’introduzione di un modello
che, sempre di più, si avvicina a quello dell’azienda
speciale.
Il regolamento di attuazione dell’art. 23 bis si è
formalizzato nel D.P.R. 168/2010 prevedendo, tra l’altro:
- (Art. 5)
l’assoggettamento al Patto di stabilità interno degli affidatari
«in house» di servizi pubblici locali ai sensi dell'articolo 23-bis,
commi 3 e 4 demandando agli enti locali la vigilanza sull'osservanza, da parte
di tali soggetti partecipati dei vincoli derivanti dal patto di stabilità
interno;
- (Art. 6) l’assoggettamento alle disposizioni del codice dei
contratti per l'acquisto di beni e servizi da parte delle società
«in house» e delle società a partecipazione mista pubblica e
privata, affidatarie di servizi pubblici locali;
- (Art. 7)
l’assoggettamento al rispetto dei principi di cui al comma 3 dell'articolo
35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. in merito all’assunzione
di personale da parte delle società«in house» e delle
società miste, con la sola eccezione delle società quotate in
borsa.
A proposito dell’assoggettamento al patto di stabilità
è, tuttavia, opportuno rilevare che recentemente la Corte Costituzionale
nell’esprimersi in merito alla questione di legittimità
dell’art. 23 bis da parte di alcune Regioni, tra cui la Regione Piemonte,
ha dichiarato l’incostituzionalità della prima parte della lett. a)
del c. 10 dell'art. 23-bis del D.L. n. 112 del 2008, nella parte in cui prevede
che la potestà regolamentare dello Stato prescriva l'assoggettamento dei
soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di
stabilità interno. L'ambito di applicazione del patto di stabilità
interno attiene infatti alla materia del coordinamento della finanza pubblica,
di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa
esclusiva statale, per le quali soltanto l'art. 117, c. 6, Cost. attribuisce
allo Stato la potestà regolamentare.
Un ulteriore problema che non
risulta affrontato dalla dottrina è quello relativo alle società a
totale partecipazione pubblica che risultino aggiudicatarie della “prima
gara” e che quindi, affrancate dall’in house, possono partecipare a
gare extraterritoriali per le quali sicuramente continuano ad operare le norme
sulle regole per la selezione dei dipendenti a norma dell’art. 18 comma 1
del D.L. 112/2008 e s.m.i., mentre non valgono le norme costituenti limite alle
assunzioni di cui al comma 1 bis del medesimo art. 18.
A proposito
dell’extraterritorialità è necessario chiedersi se la
possibilità di partecipare a gara fuori dal territorio dell’ente di
appartenenza possa essere considerata un’apertura al mercato, nel senso
che l’attività di produzione ed erogazione di servizi pubblici
possa continuare ad essere limitata al perseguimento dell’interesse
pubblico sotteso all’ente di appartenenza, oppure se una volta che
l’attività sia rivolta ad un soggetto effettivamente terzo
l’attività divenga a tutti gli effetti
imprenditoriale.
L’esperienza futura relativa alle effettuande gare
provvederà a dare risposte a questo ed altri quesiti.
Se dunque si
può escludere che le società partecipate, nel caso in cui siano
esse stesse holding di un gruppo, possano esercitare l’attività di
direzione e coordinamento, a maggior ragione non può ravvisarsi, quindi,
come l’Ente Pubblico ed in particolare il Comune possa agire
nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, stante la finalità
prettamente istituzionali dell’ente pubblico territoriale, tenuto al
perseguimento dell’interesse pubblico nell’ambito dei propri fini
istituzionali e delle proprie funzioni al fine di soddisfare bisogni generali
dei consociati.
