Direzione Partecipazioni Comunali
2011 01926/064
Settore Gestione Societaria
0/C




CITTÀ DI TORINO

DELIBERAZIONE DELLA GIUNTA COMUNALE

3 maggio 2011

Convocata la Giunta presieduta dal Vicesindaco Tommaso DEALESSANDRI, sono presenti, gli Assessori:



Alessandro ALTAMURA
Marco BORGIONE
Giuseppe BORGOGNO
Ilda CURTI
Gianguido PASSONI
Giuseppe SBRIGLIO
Maria Grazia SESTERO
Roberto TRICARICO
Mario VIANO










Assenti per giustificati motivi, oltre il Sindaco Sergio CHIAMPARINO, gli Assessori: Fiorenzo ALFIERI - Giovanni Maria FERRARIS - Marta LEVI - Domenico MANGONE.





Con l’assistenza del Segretario Generale Mauro PENASSO.





OGGETTO: DIREZIONE E COORDINAMENTO DI SOCIETÀ PARTECIPATE DALLA CITTÀ DI TORINO. APPROVAZIONE.

Proposta del Vicesindaco Dealessandri.

La fattispecie dell’attività di Direzione e coordinamento nel Cod. Civ: la responsabilità ex art. 2497

La Riforma societaria attuata con D.Lgs. 6/2003 e s.m.i. ha introdotto la disciplina relativa alla “Direzione e Coordinamento di società” agli artt. 2497 – 2497 septies cod.civ.,la cui fattispecie può essere sintetizzata come segue:
i) soggetti responsabili individuati in società o enti (è prevista anche la responsabilità solidale di coloro che abbiano partecipato al fatto lesivo e coloro che ne abbiano consapevolmente tratto beneficio);
ii) l’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento;
iii) l’agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui;
iv) in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società assoggettate;
v) il pregiudizio di redditività e di valore della partecipazione sociale arrecato ai soci delle società assoggettate;
vi) oppure la lesione cagionata all’integrità del patrimonio delle società assoggettate risentita dai creditori di queste società;
vii) un risultato dell’attività di direzione che comporti danno in assenza di vantaggi compensativi il mancato compimento di operazioni dirette ad eliminare integralmente il danno;
viii) la mancata soddisfazione di soci e creditori sociali da parte della società assoggettata.
In primo luogo, è opportuno rilevare che il legislatore ha scelto di non definire il “gruppo”, il cui termine viene usato invece sia nelle norme penali societarie (artt. 2621, 2622, 2634, C.C.), sia nella disciplina delle società cooperative (art. 2545- septies nel testo novellato del C.C.), né “l’attività di direzione e coordinamento”, espressione ricorrente nel D.Lgs. n. 385/1993, in materia bancaria e creditizia e nel D.Lgs. n. 58/1998, in materia di intermediazione finanziaria, oltre che nell'art. 10 della citata legge delega n. 366/2001 (è invece utilizzata l'espressione "attività di direzione e controllo" nell'art. 4, c.1 del D.Lgs. n. 155/2006 “Disciplina dell'impresa sociale”), ma ha preferito disciplinare quest’ultima sotto il profilo della responsabilità, introducendo un elemento di novità rispetto agli schemi comuni della responsabilità, contrattuale o aquiliana, nei rapporti societari, riferita sempre e comunque a chi è incaricato della gestione sociale e cioè, in primis, l'amministratore.
Rientra sotto il profilo della responsabilità contrattuale la fattispecie in cui l’amministratore risponde verso la società per mala gestio (artt. 2392 e 2393 C.C.) e verso i creditori sociali, dal momento che l'azione degli amministratori deve essere tale da garantire anche l'integrità del patrimonio sociale in favore dei creditori (art. 2394 C.C.), mentre si realizza l’ipotesi della responsabilità aquiliana nella fattispecie relativa alla responsabilità dell'amministratore verso il singolo socio direttamente danneggiato dall'atto, colposo o doloso, di esso (art. 2395 C.C.): in tal caso infatti il socio non ha alcun rapporto con l'amministratore se non attraverso la società di cui è partecipe.
L’art. 2497 C.C. disciplina, invece, la responsabilità di “società od enti” che esercitano l'attività di "direzione e coordinamento" delle società appartenenti al “gruppo”, dove si configurano più società, operanti sotto la direzione unificata di una società chiamata capo-gruppo o società “holding” nei confronti delle altre società del gruppo.
La disciplina in materia di responsabilità di società od enti ha portato la Dottrina a rilevare l’esistenza di una insolita responsabilità del socio verso altri soci ove le società od enti, definiti responsabili, possano anche essere soci di maggioranza della singola società controllata, concernendo la fattispecie una responsabilità sui generis e specifica, il cui fondamento è proprio nel fenomeno del "gruppo" di cui l'attività esercitata di "direzione e coordinamento" non è che la manifestazione più evidente. In realtà, anche altre forme di manifestazione del "gruppo" possono esistere, come l'attività prestata di consolidamento del bilancio delle società controllate ad opera della capogruppo (art. 2497 - sexies C.C.), così come l'esistenza di un contratto tra essa e le società controllate (art. 2497 - septies C.C.). È vero che trattasi di presunzione iuris tantum e non de iure, ma certo è che anche gli elementi ivi previsti (consolidamento del bilancio e contratto) finiscono con l'assumere il valore di circostanze significative ai fini dell'esistenza del "gruppo".
A tal proposito si rende necessario precisare i casi in cui si manifesta il fenomeno del gruppo, ossia nei casi in cui si realizzi una concentrazione di società senza che ciò determini la loro fusione in termini giuridici comportando, da un lato, la formale separazione delle persone giuridiche e dei loro patrimoni, e, dall’altro, la formazione di una volontà omogenea di gruppo di regola coincidente con quella della holding.
La ratio della disciplina concernente l’attività di direzione e coordinamento va ricercata nell’esigenza di definire la responsabilità della società o ente capogruppo ritenendo che possa sussistere il concreto pericolo che la capogruppo imponga la propria volontà pregiudicando gli interessi delle altre società del gruppo in violazione dei “principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime” (art. 2497, comma 1, C.C.).
Il corpo normativo citato - ravvisando infatti un potenziale conflitto di interesse tra il c.d. interesse di gruppo (ossia l’interesse della capogruppo) e l’interesse della società controllata e quindi degli eventuali soci di minoranza) - risponde, quindi, alla logica di salvaguardare i soci ed i creditori delle società facenti parte del gruppo da ogni pregiudizio che possa essere arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, salvo escludere la responsabilità stessa in applicazione del c.d. principio di compensazione tra svantaggi derivanti dalla singola operazione e vantaggi legati dall’appartenenza della società al gruppo.
In merito all’attività di direzione e coordinamento di società opera la presunzione relativa di cui all’art. 2497 sexies nel caso in cui questa sia esercitata a) da società o ente tenuto al consolidamento dei bilanci oppure b) da società legate da vincolo di controllo ai sensi dell’art. 2359. In particolare, le ipotesi disciplinate dall’art. 2359 C.C. sono quelle relative ai casi in cui sono presenti le seguenti fattispecie:
a) società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria;
b) società in cui un’altra società dispone di voti sufficienti ad esercitare un’influenza dominante nell’assemblea ordinaria;
c) società che sono sotto l’influenza dominante di un’altra società in virtù di particolari vincoli contrattuali con essa.
Tuttavia, nonostante la presunzione relativa dell’art. 2497 sexies, non è possibile determinare l’esistenza dell’attività di direzione e coordinamento ogni volta che sussista la fattispecie del controllo, che costituisce solamente uno degli elementi che possono portare a rivelarne la presenza.
Pertanto, “direzione e coordinamento” (considerato in dottrina un’endiadi o un sintagma) e “influenza dominante” non possono essere considerati sinonimi: in dottrina si è affermato che la c.d. “direzione unitaria” consiste in un’attività di indirizzo delle decisioni gestorie dell’impresa che si concretizza in una nozione molto più ampia della nozione di controllo, coincidente, invece, con l’esercizio di poteri di nomina degli amministratori, dei poteri organizzativi e delle scelte di finanziamento dell’impresa.
In ogni caso fonte di responsabilità non è la direzione unitaria bensì l’abuso di direzione unitaria che si concretizza nell’agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale: la finalità è quella di tutelare i soci non direttamente coinvolti nella gestione della società da fatti che violino i corretti principi di corretta gestione societaria ed imprenditoriale.
Il terzo comma dell’art 2497 C. C. prevede, altresì, un limite all’esperimento all’azione risarcitoria nei confronti di chi esercita l’attività di direzione e coordinamento permettendo tale azione solamente se il socio o il creditore non siano stati soddisfatti dalla società soggetta all’attività stessa.
Quindi è necessaria una sentenza passata in giudicato prima di poter partire all’attacco del vero responsabile del depauperamento sociale.
L’art. 2497 bis rubricato “Pubblicità” assume la finalità di perseguire il c.d. “principio di trasparenza” richiamato dalla Legge Delega 366/2001.
Ai sensi dell’art. 2497 bis, commi 1, 2 e 4 l’obbligo di pubblicità è assolto attraverso:
- l’indicazione negli atti e nella corrispondenza della società del soggetto che esercita l’attività di direzione e coordinamento;
