(articolo dal settimanale “L’essenziale”, a cura di Giulia Siviero e Maria Edgarda Marcucci – 14.09.2022)
Il 24 agosto hanno cominciato uno sciopero della fame a staffetta. Chiedono una riforma promessa da tempo, denunciano il sovraffollamento delle strutture e il silenzio dei partiti in campagna elettorale
“Qui dentro non abbiamo piante da coltivare, ma coltiviamo la rabbia”. È con questa rabbia, ci spiegano le donne recluse nel braccio femminile del carcere Le Vallette – “le ragazze di Torino”, come si fanno chiamare – che il 24 agosto hanno cominciato uno sciopero della fame “a staffetta”, cioè alternandosi nel digiuno: per “esprimere solidarietà”, per prima cosa, a “tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente”. Cinquantanove persone, nei primi otto mesi del 2022. Più di una ogni quattro giorni, quindici nel solo mese di agosto: a due terzi dell’anno è già stato superato il totale dei casi del 2021. Lo sciopero proseguirà almeno fino al 25 settembre, giorno delle elezioni.
Nel dossier dell’associazione Antigone e di Ristretti orizzonti si dice che l’Italia ha un tasso di suicidi basso rispetto a quello di altri paesi dell’Unione europea, ma secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa è al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. Dentro ci si uccide almeno 16 volte di più che fuori. Se questo avvenisse nel mondo esterno, “avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione, anche di fronte a un governo dimissionario, anche con le elezioni alle porte e con l’obbligo di non uscire dal confine degli affari correnti”, ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone.
Le persone che si sono suicidate avevano un’età media di 37 anni. Sedici di loro avevano tra i 20 e i 29 anni. Quattro erano donne (un numero alto se si considera che la percentuale della popolazione detenuta femminile è solo il 4,2 per cento del totale) e 28 erano di origine straniera: su una popolazione penitenziaria composta per poco meno di un terzo da stranieri, il tasso di suicidi di detenuti di origine straniera è quasi il doppio rispetto a quello degli italiani.
Dai pochi dati a disposizione, risulta poi che almeno 18 delle 59 persone che si sono uccise soffrivano di patologie psichiatriche, alcune diagnosticate, altre presunte e in fase di accertamento. E che molte di loro erano ancora in attesa di giudizio. Quasi tutte le carceri dove sono avvenuti i suicidi hanno una situazione cronica di sovraffollamento, parola che è il rafforzativo di un rafforzativo, e che in alcuni casi arriva al 150 per cento della capienza delle strutture. In quasi tutti questi istituti il numero di specialisti psichiatri e psicologi presenti è inferiore alla media nazionale nelle carceri.
A metà degli anni settanta, con l’abbandono del regolamento carcerario fascista e i princìpi che lo ispiravano, il carcere cambiò: da sistema basato su punizioni e privazioni diventò un sistema che, almeno sulla carta, doveva mettere in pratica l’articolo 27 comma 3 della costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
La perdita della libertà da lì in poi non avrebbe più dovuto compromettere alcun diritto fondamentale dell’essere umano. Oggi le condizioni di carcerazione e l’esecuzione della pena si confermano invece come esperienze che colpiscono quotidianamente i corpi e le menti delle persone detenute.
Il tabù per eccellenza
Lo sciopero della fame non è la prima iniziativa di protesta non violenta delle donne recluse alle Vallette. La scorsa estate avevano ad esempio lanciato uno “sciopero del carrello”, rifiutando cioè il vitto fornito dall’amministrazione carceraria. Siamo riuscite a parlare con le donne che ora aderiscono allo sciopero chiedendo loro di raccontarci la protesta. “Negli ultimi anni”, dicono, “le condizioni della detenzione si sono aggravate e con le restrizioni per il covid c’è stata un’escalation di suicidi e di atti di autolesionismo. Onestamente siamo stanche dei blablabla e siamo determinate a non farci schiacciare. Il vero crimine è non fare niente”.
La riforma sulle carceri viene spesso evocata ma mai affrontata nel concreto, nemmeno oggi, da tutti i partiti impegnati nella campagna elettorale. L’esempio più recente è quello della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita nel settembre del 2021 dalla ministra della giustizia Marta Cartabia e presieduta da Marco Ruotolo, ordinario di diritto costituzionale all’Università Roma Tre: i lavori sono andati a rilento, la relazione finale è stata consegnata a dicembre 2021 e a parte qualche circolare non c’è stato alcun intervento strutturale.