Infatti, se è vero che il Comune è
un’Azienda, definita in base alla teoria economica, come una qualunque
organizzazione che combina un determinato insieme di risorse (input) per fornire
un determinato insieme di prodotti o servizi (output) destinati a soddisfare i
bisogni di determinati soggetti (outcome), è, altresì, vero che il
concetto di Azienda non coincide con il concetto di Impresa, mancando per
l’Azienda una serie di elementi quali il sistema dei prezzi, la
concorrenza di mercato, lo stimolo al profitto ed, infine, la minaccia del
fallimento.
Questa precisazione recepisce la distinzione, di matrice
comunitaria, tra attività di impresa e tutto ciò che costituisce
missione di interesse generale, nonché il carattere strumentale, rispetto
alle finalità istituzionali, dello strumento societario.
Oltre alla
mancanza del carattere imprenditoriale dell’Ente locale un'altra
considerazione porta ad escludere che l’ente locale possa esercitare
attività di direzione e coordinamento, ai sensi delle disposizioni del
codice civile, sulle proprie società: le presunzione di cui
all’art. 2497 sexies, a norma del quale si presume, salvo prova contraria,
che l’attività di direzione e coordinamento di società sia
esercitata dalla società o dall’ente tenuto al consolidamento dei
loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi dell’art. 2359
C.C.
Orbene il vigente T.U.EE.LL. non dispone l’obbligo di redigere il
bilancio consolidato per l’Ente Locale, ma solo la facoltà prevista
dall’art. 230 D.Lgs. 267/2000 e s.m.i.
Tuttavia, anche in tema di
consolidamento di bilanci vi è da fare una precisazione: è,
infatti, allo studio del Legislatore il c.d. D.D.L. Calderoni che, tra le altre
previsioni, impone l’obbligo di redazione del bilancio consolidato per
l’Ente locale: una tale previsione, legata solamente al dato letterale del
bilancio consolidato senza verificare le implicazione che comporta il
consolidamento dei bilanci soprattutto per le società soggette, potrebbe
indubbiamente alimentare ulteriormente la dottrina che comprende tra i soggetti
attivi dell’attività di direzione e coordinamento anche gli enti
pubblici.
Consolidare i bilanci significa esporre la situazione
patrimoniale-finanziaria ed il risultato economico di un gruppo di imprese,
viste come "un'unica impresa". Il bilancio consolidato supera il diaframma
rappresentato dalle distinte personalità giuridiche delle singole
imprese. Esse vengono, di fatto, assimilate a divisioni o filiali di un'unica
grande società. Il bilancio consolidato consente di:
• sopperire alle carenze informative e valutative dei bilanci
d'esercizio delle società che detengono rilevanti partecipazioni di
maggioranza; esso infatti è lo strumento informativo primario di dati
patrimoniali, economici e finanziari del "Gruppo", sia verso i terzi che verso
gli stessi azionisti della controllante. In questo senso è parte del
controllo di gestione;
• ottenere la visione complessiva della
situazione patrimoniali-finanziarie del gruppo e delle sue variazioni, incluso
il risultato economico;
• misurare i risultati economici
dell'entità economica unica "Il Gruppo" eliminando gli utili
"infragruppo" non ancora realizzati nei confronti di terzi;
• eliminare tutte le appostazioni operate esclusivamente in
applicazione di norme tributarie.
Il bilancio consolidato costituisce quindi
lo strumento per poter comprendere la realtà reddituale, patrimoniale e
finanziaria del gruppo inteso come entità diversa dalle singole
società che lo compongono. Infatti, le imprese legate da vincoli
partecipativi, in quanto operanti nell'ambito di un gruppo economico, conservano
la loro autonomia giuridica, ma subiscono una più o meno rilevante
influenza nella gestione economica. Sotto il profilo operativo, il Gruppo agisce
di fatto come entità economica costituita da una pluralità di
soggetti giuridici e da un unico soggetto
economico.
Nel caso delle
società pubbliche e del c.d. gruppo pubblico l’obbligo di
consolidare i bilanci, invece, andrebbe letto alla luce della tendenza ad un
ritorno alla pubblicizzazione delle società in questione al fine di
contenere i costi della spesa pubblica, come si può evincere anche dalla
recente manovra correttiva del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con
modificazione, dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, intitolato "Misure urgenti in
materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica".