- l’iscrizione, a carico degli amministratori della società soggetta a direzione e coordinamento, della società o ente che la esercita presso un apposita sezione del registro delle imprese;
- l’inserimento nella nota integrativa della società sottoposta all’attività dei dati essenziali del bilancio della società o ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento.
Infine, il comma 5 dell’art. 2497 bis dispone che nella relazione sulla gestione gli amministratori devono indicare i rapporti intercorsi con chi esercita l’attività di direzione e coordinamento e con le altre società soggette, nonché l’effetto che tale attività ha avuto sull’esercizio dell’impresa sociale e sui suoi risultati, mentre il successivo art. 2947 ter impone che le decisioni delle società soggette ad attività di direzione e coordinamento, quando da questa influenzate, debbono essere analiticamente motivate e recare puntuale indicazione delle ragioni.
La pubblicità costituisce uno strumento a tutela degli interessi dei soci di minoranza e, in generale, di tutti quei soggetti non direttamente coinvolti nell’amministrazione della società: il mancato esercizio delle forme di pubblicità non impedisce comunque agli interessati il diritto all’azione di responsabilità così come disciplinata dall’art. 2497 C.C., ossia ai soci per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione e/o ai creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio sociale.
Per gli amministratori di società soggette all’attività di direzione e coordinamento l’art. 2497 bis terzo comma prospetta un'ulteriore forma di responsabilità, oltre a quelle previste dagli artt. 2391, 2392, 2393 bis, 2394 e 2395 bis: infatti, gli amministratori di tali società - qualora omettano l’indicazione negli atti e nella corrispondenza della società del soggetto che esercita l’attività di direzione e coordinamento, nonché l’iscrizione presso un’apposita sezione del registro delle imprese ovvero la mantengono quando la soggezione è cessata - sono responsabili dei danni che la mancata conoscenza di tali fatti abbia recato ai soci o ai terzi.
L’art. 2497 quater (la norma ritenuta comunque inderogabile, pone tuttavia dei problemi di coordinamento con gli artt, 2437 e ss. C. C.) attribuisce il diritto per il socio di società soggetta ad attività di direzione e coordinamento di recedere - richiamando l’applicazione, a seconda dei casi ed in quanto compatibili, delle disposizioni previste per il diritto di recesso del socio nella S.p.A. o nella s.r.l. - dalla società vedendo in tal modo liquidata la propria partecipazione nell’ipotesi in cui la società o l’ente che esercita attività di direzione e coordinamento abbia deliberato (modificando il livello di rischio dell’investimento):
i) una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale (si tratta, in pratica, delle cosiddette trasformazioni eterogenee di cui agli artt. 2500-septies e octies C. C.);
ii) una modifica del suo oggetto sociale consentendo l’esercizio di attività che alterino in modo sensibile e diretto le condizioni economiche e patrimoniali della società soggetta a direzione e coordinamento (anche se in questo caso sorgeranno notevoli problemi interpretativi e potrebbe essere difficile la possibilità di prova in merito all’alterazione delle condizioni economiche e patrimoniali in assenza di un esplicito riferimento normativo);
iii) quando a favore del socio (intendendosi solo un determinato socio e non genericamente uno tra i soci di minoranza) sia stata pronunciata, con decisione esecutiva, condanna di chi esercita attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 (la norma, in tale caso, prevede che il diritto di recesso debba essere esercitato per l’intera partecipazione escludendo, pertanto, un esercizio parziale);
iv) all’inizio ed alla cessazione dell’attività di direzione e coordinamento quando ne deriva un’alterazione delle condizioni di rischio dell’investimento (salvo che non si tratti di società quotate o quando sia promossa un’o.p.a.).
La riforma del diritto societario ha, inoltre, posto una particolare attenzione alle operazioni di finanziamento infragruppo: viene richiamata in toto all’interno del capo IX in tema di direzione e coordinamento delle società l’art. 2467 C. C. operante in materia di s.r.l., prevedendo che i rimborsi dei finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento o da altri soggetti ad essa sottoposti siano postergati rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuti nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, dovranno essere restituiti.
L’art. 2497 septies prevede l’applicazione della fattispecie dell’attività di direzione e coordinamento di società, al di fuori della presunzione juris tantum di cui all’art. 2497 sexies, alle ipotesi in cui l’attività di direzione e coordinamento di società sia dovuta sulla base di un contratto con le società medesime o di clausole di loro statuti, trovando quindi applicazione anche nei c.d. gruppi paritetici.
In conclusione l’impianto normativo in tema di direzione e coordinamento ha il merito di introdurre nella nostra legislazione degli strumenti di tutela, organicamente raccolti nel capo IX, per chi, soci di minoranza e creditori, ha stretti rapporti con la società ma non può influire direttamente sulla sua gestione.
In ogni caso è doveroso ribadire che la disciplina dettata in materia non esaurisce le fattispecie e le problematiche che nella pratica possono verificarsi e, a causa della mancanza di definizione chiara dell’attività di direzione e coordinamento, l’applicazione della disciplina e la conseguente tutela in essa racchiusa rischia di trovare ostacoli.
Ambito soggettivo di applicazione nel rapporto tra Ente locale e società a partecipazione pubblica: natura delle società pubbliche.
L’indeterminatezza della previsione relativa alla fattispecie dell’attività di Direzione e Coordinamento si riflette anche sull’ambito soggettivo di applicazione: si discute, infatti, sulla sua applicabilità nei confronti delle società pubbliche e nei rapporti con gli enti pubblici che le controllano.
L’approccio analitico da adottare dovrà necessariamente tener conto del diritto amministrativo e di quello che è stato definito da parte della dottrina Diritto Societario Pubblico, data l’esistenza di «molteplici regole in base alle quali l’attività delle società “pubbliche” è disciplinata in maniera tutt’affatto differente da quella svolta dalle società nella cui compagine sociale si ritrovano soltanto soggetti privati, in quanto tali disinteressati alle finalità di attuazione degli interessi della collettività».
Per dare risposta ai dubbi interpretativi è necessario partire dal dettato normativo evidenziando che sotto il profilo soggettivo la norma richiama “Le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società,...”: il riferimento alla parola “enti” parrebbe estendere la sua applicazione agli enti pubblici in generale.
Come già detto precedentemente, gli elementi qualificanti detta attività sono stati individuati nell’imposizione agli organi direttivi della società controllata di decisioni provenienti dalla società dominante, oppure nell’influenza dominante che non si esaurisce nell’esercizio dei poteri istituzionalmente spettanti al socio di maggioranza (compresi quelli di scelta di amministratori e sindaci) ma deve implicare - affinché vi sia direzione unitaria in senso proprio - l’accentramento, presso gli organi gestori della società controllante o di società intermedie investite di compiti direttivi, di funzioni amministrative inerenti alle diverse realtà aggregate.
Per altro verso, si è ravvisata l’attività di direzione e coordinamento nell’esercizio, da parte della capogruppo, nei confronti delle controllate, di un’influenza non soltanto assembleare, ma anche extra-assembleare di coordinamento amministrativo e finanziario, di controllo gestionale ed in definitiva di una attività di governo continua e non saltuaria. Si tratta, dunque, di un’attività volta a coordinare la politica economica e gli aspetti essenziali della gestione delle società del gruppo; la stessa potrà riguardare uno o più settori fondamentali della gestione, quale ad esempio il settore del personale, gli investimenti, le vendite e così via. Pare, quindi, sussistere un’attività di direzione in presenza di una serie rilevante di atti decisionali sistematici imposti da soggetti diversi rispetto all’organigramma interno.
Tale interpretazione potrebbe portare a individuare l’attività di Direzione e Coordinamento in capo all’ente locale soprattutto per ciò che concerne le società in house, ossia le società a capitale interamente pubblico, che abbiano i requisiti richiesti dall'ordinamento comunitario per la gestione cosiddetta “in house” e, comunque, nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria in materia di “controllo analogo” e di prevalenza dell'attività svolta dalla stessa con l'ente o gli enti pubblici che la controllano, secondo la definizione data dal comma 3 dell’art. 23 bis del D. L. 112/2008 e s.m.i.
