Che Torino non sia più la città della Fiat lo sappiamo ormai da decenni, tanto che i pubblicitari lo hanno usato come slogan per il Reset Festival. Sembra che tutto segua una congiunzione astrale.
La città oltre a perdere abitanti, continua a perdere eccellenze del territorio, come il Goethe Institute, una realtà che per 70 anni è stata un fiore all’occhiello della cultura teutonica.
In ordine di tempo, abbiamo perso il Centro culturale francese, che si è trasformato nell’Alliance Française di Torino, un’altra eredità culturale storica.
Il capoluogo piemontese ha saputo reagire alle crisi tempo addietro grazie alla tenuta del sistema industriale, al costante sviluppo del terziario e all’impulso degli investimenti infrastrutturali. Eppure queste “armi” sembrano spuntate e Torino dovrebbe provare un cambio di passo. Un impegno straordinario dell’Amministrazione che dovrebbe essere capace di rivitalizzare e reinterpretare i tradizionali punti di forza dell’economia torinese, puntando su un ulteriore rafforzamento del manifatturiero e su una più stretta integrazione con le punte di eccellenza.
In tutto questo si dovrebbe dimostrare che vale la pena investire a Torino, con pochi semplici strumenti, come incentivare l’imprenditoria, abbassare le tasse sul lavoro (con una vera lotta all’evasione fiscale), sugli immobili (Torino ha l’Imu più alta di Italia) e molto altro, con ricadute a cascata su tutto il resto.
Come può un giovane torinese pensare di aprirsi al mondo, se le poche eccellenze internazionali, anziché proliferare, chiudono?
Va bene lo spirito sabaudo, ma ora è di uscire dal torpore.
Giuseppe Iannò