Proprio per tale motivo si ritiene che, ciononostante, la prospettiva in
merito all’esclusione dell’esercizio dell’attività di
direzione e coordinamento da parte dell’ente locale sulle proprie
società partecipate e, a loro volta, da parte delle società
pubbliche sulle proprie controllate non possa cambiare, a causa della
persistente mancanza di ogni riferimento al carattere imprenditoriale
dell’attività svolta dalle società pubbliche ed
all’assenza di mercato in cui si trovano ad operare dette
società.
Da ultimo merita attenzione la normativa in tema di
fallimento e concordato preventivo, a conferma sempre dell’esclusione
degli enti pubblici dal novero dei soggetti qualificabili come
“imprenditori” e quindi soggetti esclusi dall’applicazione
dell’art. 2497.
L’articolo 1 della Legge Fallimentare (R.D. 16
marzo 1942 n.267 come modificata dal D.Lgs. 16 settembre 2007 n.169), dispone,
infatti, “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato
preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale,
esclusi gli enti pubblici”: ciò in linea con l’art. 2221 C.C.
che recita “Gli imprenditori che esercitano un’attività
commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti,
in caso di insolvenza, alle procedure del fallimento e del concordato
preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali”. Detta
disposizione conferma, quindi, quanto sopra affermato in merito
all’esclusione del carattere “imprenditoriale” dell’ente
locale.
Inoltre, si consideri che gli enti locali non rientrano nemmeno nei
soggetti individuati dalle leggi speciali, quali destinatari della procedura
concorsuale della liquidazione coatta amministrativa (art. 2 Legge Fallimentare
“1) La legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta
amministrativa, i casi per le quali la liquidazione coatta amministrativa
può essere disposta e l’autorità competente a disporla. 2)
Le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa non sono soggette al
fallimento, salvo che la legge diversamente disponga.”).
Agli enti
locali, infatti si applica l’istituto del dissesto finanziario, introdotto
per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano con
l’articolo 25 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con
modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144 e poi riformato con il decreto
legge 18 gennaio 1993, n. 8 convertito con modificazioni dalla legge 19 marzo
1993, n. 68, nonché dal D.Lgs. n. 77/1995, e s.m.i., dal D.Lgs. n.
336/1996, e dai Decreti Legislativi n. 342/1997 e n. 410/1998.
Le varie
modifiche apportate nel corso degli anni alla procedura del risanamento
finanziario degli enti locali sono state finalizzate ad avvicinare il dissesto
alle procedure concorsuali di natura civilistica, anche se nella disciplina di
cui trattasi le finalità sono diverse da quella, ad esempio del
fallimento, in cui domina l’esigenza di attuare la parità di
trattamento fra i creditori.
Nel caso del dissesto, invece, pur essendo
sentita l’esigenza di tutelare i creditori dell’ente occorre sempre
considerare la necessità di assicurare al Comune la continuità di
esercizio delle proprie finalità istituzionali e dei servizi dallo stesso
garantiti a favore dei cittadini: pertanto, gli squilibri economici finanziari
che hanno causato lo stato di crisi dell’ente, non possono portare ad una
forzata cessazione della sua attività. A tale riguardo si può
comunque affermare che la procedura concorsuale che più si avvicina al
dissesto è quella della liquidazione coatta amministrativa la quale
è finalizzata allo scopo, valutato come di preminente interesse pubblico,
di eliminare dal mercato l’impresa dissestata a differenza del fallimento
che ha altra finalità.
Attualmente la normativa sul dissesto
finanziario è stata trasfusa nel titolo VIII della parte II
dell’Ordinamento finanziario e contabile del Testo Unico delle Leggi
sull’Ordinamento degli Enti Locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e
s.m.i.).