Tuttavia, la norma dell’art. 2497 C. C. va letta alla luce delle peculiarità dell’attività della P.A. che si caratterizza per il perseguimento dell’interesse pubblico attraverso la c.d. funzione amministrativa, intesa come attività giuridica finalizzata, che si estrinseca nell’esercizio di poteri amministrativi atti a realizzare in concreto i fini pubblici individuati dal potere politico e precettivamente conferiti alla P.A., la cui organizzazione burocratica diviene, quindi, munus poiché in base ad una norma dell’ordinamento essa riceve il compito di curare un interesse altrui e, di conseguenza, il dovere giuridico fondamentale di comportarsi in modo da ottenere il miglior risultato per l’interesse pubblico.
Recentemente anche la Legge 241/90 e s.m.i., all’art. 1, comma 1-bis, nell’affermare che la Pubblica Amministrazione agisce secondo le norme di diritto privato, parrebbe sposare una tesi da tempo invalsa secondo la quale, in una prospettiva di semplificazione e snellimento, l’azione amministrativa dovrebbe incanalarsi lungo gli argini posti dal diritto privato, fermo restando il vincolo di scopo che la caratterizza.
Tuttavia non pare si possa affermare che la norma innovi rispetto al già affermato riconoscimento della capacità di diritto privato dell’Amministrazione per approdare ad un’enunciazione inequivoca e generalizzata di tale assunto, il quale risulta, al contrario, nella formulazione poi tradotta in legge, condizionato nella sua applicazione da una duplice clausola che, da un lato, ne limita l’area agli atti non autoritativi e, dall’altro, ne circoscrive la portata introducendo una possibilità di deroga ad opera della legge.
Pertanto, pur riconoscendosi in capo alla P.A. un’autonomia negoziale di carattere generale, in qualche modo alternativo all’applicazione del diritto pubblico, resta, tuttavia, inalterata la funzione amministrativa, che rimane finalizzata al miglior perseguimento dell’interesse pubblico: infatti, il richiamo all’autonomia negoziale di carattere generale concerne solo la forma, che potrà esprimersi attraverso i modelli dell’azione consensuale, quando non sia richiesta necessariamente l’adozione di atti di natura non autoritativa.
In quest’ottica occorre analizzare, per quanto concerne l’implicazione della norma civilistica dell’attività di direzione e coordinamento, quali siano le funzioni del Comune, partendo dalla formulazione dell’art. 118 Cost. e dell’affermazione del principio di sussidiarietà, per arrivare all’indicazione dell’art. 13 del T.U.EE.LL – comunque antecedente alla riforma del titolo V Cost. in quanto approvato con D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 -, che ha attribuito genericamente al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell’assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, senza dimenticare i servizi pubblici locali ex art. 113 T.U.EE.LL, oggi parzialmente abrogato, ed ex art. 23 bis del D.L. 112/2008 convertito, con modificazioni, nella Legge n.133/2008 e s.m.i.
Nell’ambito delle proprie funzioni amministrative destinate a prestare servizi o produrre beni il Comune opera in proprio o attraverso specifiche entità che possono assumere la forma di imprese pubbliche oppure di organismi di diritto pubblico.
A proposito della fattispecie dell’impresa pubblica è necessario rammentare che la “Direttiva Cee 80/723 della Commissione, relativa alla trasparenza delle relazioni finanziarie tra Stati Membri e imprese pubbliche (modificata dalla direttiva della Commissione 85/413), definisce le “imprese pubbliche”come le imprese nei confronti delle quali i pubblici poteri possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o di normativa che le disciplina”, mentre in ambito nazionale, ora l’art. 3, comma 28, del Codice dei contratti di cui al D.Lgs. n. 163/2006, recependo le definizioni comunitarie in materia, considera “pubbliche” le imprese su cui le amministrazioni aggiudicatrici possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante o perché ne sono proprietarie o perché ne detengono una partecipazione finanziaria o in virtù delle norme speciali che disciplinano tali imprese; in particolare, l’influenza dominante si può considerare presunta quando le amministrazioni aggiudicatrici detengono la maggioranza del capitale sottoscritto o controllano la maggioranza dei voti cui danno diritto le azioni emesse dall’impresa o hanno il diritto di nominare più della metà dei membri del consiglio di amministrazione, di direzione o di vigilanza dell’impresa.
La definizione di organismo di diritto pubblico, invece, trae la propria origine dalla pronuncia della Corte di Giustizia C.E., 20 settembre 1988, n. 31, che partendo da una nozione di tipo funzionale, affermava che dovesse rientrare nella nozione di Stato un ente che, pur dotato di personalità giuridica distinta, tuttavia dipendeva in modo sostanziale dai pubblici poteri, non fosse altro che per la composizione e le funzioni disciplinate dalla legge.
Oggi la definizione si trova nella Direttiva 2004/18/C.E. e recepita in ambito nazionale dal Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 63/2006 e s.m.i., art. 3 comma 26.
L’allegato III della direttiva 2004/18/CE fornisce, per ogni Stato membro, un elenco e delle categorie degli organismi di diritto pubblico e per l’Italia tra i soggetti e le categorie indicate vi sono gli Enti preposti a servizi di pubblico interesse.
Alla luce dell’art. 3 comma 26, del D.Lgs. n. 63/2006 e s.m.i. per organismo di diritto pubblico s'intende qualsiasi organismo:
a) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale;
b) dotato di personalità giuridica;
c) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico; oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi; oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico.
Quindi, mentre l’impresa pubblica indipendentemente dalla veste formale, pubblicistica o privatistica assunta, per definizione, soddisfa bisogni di interesse generale a carattere industriale o commerciale, operando secondo le regole e i meccanismi propri del mercato, con conseguente sussistenza di quegli indici, come l’agire in normali condizioni di mercato, il perseguimento di uno scopo di lucro nonché l’assunzione del relativo rischio, al contrario l’organismo di diritto pubblico si caratterizza, tra le altre cose, per una carenza di imprenditorialità sostanziale e per la ricorrenza cumulativa dei requisiti prescritti, quali il possesso della personalità giuridica, la sottoposizione ad un’influenza pubblica nonché la tipicità del fine perseguito, che è stato individuato nel soddisfacimento di bisogni di interesse generale non aventi carattere industriale e commerciale, anche se non perseguito in via prevalente dall’ente.
Pertanto, la nozione di impresa pubblica non coincide con quella di organismo di diritto pubblico e ne deriva che la normativa comunitaria sugli appalti non si applica all’impresa pubblica, stante il fatto che la medesima è normalmente sottoposta alle regole della concorrenza e dunque al funzionamento naturale dei meccanismi di mercato.
Tornando alla lettura dell’art. 2497 C.C., la norma afferma che le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, “agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei princìpi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili...”: a tal proposito la Giurisprudenza (Cass. 26/2/1990 n. 1439), ha precisato che la natura imprenditoriale della holding “non deriva dal fatto che essa svolge attività di partecipazione e di coordinamento tecnico – finanziario, in sé e per sé considerata , ma deriva dalla specifica attività di produzione e di scambio che formano oggetto delle società operanti ed il cui esercizio, in forma di controllo, è attuabile dalla capogruppo. La capogruppo, quindi, è imprenditore per il fatto di esercitare attività imprenditoriale nella sua completezza, in una fase in via diretta, in altra fase in modo mediato ed indiretto”.
Pertanto, nella holding, l’attività di direzione e coordinamento è riconoscibile perché l’interesse imprenditoriale è insito nella forma privatistica di società lucrativa: sulla base di tale principio è ovvio che laddove una società pubblica, suscettibile di essere definita impresa pubblica, si trovasse nei confronti delle altre società del proprio gruppo nella posizione di esercitare la direzione e coordinamento rientrerebbe nell’applicazione della fattispecie di cui agli artt. 2497 e ss. C.C.
Tuttavia è opportuno rilevare che la recente normativa in materia di partecipazioni pubbliche introdotta dall’art. 3, comma 27 e ss. della Legge 244/2007 - nel disporre che le Pubbliche amministrazioni non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società – intende evitare assolutamente la partecipazione in società diverse da quelle costituite e assunte per il perseguimento dei fini istituzionali e quindi in tale prospettiva la figura dell’impresa pubblica è senza dubbio destinata a sparire dall’ordinamento giuridico.
Con la decisione n. 148/09 la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sul punto ha affermato che tali limitazioni “sono appunto dirette ad evitare che soggetti dotati di privilegi svolgano attività economica al di fuori dei casi nei quali ciò è imprescindibile per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, ovvero per la produzione di servizi di interesse generale (casi compiutamente identificati dal citato art. 3, comma 27), al fine di eliminare eventuali distorsioni della concorrenza, quindi sono preordinate a scongiurare una commistione che il legislatore statale ha reputato pregiudizievole della concorrenza (sentenza n. 326 del 2008). Inoltre, esse mirano a realizzare detta finalità con modalità non irragionevoli, siccome il divieto stabilito dalle disposizioni censurate e l'obbligo di dismettere le partecipazioni possedute in violazione del medesimo non hanno carattere di generalità, ma riguardano esclusivamente i casi nei quali non sussista una relazione necessaria tra società, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche, e perseguimento delle finalità istituzionali.”