Cosa succederà dopo le elezioni rimane un’incognita, così le ragazze di Torino hanno deciso di giocare d’anticipo: “Siamo consapevoli che c’è la campagna elettorale e siamo consapevoli che il carcere è il tabù per eccellenza: è proprio per questo che ci siamo infilate in questo modo e in questo momento: per disturbare i tour della loro propaganda”. Dicono anche di essere “molto spaventate” dalle prossime elezioni e che solo pochissime di loro potranno andare a votare.
L’Italia, infatti, fa parte di quei paesi che legano il diritto di voto alla durata della pena e, di conseguenza, alla gravità del crimine commesso. Di fatto spesso il diritto di voto non è garantito nemmeno alle persone detenute che quel diritto non l’hanno perso: sia perché può votare per posta solo chi risiede nello stesso comune in cui si trova il carcere, sia perché la procedura che consente alle persone recluse di votare in carcere è complessa pochi la conoscono, l’organizzazione è incerta e di conseguenza l’affluenza è bassissima.
Le ragazze di Torino ci raccontano come avviene concretamente lo sciopero all’interno del carcere: “L’abbiamo dichiarato con un comunicato indirizzato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al provveditorato regionale (che si occupa del personale e dell’organizzazione dei servizi e degli istituti penitenziari, ndr), al tribunale di sorveglianza e al direttore. Abbiamo allegato le firme di chi ha aderito con le date. Abbiamo optato per una staffetta così da trovare maggiori adesioni tra le nostre compagne e dare l’opportunità anche a chi assume terapie farmacologiche o alle anziane di dare il loro contributo. Ora siamo in 53 a portare avanti lo sciopero, alcune di noi hanno più di settant’anni”.
Queste donne recluse ci danno una lezione di inclusività. Con la loro lotta, irrompono nella monotonia di giorni sempre uguali in un luogo “in cui la luce naturale non arriva”.
All’apertura delle celle, alle 7.30, la donna che comincia lo sciopero lo comunica al personale con un’autodichiarazione scritta
Quando hanno cominciato il loro sciopero hanno anche proposto che il cibo non consumato o avanzato (e non solo per lo sciopero) fosse “donato alle persone che ne avevano bisogno” fuori da lì, tramite alcune associazioni. “Ma ci è stato impedito. Già la nostra lettera sull’inizio della protesta era stata citata dai giornali nazionali, figuriamoci se si fosse anche saputo che stavamo facendo qualcosa di buono per qualcuno…”.
Raccontano che la mattina, all’apertura delle celle, alle 7.30, la donna che comincia lo sciopero lo comunica al personale con un’autodichiarazione scritta. Questo documento arriva attraverso vari passaggi interni fino alla direzione: “Nel foglio è descritto l’evento, cioè che la detenuta è in sciopero, e sono riportate le motivazioni. Poi il medico visita la donna a cui fino al termine del digiuno, che a seconda dei casi può durare uno, due o tre giorni consecutivi, vengono presi i parametri: peso, pressione, glicemia. Nelle autodichiarazioni noi ribadiamo le nostre motivazioni, evidenziamo il disagio. E loro fanno il loro lavoro burocratico”. L’amministrazione si limita cioè a seguire il regolamento, mentre “tutta la comunità penitenziaria aspetta che qualcosa cambi, che diminuiscano i disagi, in primis il sovraffollamento”.
L’obiettivo primario della loro lotta, ci spiegano, è che venga riconosciuta la liberazione anticipata speciale a tutta la popolazione detenuta: “È da anni che ci muoviamo per far sì che venga concessa”, spiegano. Nel 2020, durante l’emergenza sanitaria, il deputato Roberto Giachetti aveva presentato una proposta sulla liberazione anticipata speciale: prevedeva, con alcune limitazioni, la possibilità di aumentare da 45 a 75 giorni la riduzione prevista ogni sei mesi di pena scontata, in base alla buona condotta. Se fosse approvata, allargherebbe la platea di beneficiari a diecimila persone, un cambiamento notevole rispetto alle condizioni attuali.