Sorge, infine, un ultimo dubbio ovvero se le società
pubbliche partecipate dall’ente locale siano assoggettabili alla
disciplina del fallimento e del concordato preventivo e se quindi siano da
considerarsi “imprenditori”.
Al riguardo, la Giurisprudenza
Amministrativa, in più pronunce, ritiene che la veste formale societaria
“si presenta come modulo per rendere l’attività economica
più efficace e più funzionale, fermo restando che l’impresa
mantiene sotto molteplici profili uno spiccato rilievo pubblicistico”
(Consiglio di Stato, Sez. VI, 20/05/1995 n. 494). E ancora, “...il
fenomeno dell’azionariato pubblico e, più in generale, della
costituzione di società lucrative da parte della P.A., non si radica
esclusivamente nella disciplina di diritto comune, ma presenta aspetti di
diritto speciale, connessi al fatto che l’amministrazione, nella sua veste
di azionista di una società formalmente di diritto civile, non può
che indennizzare le attività societarie a fini di interesse pubblico
generale, che fanno assumere alle stesse attività i caratteri della
funzione amministrativa e valenza oggettivamente pubblicistica” (Consiglio
di Stato. sez. II, 20/06/2001 parere n. 1428/2000).
Si aggiunga la sentenza
del Consiglio di Stato - Sez. VI, n. 1303/2002 secondo cui “una
società è da considerarsi pubblica quando sussistono regole di
organizzazione e funzionamento che, oltre a costituire una consistente
alterazione del modello societario tipico (comprendendo una compressione delle
autonomie funzionale e statutaria degli organismi societari), rivelino, al tempo
stesso, la completa attrazione nell’orbita pubblicistica dell’ente
societario”.
Sulla stessa direzione, illuminante appare anche la
sentenza della Cassazione penale (Cass. Pen. Sez. V, 14/04/1980) secondo cui,
“Il momento d’individuazione della natura pubblica di un ente non va
ricercato negli scopi da esso perseguiti (dal momento che mentre alcuni enti
privati perseguono finalità cui tende lo Stato stesso, come quelle
relative all’istruzione e al credito, quest’ultimo, a sua volta,
interviene frequentemente in concorrenza con i privati in attività di
natura privatistica, come nel campo dell’economia e della produzione), ma
nel regime giuridico dello stesso nonché nella sua collocazione
istituzionale in seno all’organizzazione statale, come organo ausiliario
necessario al raggiungimento di finalità di interesse generale e, in
quanto tale, dotato di poteri e prerogative analoghi a quelli dello Stato e
assoggettato ad un intenso sistema di controlli pubblici”.
A livello
comunitario nel Regolamento C.E. 2223/96 del Consiglio, in data 25 giugno 1996,
relativo al sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella
comunità (8SEC 95) si ritrova una precisa nozione di Amministrazione
Pubblica (seppur al limitato fine della disciplina settoriale esaminata),
laddove è precisato che sono da considerare Amministrazioni Pubbliche
“tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di beni e
servizi non destinati alla vendita, la cui produzione è destinata a
consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da
versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori
e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste
nella ridistribuzione del reddito e delle ricchezze del paese”.
Alla
luce di quanto sopra detto, deve considerarsi ente pubblico, pertanto, qualsiasi
soggetto che indipendentemente dalla forma giuridica assunta utilizzi in
prevalenza per lo svolgimento dell’attività per cui è
costituito risorse pubbliche, anziché private. Ne consegue che, anche a
livello europeo, al fine di individuare la natura di un ente non è
rilevante la forma giuridica che viene data al medesimo, ma le risorse che
utilizza per lo svolgimento della sua attività.
Quindi, anche con
riferimento alla normativa speciale in materia di fallimento e procedure
concorsuali, si ritiene di confermare l’esclusione degli enti pubblici
locali e delle loro società partecipate dall’applicazione
dell’attività di direzione e coordinamento ex art. 2497
C.C.