Diventa quindi interessante verificare quali siano i beni e servizi “strettamente necessari al perseguimento delle attività istituzionali”: sul punto si è espressa la Corte dei Conti sez. Veneto n. 5/09 che, nel richiamare il principio di sussidiarietà, individua un primo riferimento normativo utile nell’art. 13 del D.Lgs. 267/00 e s.m.i. che elenca le funzioni proprie del Comune legate alla “stessa struttura del bilancio dell’ente, e precisamente dalle funzioni, - che individuano in modo articolato le spese in relazione alla tipologia delle attività espletate e cioè all’oggettivo esercizio di operazioni da parte delle articolazioni organizzative dell’ente -e dai servizi - che individuano le attività che fanno capo alle varie compagini organizzative dell’ente.”, mentre un secondo riferimento diventa lo Statuto comunale, atto fondamentale dell’ente, “(che delinea i contorni dell’attività istituzionale dell’ente, come definita dalle fonti legislative), e dalle linee programmatiche di mandato (che segnano, sin dall’insediamento dell’amministrazione, le direttrici entro cui tale attività dovrà svilupparsi)”.
Si tratta sicuramente di criteri elastici, da utilizzare nella predisposizione delle deliberazioni dei consigli che, comunque, non potranno non tenere in considerazione ulteriori elementi di fatto quali l’emergere di “esigenze di ordine tecnico (ad esempio, con riferimento a beni e servizi non altrimenti reperibili nel libero mercato, o strutturalmente non erogabili direttamente dall’ente) o economico (per es., legate alla maggiore convenienza economica dell’autoproduzione del bene o servizio rispetto all’acquisizione di esso sul mercato) che depongano in favore dell’opzione societaria. Inoltre, la valutazione in ordine all’attività sviluppabile dalla società partecipata dovrà essere il risultato di un processo complesso, nel quale, seguendo il consolidato orientamento delle Sezioni regionali di controllo della Corte dei Conti, l’ente dovrà attentamente valutare i costi e i benefici dell’affidamento del servizio alla società, in termini di efficienza, efficacia ed economicità di gestione in un’ottica di lungo periodo, nonché le ricadute sui cittadini e sulla responsabilità dell’Amministrazione stessa.”.
Quindi la norma, escludendo la partecipazione in società che non siano preordinate ad attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, esclude a priori il carattere imprenditoriale non solo dell’attività della P.A. che abbia partecipazioni societarie, ma anche delle stesse società partecipate che assumano a loro volta la qualità di holding rispetto alle proprie collegate e controllate.
Tuttavia è indubbio che le società a partecipazione pubblica, almeno sotto il profilo civilistico, siano formalmente suscettibili di essere qualificate come imprese economiche, la cui definizione, non rintracciabile nel Codice Civile, è facilmente desumibile dalla definizione di imprenditore data dall’art. 2082 a norma del quale “è imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
L'impresa - diversamente dall'azienda che giuridicamente è (art. 2555) il complesso di beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa - è dunque l'attività economica esercitata dall'imprenditore in possesso di tutti i seguenti caratteri essenziali dell'impresa:
Inoltre l’art. 2088 C.C. prevede la responsabilità dell’imprenditore verso lo Stato per l’indirizzo della produzione e degli scambi, mentre l’art. 2195 C.C. elenca tra le imprese commerciali quelle che esercitano un’attività:
a) Industriale, diretta alla produzione di beni o di servizi;
b) Intermediaria, nella circolazione dei beni (-impresa commerciale- propriamente detta);
c) Di trasporto, per terra, acqua e aria;
d) Bancaria o assicurativa;
e) Ausiliaria alle precedenti,
contribuendo a definire l’ambito di applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, cioè di tutto quel complesso di norme che regola obbligatoriamente le imprese commerciali, come l’iscrizione nel Registro imprese, la tenuta della contabilità, ecc....
Infine, l’art. 2195 serve per distinguere le imprese commerciali in varie categorie in modo da poter creare degli statuti particolari ad hoc atti a regolamentare la singola categoria.
L’imprenditore commerciale è dunque obbligato all'iscrizione nel Registro Imprese ed è obbligato alla tenuta delle scritture contabili.
È corretto evidenziare che sotto il profilo prettamente civilistico sono obbligati all’iscrizione le imprese commerciali di cui all’art. 2195, le società commerciali, le società cooperative, anche se non hanno un’attività commerciale, gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale.
Se questi sono gli elementi essenziali per la definizione dell’imprenditore e conseguentemente per qualificare l’attività come imprenditoriale sotto il profilo civilistico non si può escludere, almeno formalmente, che la società a partecipazione pubblica sia un’impresa e al contrario, sotto il profilo amministrativistico, l’attività industriale, diretta alla produzione di beni o di servizi, e l’attività commerciale, diretta alla circolazione dei beni, non possono assumere carattere imprenditoriale in quanto esplicate per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale: quindi, al di là della forma assunta, le società in questione non possono essere considerate imprese economiche in senso stretto, in quanto non svolgendo attività prettamente imprenditoriale non possono, nel caso in cui abbiano la natura di capogruppo, esercitare la direzione e coordinamento sulle proprie controllate e collegate.
Esclusione dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento in capo all’Ente Pubblico.
Sulla base di tale presupposto a maggior ragione l’ente pubblico non può esercitare la direzione e coordinamento sulle società partecipate.
In dottrina si è affermato, pur ritenendo improponibile l’azione ex art. 2497, che tale fattispecie sia ravvisabile soprattutto nel caso in cui l’ente eserciti il c.d. controllo analogo necessario per gli affidamenti in house.
Appare necessario evidenziare che, tra gli strumenti giuridici e gestionali da adottarsi sotto il profilo societario e pubblicistico per concretizzare il requisito del “controllo analogo”, vanno considerati Statuto, Poteri dell’Assemblea, Nomina e poteri degli amministratori, Governance delle aziende partecipate alla luce del nuovo diritto societario e la funzione del contratto di servizio ai fini dell’esercizio del controllo analogo, mentre il modello in house è un modello organizzativo in cui la P.A. si avvale di propri organismi appartenenti all’organizzazione amministrativa che fa loro capo una sorta di amministrazione “indiretta”, nella quale la gestione del servizio, in un certo senso, resta saldamente nelle mani dell’ente concedente, attraverso un controllo assoluto sull’attività della società affidataria la quale, a sua volta, è istituzionalmente destinata in modo assorbente a operazioni in favore di questo: tale concetto è stato sostanzialmente ribadito dalla Corte di giustizia europea, Sez. II, 17/7/2008 n. C-371/05 29 e Sez. III, 10/9/2009 n. C-573/07.
Probabilmente nell’attribuire in capo agli enti pubblici locali l’attività di direzione e coordinamento nei confronti delle proprie società a totale partecipazione pubblica ed in possesso dei requisiti dell’in house ci si è richiamati alla comunicazione 26 giugno 2002 della Commissione Europea che in materia di controllo analogo ha dichiarato “affinché tale tipo di controllo sussista non è sufficiente il semplice esercizio degli strumenti di cui dispone il socio di maggioranza secondo le regole proprie del diritto societario” occorre verificare che l’amministrazione controllante eserciti “un assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato e che riguarda l’insieme dei più importanti atti di gestione del medesimo”.
Tuttavia, non sarebbe comunque corretto attribuire alle parole un significato ulteriore rispetto a quello richiesto: infatti la direzione e coordinamento di cui all’art. 2497 C.C. non assume lo stesso significato dell’affermazione della Commissione Europea, tra l’altro antecedente, alla riforma societaria.
Tralasciando l’analisi del controllo analogo, in quanto non è specifico oggetto del presente provvedimento, proprio con riferimento alla fattispecie dell’in house non si comprende quale sia la ratio dell’applicazione della norma, atteso che la società deve essere, tra l’altro, a totale partecipazione pubblica e dunque: totalmente partecipata da un ente pubblico ed in tal caso non vi saranno soci di minoranza da tutelare oppure totalmente partecipata da più enti pubblici, alcuni dei quali assumeranno la qualità di socio di minoranza che, però, devono esercitare congiuntamente il controllo analogo e quindi non possono essere sottoposti all’influenza dominante del socio di maggioranza della società partecipata, altrimenti verrebbe meno la stessa fattispecie dell’in house: non si può, dunque, affermare l’esistenza di divergenza tra gli interessi dell’ente e quelli della società partecipata.