“Ci teniamo a sottolineare”, spiegano le ragazze di Torino, che “non chiediamo impunità o clemenza, ma visto che le carceri italiane come strutture non rispettano le normative dell’ordinamento penitenziario e quelle europee, e visto che l’organizzazione è carente per quello che riguarda il trattamento e il reinserimento, chiediamo che attraverso un ampliamento della liberazione anticipata a 75 giorni ci vengano resi quei diritti che non vengono rispettati”.
Un provvedimento simile a quello proposto da Giachetti e rivendicato dalle donne di Torino era già stato applicato nel 2013 dopo la cosiddetta sentenza Torreggiani con cui la Corte di Strasburgo condannò l’Italia per la gravità delle condizioni delle persone detenute. Lo stato aveva varato una misura emergenziale all’epoca, ma l’emergenza si è presto ripresentata.
Cattivo esempio
“È brutto da dire, però ci sembra che vogliano risolvere il problema del sovraffollamento con i suicidi o facendo ammalare le persone. Non hanno il coraggio di fare nulla per non perdere voti, e quindi forse pensano che la cosa si risolverà da sola”. È brutta anche da ascoltare, questa frase, soprattutto perché, detta senza alcuna nota di vittimismo nella voce, sembra descrivere fin troppo bene la realtà delle carceri.
“La realtà è questa: il carcere è una discarica sociale in cui si butta quella parte di umanità di cui non ci si vuole occupare. Chi esce dal carcere ne esce peggiorato nell’anima e nel corpo”. Citano, le recluse delle Vallette, il numero dei suicidi che qualcuno ha definito degli “omicidi di stato”. Spiegano che le recidive sono altissime, che i percorsi per i reinserimenti “sono una chimera” e confermano che “i detenuti e le detenute con problemi psichiatrici non vengono curati per mancanza di presidi medici e destabilizzano sezioni intere”.
Questo, concludono, “è un sistema fallimentare. Si scontano le pene in situazioni e strutture al limite della legalità stessa. Insomma il carcere è l’emblema dell’ipocrisia, del predicare bene e razzolare male. Si dice che il carcere dovrebbe rieducare: ma come può rieducare qualcosa che ti dà il cattivo esempio? A noi viene chiesto di rispettare la legge, ma ci dovrebbero dare l’esempio. Sennò perdono di credibilità, anzi l’hanno già persa”.
Il consumo del pasto è una parte importante della vita in carcere: “È difficile non mangiare qui, perché è anche un modo per occupare il tempo e la testa. A volte è uno sfogo, a volte quella dagli zuccheri diventa una dipendenza”. Eppure, nonostante la difficoltà, e nonostante alcune abbiano paura di ritorsioni per la loro adesione alla protesta, proseguono, insieme, unite.
Nel frattempo, la protesta si è diffusa anche a una parte della sezione maschile del carcere di Torino e del Regina Coeli di Roma. A Verona le detenute si sono unite con uno sciopero del carrello. E sempre a Verona un gruppo chiamato Sbarre di zucchero e composto dalle ex detenute compagne di carcerazione di Hodo Donatella, suicida nella Casa circondariale di Verona il 2 agosto scorso, ha scritto una lettera al presidente della repubblica Sergio Mattarella per rafforzare la lotta delle detenute di Torino.
La voce delle donne alle Vallette, da dentro è arrivata anche fuori, tra le montagne della Val di Susa. “Per noi è stato importante incontrare Nicoletta, Fabiola e Dana”, dicono. Si riferiscono a Nicoletta Dosio, Fabiola De Costanzo e Dana Lauriola, militanti no tav incarcerate tra il 2019 e il 2022 alle Vallette per la loro attività politica e che dopo aver scontato parte della pena in carcere sono state per diversi mesi ai domiciliari.
“È stato fondamentale”, spiegano le recluse di Torino, “rimanere in contatto” con loro e con la dimensione sociale che le circonda: la solidità del legame tra detenute ha generato uno spazio nuovo, imprevisto, condiviso da chi è dentro e da chi è fuori. “Questo ci ha fatto cambiare, ci ha messo in un’altra posizione. Siamo convinte che solo se facciamo qualcosa, qualcosa cambia: magari non subito, ma cambia”.