Monica
Carocci è stata una delle prime artiste italiane a usare la fotografia
come unico
mezzo espressivo. Il suo immaginario, evanescente e offuscato, è
caratterizzato da vedute
suburbane dove s’intravedono particolari anonimi di periferie cittadine:
strade, cartelli
della segnaletica autostradale, lampioni, pompe di benzina, che aªorano
da atmosfere
grigie, prive di contorni.
Le foto, volutamente realizzate con sfocature e poca precisione tecnica,
sono stampate a
mano in bianco e nero, in copia unica. Sulla carta da stampa l’artista
interviene con strappi
e tagli, cancellando, bruciando, graffiando l’immagine e, in un certo
senso, “dipingendo”
la carta con gli acidi da stampa che creano aloni, bollicine e viraggi
cromatici. Questi
originali vengono poi rifotografati e ingranditi per essere esposti. Per
la Carocci, l’uso del
mezzo fotografico include quindi l’errore, la casualità e
sembra voler ricreare i danni dovuti
alle intemperie e allo scorrere del tempo che abrade la nostra memoria.
Così facendo
sfida il tradizionale concetto di bello e di “fotografabile”,
collocandosi in una dimensione
estetica umbratile basata sul suggerire, sull’evocare.
Norma Mangione
“...Stiamo
entrando nell’era
delle griglie di sicurezza e degli
spazi difendibili. E sono le
telecamere di sorveglianza a
organizzare le nostre vite.
La gente chiude le porte e
spegne il proprio sistema
nervoso”.
James G. Ballard
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