Quindi, sotto il profilo della tutela per il pregiudizio di redditività e di valore della partecipazione sociale arrecato agli altri soci delle società assoggettate, proprio a causa della mancanza di divergenza di interessi, non si comprende quale sia l’utilità di affermare l’esistenza della direzione e coordinamento nei confronti delle società in house.
Analogamente, non si comprende a quali fini si possa affermare l’esistenza della direzione e coordinamento nei confronti delle società in house sotto il profilo della tutela per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio delle società assoggettate risentita dai creditori di queste società: infatti dei debiti della società risponde sempre l’Ente locale, atteso che l’art. 194, comma 1 lett. c) T.U.EE.LL. prevede il riconoscimento dei debiti fuori bilancio per le ricapitalizzazioni di società di capitali costituite per l’esercizio dei servizi pubblici locali.
Un ulteriore approfondimento merita la fattispecie della società mista pubblico – privata per la gestione dei servizi pubblici locali, rispetto alla quale il comma 2 lett. b) dell’art. 23 bis del D.L. 112/2008 e s.m.i. richiede che al socio privato sia ceduta la quota di almeno il 40% del capitale sociale, rispetto all’esigenza di tutelare i soci privati di minoranza.
Si rammenta che in questo caso, nonostante il disinteresse della Dottrina che si è limitata ad affermare la direzione e coordinamento nei confronti della società in house, potrebbe aver senso tutelare il socio privato di minoranza laddove questi si trovasse a subire gli indirizzi dell’ente pubblico socio di maggioranza: ciononostante è opportuno rammentare che nella disciplina dell’affidamento di servizi pubblici questi soci assumono la qualità di socio operativo industriale, il cui apporto - secondo la Comunicazione interpretativa sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI) del 5 febbraio 2008 n. C(2007)6661 della Commissione Europea - “consiste, a parte il conferimento di capitali o altri beni, nella partecipazione attiva all'esecuzione dei compiti assegnati all'entità a capitale misto e/o nella gestione di tale entità”: in tale ipotesi dunque il partner privato è selezionato nell'ambito di una procedura trasparente e concorrenziale, che ha per oggetto sia l'appalto pubblico o la concessione da aggiudicare all'entità a capitale misto, sia il contributo operativo del partner privato all'esecuzione di tali prestazioni e/o il suo contributo amministrativo alla gestione dell'entità a capitale misto. Quindi ben potrebbe il socio privato di minoranza avere stringenti poteri di gestione della società in virtù di specifiche attribuzioni (ad es. l’attribuzione della nomina a favore del socio privato dell’Amministratore Delegato oppure attraverso la previsione di quorum assembleari di decisione superiori al 51%).
Diversa potrebbe essere, ancora, la fattispecie in cui si sia in presenza di una società mista pubblico – privata non riconducibile al PPPI della Comunicazione summenzionata, bensì alla fattispecie del socio privato finanziatore al quale è richiesto esclusivamente l’apporto di capitali: in tal caso non potrebbe escludersi la responsabilità della P.A. nel caso di danno da depauperamento al socio privato, nei limiti della mancanza dell’esercizio dell’attività imprenditoriale da parte della P.A. stessa.
A proposito delle società miste si è rilevato che l’interesse pubblico perseguito dall’Ente che assume la partecipazione nella società costituisce causa del contratto che in tal modo diviene duplice: scopo di lucro e perseguimento dell’interesse pubblico, sostenendo che l’interesse pubblico integri comunque l’interesse sociale, arrichendolo di ulteriori finalità non necessariamente coincidenti con quelle degli azionisti privati.
In ogni caso in virtù della novella normativa in materia di assunzione, costituzione e mantenimento delle partecipazioni societarie si può continuare ad escludere, almeno per il futuro, che possa parlarsi di direzione e coordinamento nei confronti delle società miste sempre per la mancanza di interesse imprenditoriale della stessa società mista a partecipazione maggioritaria dell’Ente, suscettibile di rientrare nella definizione di organismo di diritto pubblico, piuttosto che in quella di impresa pubblica.
Le stesse considerazioni possono essere fatte per le società strumentali di cui all’art. 13 del D.L. 223/2006 converito in Legge n. 248/2206 c.d. D.L. Bersani relativamente alle “società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti”, alle quali è stato imposto di “operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti”, non potendo “svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara” e nemmeno “partecipare ad altre società od enti”.
Un altro elemento utilizzato dalla dottrina per attribuire l’attività di direzione e coordinamento in capo all’Ente pubblico è l’esistenza di contratti di servizio con le proprie partecipate richiamando la disciplina in un primo tempo contenuta nell’art. 2497 sexies comma 2, poi abrogato, ed ora contenuta nell’art. 2497 septies.
In realtà, le previsioni sono sostanzialmente diverse in quanto la disciplina civilistica si riferisce ai contratti in forza dei quali la capogruppo viene a svolgere direttamente le attività relative a servizi amministrativi, tecnici o gestionali a favore delle società controllate, mentre il contratto di servizio tra l’Ente pubblico e le proprie partecipate vede come soggetto regolatore l’ente pubblico, mentre il soggetto erogatore è la società affidataria che deve effettuare le proprie prestazioni a favore degli utenti.
A riprova della volontà di risolvere il problema in merito all’attività di direzione e coordinamento con riferimento ai “gruppi pubblici” il D.L. 78/09 c.d. Decreto anticrisi all’art. 19 comma 6, disponendo l’interpretazione autentica dell’art. 2497 C.C., recita “L’art. 2497, primo comma del codice civile si interpreta nel senso che per enti si intendono i soggetti giuridici collettivi, diversi dallo Stato, che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria”, escludendo espressamente dall’applicazione della norma lo Stato (presupposto soggettivo), mentre lascia aperto il problema per gli altri soggetti giuridici collettivi che detengono la partecipazione sociale nell’ambito della propria attività imprenditoriale ovvero per finalità di natura economica o finanziaria.
In questo contesto quindi, si tratta, cioè, di capire se nel riferimento agli “enti” dell’art. 2497 c.c. rientrano anche gli enti pubblici economici. Com’è noto, l’attività imprenditoriale esercitata in via principale è riferibile solo a quegli enti pubblici per i quali l’esercizio di attività economiche costituisce l’oggetto esclusivo o principale della propria finalità istituzionale: ciò si verifica nei cosiddetti “enti pubblici economici” dove l’esercizio di tale attività costituisce oggetto principale od esclusivo (art. 2093 comma 1 ed art. 2201 C.C.) ma non negli “enti pubblici territoriali”, i quali, come più volte sopra affermato, perseguono interessi pubblici privi del carattere dell’imprenditorialità.
Relativamente all’attività imprenditoriale se ne è già affermata l’esclusione per le Pubbliche Amministrazioni in generale e per il Comune in particolare, nonché per le società partecipate che non possono assumere la qualità di impresa economica, come ribadito anche dalla novella normativa in materia di assunzione, costituzione e mantenimento delle partecipazioni societarie.
Problemi interpretativi possono, invece, porsi circa le “finalità di natura economica o finanziaria” intendendosi per natura economica la capacità di conseguire ricavi superiori ai costi e per natura finanziaria la capacità di lucrare rendite finanziarie.
Relativamente a tale ultimo profilo è necessario rilevare che il Comune di Torino, nell’ambito della partecipazione a società strumentali che non rientrano necessariamente nei limiti dell’art. 13 del D. Legge Bersani, opera anche attraverso società finanziarie e di riscossione dei tributi: ma anche in tali casi si tratta di strumenti utilizzati per il perseguimento delle finalità pubbliche rientranti esclusivamente nella funzione amministrativa dell’ente e, come le altre società a partecipazione pubblica, anche tali società sono soggette ai limiti imposti dalla normativa in materia: ci si riferisce al divieto dell’extra moenia, cioè alla impossibilità di operare al di fuori del territorio dell’ente di pertinenza, oppure alle regole e limiti per le assunzioni nelle società di cui all’Art. 18 del D.L. 112/2008, convertito in Legge 133/2008, e s.m.i. che recita “A decorrere dal sessantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto-legge, le società che gestiscono servizi pubblici locali a totale partecipazione pubblica adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’art. 35 D.Lgs. 165/2001.
Le altre società a partecipazione pubblica totale o di controllo adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi, anche di derivazione comunitaria, di trasparenza, pubblicità e imparzialità.
Le disposizioni in oggetto non si applicano alle società quotate su mercati regolamentati”.
