A Don Giuseppe Livatino

Mi chiamo Domenico Pace,

sono nato a Palma di Montechiaro il 27 dicembre del 1966. Mi trovo attualmente recluso nel supercarcere di Sulmona con una condanna all’ergastolo a vita per l’omicidio del giudice Rosario Livatino.

Avevo 23 anni quando sono stato arrestato e trascinavo giornate mediocri e banali.

La mia vita da pastore era fatta di solitudine e pochi sentimenti, con la natura a farmi compagnia durante il giorno ma con pochi contatti umani e scarse possibilità di essere aiutato a crescere umanamente.

Ancora oggi coltivo il ricordo della maestra Gina. Una figura buona che allora mi ha dato l’aiuto che poteva darmi, perfino coprendo i miei ritardi e le continue assenze. A fine lezioni, quando i miei compagni andavano a casa, lei restava con me ad insegnarmi a leggere e a scrivere. Solo per merito suo ho frequentato la V elementare. Questo ero io, un ragazzo vuoto senza vere motivazioni. Sono qui a scrivere questa lettera perché credo sia giunto il momento di dirvi con sincerità chi ero e chi penso di essere oggi.

Quando erano in vita i genitori del Giudice ho pensato tante volte di chiedere loro il perdono, ma non sono riuscito a farlo. Chi come me è destinato al carcere a vita, dunque alla “morte in vita”, cerca di trovare la pace e io in questi anni l’ho sempre cercata. Ogni anno pensavo al passato e sentivo una confusione di sentimenti e pensieri ai quali non riuscivo a dare né un ordine né un significato. Mi sono odiato. È stato insopportabile. Ma non ho mai evitato di confrontarmi con me stesso. Mi sono guardato dentro con la lente d’ingrandimento per cercare tutti i chiaro-scuri del mio animo. Ho provato dolore, tanto dolore, ma a un certo punto inaspettatamente ho provato un poco di serenità. È accaduto quanto il bene e il male che prima dentro di me si mischiavano, pian piano si sono distinti e chiariti per quello che sono e la coscienza è diventata di molte sfumature di colori diversi. Nei primi tempi erano assai scuri e man mano si sono schiariti e precisati. Mi sono così liberato dal peso più grande delle mie colpe e mi sono sentito in pace.

Ecco perché ora sono qui a chiedere il vostro perdono. Lo faccio inginocchiandomi davanti a voi, strisciando ai vostri piedi.

Se lo farete vi guarderò con gli occhi pieni di gratitudine perché mi avrete liberato dal resto del peso. Faccio mie esortandovi le parole di Gesù: Perdona il fratello che ha sbagliato, settanta volte sette, cioè sempre. E quelle di Benedetto XVI  Perdonare è un dono di Dio e non è ignorare, ma trasformare.

La fede mi aiuta a sperare che il Giudice Rosario Livatino mi abbia perdonato.

Che sia presto Beato!

Non so se posso osare di dire che offro la mia testimonianza nel processo di Beatificazione. Credetemi, lo sento vicino, ogni istante è con me e mi aiuta a vivere con forza d’animo la pensa infinita che sto scontando.

 

AS-1 Carcere di Sulmona

Sulmona, 7 maggio 2015