Tuttavia allo stato attuale la normativa esistente induce a ritenere
che non si possa parlare di direzione e coordinamento nei confronti delle
società partecipate dall’ente locale, ferma restando la
precisazione a livello di obblighi pubblicitari di dichiarare tutti i casi in
cui la Città di Torino è socio unico della società e fatta
salva la possibilità di rivedere le conclusioni derivanti dalla
trattazione del presente provvedimento alla luce di nuove considerazioni
scaturenti da sopravvenienze normative.
Tutto ciò
premesso,
LA GIUNTA COMUNALE
Visto che ai sensi dell’art. 48 del Testo
Unico delle leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali, approvato con D.Lgs.
18 agosto 2000 n. 267, la Giunta compie tutti gli atti rientranti, ai sensi
dell’art. 107, commi 1 e 2 del medesimo Testo Unico, nelle funzioni degli
organi di governo che non siano riservati dalla Legge al Consiglio Comunale e
che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo Statuto, del
Sindaco o degli organi di decentramento;
Dato atto che i pareri di cui
all’art. 49 del suddetto Testo Unico sono:
favorevole sulla regolarità tecnica;
viene
dato atto che non è richiesto il parere di regolarità contabile,
in quanto il presente atto non comporta effetti diretti o indiretti sul
Bilancio;
Con voti unanimi, espressi in forma palese;
D E L I B E R A
1) di ritenere, per le motivazioni espresse in
narrativa e che qui integralmente si richiamano, che non sussista la fattispecie
dell’attività di direzione e coordinamento ai sensi
dell’art. 2497 C.C. e ss. da parte della Città di Torino nei
confronti delle seguenti società:
- AFC S.p.A.;
- Infratrasporti
s.r.l.;
- AMIAT S.p.A.;
- GTT S.p.A.;
- TRM S.p.A.;
- SMAT
S.p.A.;
- Farmacie Comunali Torino S.p.A.;
- SORIS S.p.A.;
- FCT
S.p.A.;
- CCT s.r.l.;
- FSU s.r.l.;
- VIRTUAL REALITY & MULTI MEDIA
PARK S.P.A.;
- C.A.A.T. S.C.P.A.;
- GARIBALDI S.C.P.A.;
- BORGO DORA
S.C.P.A.;
- 5T s.r.l.;
2) di dare mandato, ove le società stesse
non vi avessero già provveduto, alle seguenti società: AFC S.p.A.,
Infratrasporti s.r.l., AMIAT S.p.A., GTT S.p.A., SORIS S.p.A., FCT S.p.A., CCT
s.r.l., di inserire dopo la ragione sociale a fini di pubblicità la
dicitura “società a socio unico Città di Torino”;
3) di dichiarare, attesa l'urgenza, in conformità del distinto voto
palese ed unanime, il presente provvedimento immediatamente eseguibile ai sensi
dell'art. 134, 4° comma, del Testo Unico approvato con D.Lgs. 18 agosto
2000 n. 267.
Il
Vicesindaco
Tommaso Dealessandri
Si esprime parere favorevole sulla regolarità
tecnica.
La Dirigente
Gabriella Delli Colli
In originale firmato:
IL VICESINDACO
IL SEGRETARIO GENERALE
Tommaso Dealessandri
Mauro Penasso
____________________________________________________________________________
ATTESTATO DI PUBBLICAZIONE E DI
ESECUTIVITÀ
La presente deliberazione:
1° ai sensi dell’art. 124,
1° comma, del Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli EE.LL.
(Decreto Legislativo 18.8.2000 n. 267) è pubblicata all’Albo
Pretorio del Comune per 15 giorni consecutivi dal 7 maggio 2011 al 21 maggio
2011;
2° ai sensi dell’art. 134, 3° comma, del Testo
Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli EE.LL. (Decreto Legislativo
18.8.2000 n. 267) è esecutiva dal 17 maggio 2011.