Il successivo comma 2-bis (introdotto dall'art. 19, comma 1, D.L. 78/2009) recita Le disposizioni che stabiliscono, a carico delle amministrazioni divieti o limitazioni alle assunzioni di personale si applicano, in relazione al regime previsto per l’amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, ovvero che svolgano funzioni volte a soddisfare esigenze di interesse generale aventi carattere non industriale né commerciale, ovvero che svolgano attività nei confronti della Pubblica Amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica inserite nel conto economico consolidato della P.A., come individuate dall’ISTAT ai sensi del comma 5 dell’ articolo 1 Legge 311/2004. Le predette società adeguano inoltre le proprie politiche di personale alle disposizioni vigenti per le amministrazioni controllanti in materia di contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitaria e per consulenze. Con D.M., da emanare entro il 30 settembre 2009, sono definite le modalità e la modulistica per l’assoggettamento al patto di stabilità interno delle suddette società”.
Inoltre, occorre considerare che vige, altresì, la giurisdizione della Corte dei Conti sulle società a partecipazione pubblica: con riguardo a tale ultimo aspetto però recentemente la Corte di Cassazione (Sentenza Cass. S.U. 19 dicembre 2009, n. 26806) ha affermato che è esclusa la giurisdizione contabile nel caso di responsabilità degli amministratori di società di diritto privato partecipate dall’ente pubblico, la cui disciplina resta quella degli artt. 2392 C.C. e ss., mentre rientra nella giurisdizione della Corte dei Conti l’azione di responsabilità per il danno arrecato all’immagine dell’ente da organi della società partecipata, anche se non si tratta di danno che comporta apparentemente una diminuzione patrimoniale alla P.A., è comunque suscettibile di una valutazione economica finalizzata al ripristino del bene giuridico leso.
Tali limiti, per le società a partecipazione pubblica operanti nei servizi pubblici locali di rilevanza economica, sono riassunti nell’art. 23-bis, comma 10, del D.L. 112/2008 e s.m.i. che rimanda all’emanazione di uno o più regolamenti al fine di prevedere, tra le altre cose, l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e l’osservanza da parte delle società in house e delle società a partecipazione mista pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e servizi e l’assunzione di personale, così da profilare, al termine della c.d. privatizzazione formale , il ritorno della pubblicizzazione attraverso l’introduzione di un modello che, sempre di più, si avvicina a quello dell’azienda speciale.
Il regolamento di attuazione dell’art. 23 bis si è formalizzato nel D.P.R. 168/2010 prevedendo, tra l’altro:
- (Art. 5) l’assoggettamento al Patto di stabilità interno degli affidatari «in house» di servizi pubblici locali ai sensi dell'articolo 23-bis, commi 3 e 4 demandando agli enti locali la vigilanza sull'osservanza, da parte di tali soggetti partecipati dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno;
- (Art. 6) l’assoggettamento alle disposizioni del codice dei contratti per l'acquisto di beni e servizi da parte delle società «in house» e delle società a partecipazione mista pubblica e privata, affidatarie di servizi pubblici locali;
- (Art. 7) l’assoggettamento al rispetto dei principi di cui al comma 3 dell'articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. in merito all’assunzione di personale da parte delle società«in house» e delle società miste, con la sola eccezione delle società quotate in borsa.
A proposito dell’assoggettamento al patto di stabilità è, tuttavia, opportuno rilevare che recentemente la Corte Costituzionale nell’esprimersi in merito alla questione di legittimità dell’art. 23 bis da parte di alcune Regioni, tra cui la Regione Piemonte, ha dichiarato l’incostituzionalità della prima parte della lett. a) del c. 10 dell'art. 23-bis del D.L. n. 112 del 2008, nella parte in cui prevede che la potestà regolamentare dello Stato prescriva l'assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno. L'ambito di applicazione del patto di stabilità interno attiene infatti alla materia del coordinamento della finanza pubblica, di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l'art. 117, c. 6, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare.
Un ulteriore problema che non risulta affrontato dalla dottrina è quello relativo alle società a totale partecipazione pubblica che risultino aggiudicatarie della “prima gara” e che quindi, affrancate dall’in house, possono partecipare a gare extraterritoriali per le quali sicuramente continuano ad operare le norme sulle regole per la selezione dei dipendenti a norma dell’art. 18 comma 1 del D.L. 112/2008 e s.m.i., mentre non valgono le norme costituenti limite alle assunzioni di cui al comma 1 bis del medesimo art. 18.
A proposito dell’extraterritorialità è necessario chiedersi se la possibilità di partecipare a gara fuori dal territorio dell’ente di appartenenza possa essere considerata un’apertura al mercato, nel senso che l’attività di produzione ed erogazione di servizi pubblici possa continuare ad essere limitata al perseguimento dell’interesse pubblico sotteso all’ente di appartenenza, oppure se una volta che l’attività sia rivolta ad un soggetto effettivamente terzo l’attività divenga a tutti gli effetti imprenditoriale.
L’esperienza futura relativa alle effettuande gare provvederà a dare risposte a questo ed altri quesiti.
Se dunque si può escludere che le società partecipate, nel caso in cui siano esse stesse holding di un gruppo, possano esercitare l’attività di direzione e coordinamento, a maggior ragione non può ravvisarsi, quindi, come l’Ente Pubblico ed in particolare il Comune possa agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui, stante la finalità prettamente istituzionali dell’ente pubblico territoriale, tenuto al perseguimento dell’interesse pubblico nell’ambito dei propri fini istituzionali e delle proprie funzioni al fine di soddisfare bisogni generali dei consociati.
Infatti, se è vero che il Comune è un’Azienda, definita in base alla teoria economica, come una qualunque organizzazione che combina un determinato insieme di risorse (input) per fornire un determinato insieme di prodotti o servizi (output) destinati a soddisfare i bisogni di determinati soggetti (outcome), è, altresì, vero che il concetto di Azienda non coincide con il concetto di Impresa, mancando per l’Azienda una serie di elementi quali il sistema dei prezzi, la concorrenza di mercato, lo stimolo al profitto ed, infine, la minaccia del fallimento.
Questa precisazione recepisce la distinzione, di matrice comunitaria, tra attività di impresa e tutto ciò che costituisce missione di interesse generale, nonché il carattere strumentale, rispetto alle finalità istituzionali, dello strumento societario.
Oltre alla mancanza del carattere imprenditoriale dell’Ente locale un'altra considerazione porta ad escludere che l’ente locale possa esercitare attività di direzione e coordinamento, ai sensi delle disposizioni del codice civile, sulle proprie società: le presunzione di cui all’art. 2497 sexies, a norma del quale si presume, salvo prova contraria, che l’attività di direzione e coordinamento di società sia esercitata dalla società o dall’ente tenuto al consolidamento dei loro bilanci o che comunque le controlla ai sensi dell’art. 2359 C.C.
Orbene il vigente T.U.EE.LL. non dispone l’obbligo di redigere il bilancio consolidato per l’Ente Locale, ma solo la facoltà prevista dall’art. 230 D.Lgs. 267/2000 e s.m.i.
Tuttavia, anche in tema di consolidamento di bilanci vi è da fare una precisazione: è, infatti, allo studio del Legislatore il c.d. D.D.L. Calderoni che, tra le altre previsioni, impone l’obbligo di redazione del bilancio consolidato per l’Ente locale: una tale previsione, legata solamente al dato letterale del bilancio consolidato senza verificare le implicazione che comporta il consolidamento dei bilanci soprattutto per le società soggette, potrebbe indubbiamente alimentare ulteriormente la dottrina che comprende tra i soggetti attivi dell’attività di direzione e coordinamento anche gli enti pubblici.
Consolidare i bilanci significa esporre la situazione patrimoniale-finanziaria ed il risultato economico di un gruppo di imprese, viste come "un'unica impresa". Il bilancio consolidato supera il diaframma rappresentato dalle distinte personalità giuridiche delle singole imprese. Esse vengono, di fatto, assimilate a divisioni o filiali di un'unica grande società. Il bilancio consolidato consente di:
• sopperire alle carenze informative e valutative dei bilanci d'esercizio delle società che detengono rilevanti partecipazioni di maggioranza; esso infatti è lo strumento informativo primario di dati patrimoniali, economici e finanziari del "Gruppo", sia verso i terzi che verso gli stessi azionisti della controllante. In questo senso è parte del controllo di gestione;
• ottenere la visione complessiva della situazione patrimoniali-finanziarie del gruppo e delle sue variazioni, incluso il risultato economico;
• misurare i risultati economici dell'entità economica unica "Il Gruppo" eliminando gli utili "infragruppo" non ancora realizzati nei confronti di terzi;
• eliminare tutte le appostazioni operate esclusivamente in applicazione di norme tributarie.
Il bilancio consolidato costituisce quindi lo strumento per poter comprendere la realtà reddituale, patrimoniale e finanziaria del gruppo inteso come entità diversa dalle singole società che lo compongono. Infatti, le imprese legate da vincoli partecipativi, in quanto operanti nell'ambito di un gruppo economico, conservano la loro autonomia giuridica, ma subiscono una più o meno rilevante influenza nella gestione economica. Sotto il profilo operativo, il Gruppo agisce di fatto come entità economica costituita da una pluralità di soggetti giuridici e da un unico soggetto economico.
Nel caso delle società pubbliche e del c.d. gruppo pubblico l’obbligo di consolidare i bilanci, invece, andrebbe letto alla luce della tendenza ad un ritorno alla pubblicizzazione delle società in questione al fine di contenere i costi della spesa pubblica, come si può evincere anche dalla recente manovra correttiva del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazione, dalla Legge 30 luglio 2010, n. 122, intitolato "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica".
Proprio per tale motivo si ritiene che, ciononostante, la prospettiva in merito all’esclusione dell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento da parte dell’ente locale sulle proprie società partecipate e, a loro volta, da parte delle società pubbliche sulle proprie controllate non possa cambiare, a causa della persistente mancanza di ogni riferimento al carattere imprenditoriale dell’attività svolta dalle società pubbliche ed all’assenza di mercato in cui si trovano ad operare dette società.
Da ultimo merita attenzione la normativa in tema di fallimento e concordato preventivo, a conferma sempre dell’esclusione degli enti pubblici dal novero dei soggetti qualificabili come “imprenditori” e quindi soggetti esclusi dall’applicazione dell’art. 2497.
L’articolo 1 della Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n.267 come modificata dal D.Lgs. 16 settembre 2007 n.169), dispone, infatti, “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano un'attività commerciale, esclusi gli enti pubblici”: ciò in linea con l’art. 2221 C.C. che recita “Gli imprenditori che esercitano un’attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e i piccoli imprenditori, sono soggetti, in caso di insolvenza, alle procedure del fallimento e del concordato preventivo, salve le disposizioni delle leggi speciali”. Detta disposizione conferma, quindi, quanto sopra affermato in merito all’esclusione del carattere “imprenditoriale” dell’ente locale.
Inoltre, si consideri che gli enti locali non rientrano nemmeno nei soggetti individuati dalle leggi speciali, quali destinatari della procedura concorsuale della liquidazione coatta amministrativa (art. 2 Legge Fallimentare “1) La legge determina le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa, i casi per le quali la liquidazione coatta amministrativa può essere disposta e l’autorità competente a disporla. 2) Le imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa non sono soggette al fallimento, salvo che la legge diversamente disponga.”).
Agli enti locali, infatti si applica l’istituto del dissesto finanziario, introdotto per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano con l’articolo 25 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144 e poi riformato con il decreto legge 18 gennaio 1993, n. 8 convertito con modificazioni dalla legge 19 marzo 1993, n. 68, nonché dal D.Lgs. n. 77/1995, e s.m.i., dal D.Lgs. n. 336/1996, e dai Decreti Legislativi n. 342/1997 e n. 410/1998.
Le varie modifiche apportate nel corso degli anni alla procedura del risanamento finanziario degli enti locali sono state finalizzate ad avvicinare il dissesto alle procedure concorsuali di natura civilistica, anche se nella disciplina di cui trattasi le finalità sono diverse da quella, ad esempio del fallimento, in cui domina l’esigenza di attuare la parità di trattamento fra i creditori.
Nel caso del dissesto, invece, pur essendo sentita l’esigenza di tutelare i creditori dell’ente occorre sempre considerare la necessità di assicurare al Comune la continuità di esercizio delle proprie finalità istituzionali e dei servizi dallo stesso garantiti a favore dei cittadini: pertanto, gli squilibri economici finanziari che hanno causato lo stato di crisi dell’ente, non possono portare ad una forzata cessazione della sua attività. A tale riguardo si può comunque affermare che la procedura concorsuale che più si avvicina al dissesto è quella della liquidazione coatta amministrativa la quale è finalizzata allo scopo, valutato come di preminente interesse pubblico, di eliminare dal mercato l’impresa dissestata a differenza del fallimento che ha altra finalità.
Attualmente la normativa sul dissesto finanziario è stata trasfusa nel titolo VIII della parte II dell’Ordinamento finanziario e contabile del Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali (D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e s.m.i.).
Sorge, infine, un ultimo dubbio ovvero se le società pubbliche partecipate dall’ente locale siano assoggettabili alla disciplina del fallimento e del concordato preventivo e se quindi siano da considerarsi “imprenditori”.
Al riguardo, la Giurisprudenza Amministrativa, in più pronunce, ritiene che la veste formale societaria “si presenta come modulo per rendere l’attività economica più efficace e più funzionale, fermo restando che l’impresa mantiene sotto molteplici profili uno spiccato rilievo pubblicistico” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 20/05/1995 n. 494). E ancora, “...il fenomeno dell’azionariato pubblico e, più in generale, della costituzione di società lucrative da parte della P.A., non si radica esclusivamente nella disciplina di diritto comune, ma presenta aspetti di diritto speciale, connessi al fatto che l’amministrazione, nella sua veste di azionista di una società formalmente di diritto civile, non può che indennizzare le attività societarie a fini di interesse pubblico generale, che fanno assumere alle stesse attività i caratteri della funzione amministrativa e valenza oggettivamente pubblicistica” (Consiglio di Stato. sez. II, 20/06/2001 parere n. 1428/2000).
Si aggiunga la sentenza del Consiglio di Stato - Sez. VI, n. 1303/2002 secondo cui “una società è da considerarsi pubblica quando sussistono regole di organizzazione e funzionamento che, oltre a costituire una consistente alterazione del modello societario tipico (comprendendo una compressione delle autonomie funzionale e statutaria degli organismi societari), rivelino, al tempo stesso, la completa attrazione nell’orbita pubblicistica dell’ente societario”.
Sulla stessa direzione, illuminante appare anche la sentenza della Cassazione penale (Cass. Pen. Sez. V, 14/04/1980) secondo cui, “Il momento d’individuazione della natura pubblica di un ente non va ricercato negli scopi da esso perseguiti (dal momento che mentre alcuni enti privati perseguono finalità cui tende lo Stato stesso, come quelle relative all’istruzione e al credito, quest’ultimo, a sua volta, interviene frequentemente in concorrenza con i privati in attività di natura privatistica, come nel campo dell’economia e della produzione), ma nel regime giuridico dello stesso nonché nella sua collocazione istituzionale in seno all’organizzazione statale, come organo ausiliario necessario al raggiungimento di finalità di interesse generale e, in quanto tale, dotato di poteri e prerogative analoghi a quelli dello Stato e assoggettato ad un intenso sistema di controlli pubblici”.
A livello comunitario nel Regolamento C.E. 2223/96 del Consiglio, in data 25 giugno 1996, relativo al sistema europeo dei conti nazionali e regionali nella comunità (8SEC 95) si ritrova una precisa nozione di Amministrazione Pubblica (seppur al limitato fine della disciplina settoriale esaminata), laddove è precisato che sono da considerare Amministrazioni Pubbliche “tutte le unità istituzionali che agiscono da produttori di beni e servizi non destinati alla vendita, la cui produzione è destinata a consumi collettivi e individuali ed è finanziata in prevalenza da versamenti obbligatori effettuati da unità appartenenti ad altri settori e/o tutte le unità istituzionali la cui funzione principale consiste nella ridistribuzione del reddito e delle ricchezze del paese”.
Alla luce di quanto sopra detto, deve considerarsi ente pubblico, pertanto, qualsiasi soggetto che indipendentemente dalla forma giuridica assunta utilizzi in prevalenza per lo svolgimento dell’attività per cui è costituito risorse pubbliche, anziché private. Ne consegue che, anche a livello europeo, al fine di individuare la natura di un ente non è rilevante la forma giuridica che viene data al medesimo, ma le risorse che utilizza per lo svolgimento della sua attività.
Quindi, anche con riferimento alla normativa speciale in materia di fallimento e procedure concorsuali, si ritiene di confermare l’esclusione degli enti pubblici locali e delle loro società partecipate dall’applicazione dell’attività di direzione e coordinamento ex art. 2497 C.C.
Tuttavia allo stato attuale la normativa esistente induce a ritenere che non si possa parlare di direzione e coordinamento nei confronti delle società partecipate dall’ente locale, ferma restando la precisazione a livello di obblighi pubblicitari di dichiarare tutti i casi in cui la Città di Torino è socio unico della società e fatta salva la possibilità di rivedere le conclusioni derivanti dalla trattazione del presente provvedimento alla luce di nuove considerazioni scaturenti da sopravvenienze normative.
Tutto ciò premesso,

LA GIUNTA COMUNALE

Visto che ai sensi dell’art. 48 del Testo Unico delle leggi sull’Ordinamento degli Enti Locali, approvato con D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, la Giunta compie tutti gli atti rientranti, ai sensi dell’art. 107, commi 1 e 2 del medesimo Testo Unico, nelle funzioni degli organi di governo che non siano riservati dalla Legge al Consiglio Comunale e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo Statuto, del Sindaco o degli organi di decentramento;
Dato atto che i pareri di cui all’art. 49 del suddetto Testo Unico sono:
favorevole sulla regolarità tecnica;
viene dato atto che non è richiesto il parere di regolarità contabile, in quanto il presente atto non comporta effetti diretti o indiretti sul Bilancio;
Con voti unanimi, espressi in forma palese;

D E L I B E R A

1) di ritenere, per le motivazioni espresse in narrativa e che qui integralmente si richiamano, che non sussista la fattispecie dell’attività di direzione e coordinamento ai sensi dell’art. 2497 C.C. e ss. da parte della Città di Torino nei confronti delle seguenti società:
- AFC S.p.A.;
- Infratrasporti s.r.l.;
- AMIAT S.p.A.;
- GTT S.p.A.;
- TRM S.p.A.;
- SMAT S.p.A.;
- Farmacie Comunali Torino S.p.A.;
- SORIS S.p.A.;
- FCT S.p.A.;
- CCT s.r.l.;
- FSU s.r.l.;
- VIRTUAL REALITY & MULTI MEDIA PARK S.P.A.;
- C.A.A.T. S.C.P.A.;
- GARIBALDI S.C.P.A.;
- BORGO DORA S.C.P.A.;
- 5T s.r.l.;
2) di dare mandato, ove le società stesse non vi avessero già provveduto, alle seguenti società: AFC S.p.A., Infratrasporti s.r.l., AMIAT S.p.A., GTT S.p.A., SORIS S.p.A., FCT S.p.A., CCT s.r.l., di inserire dopo la ragione sociale a fini di pubblicità la dicitura “società a socio unico Città di Torino”;
3) di dichiarare, attesa l'urgenza, in conformità del distinto voto palese ed unanime, il presente provvedimento immediatamente eseguibile ai sensi dell'art. 134, 4° comma, del Testo Unico approvato con D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267.


Il Vicesindaco
Tommaso Dealessandri



Si esprime parere favorevole sulla regolarità tecnica.

La Dirigente
Gabriella Delli Colli



In originale firmato:


IL VICESINDACO IL SEGRETARIO GENERALE
Tommaso Dealessandri Mauro Penasso
____________________________________________________________________________



ATTESTATO DI PUBBLICAZIONE E DI ESECUTIVITÀ

La presente deliberazione:

1° ai sensi dell’art. 124, 1° comma, del Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli EE.LL. (Decreto Legislativo 18.8.2000 n. 267) è pubblicata all’Albo Pretorio del Comune per 15 giorni consecutivi dal 7 maggio 2011 al 21 maggio 2011;

2° ai sensi dell’art. 134, 3° comma, del Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli EE.LL. (Decreto Legislativo 18.8.2000 n. 267) è esecutiva dal 17 maggio 2011.