Venerdì 6 ottobre il gruppo consiliare “Torino in comune” ha promosso un seminario sul tema. Lo abbiamo fatto invitando due Città diverse, Torino e Napoli, accomunate dalla sorte di ricorsi al Tar e al Tribunale ordinario da parte di genitori richiedenti la possibilità del pasto da casa in orario scolastico; diverse per gli esiti dei ricorsi, favorevoli alle famiglie a Torino, non così per Napoli. Non interessava dissertare sulle differenti interpretazioni dei Tribunali deputati, quanto indagare sulle varie ragioni della scelta del pasto domestico e sulle conseguenze evidenti ad anno scolastico iniziato.
L’astensione dalla refezione ha agito a cerchi concentrici: non più solo i ricorrenti che hanno vinto sul principio della libertà di scelta, ma famiglie in difficoltà, agevolate dalle fasce ISEE, ma non così tanto da preferire per i propri figli un pasto equilibrato al giorno piuttosto che il “baracchino” o il panino da casa. Allora si pone il problema delle tariffe, gravate in due modi: da un lato, sul costo unitario del pasto si computano costi indiretti organizzativi; dall’altro la compartecipazione richiesta agli utenti è a Torino ben superiore rispetto al 40% circa imposto dalla legge per i servizi a domanda individuale.
Se l’onere si coniuga con fasce tariffarie che, troppo ampie in ciascun gradino, non fotografano le reali condizioni economiche familiari, si spiegano le defezioni. È urgente accogliere questa domanda inespressa: l’interesse a qualificare la mensa nel tempo scuola e l’aspettativa di una crescita equilibrata e serena delle nuove generazioni dovrebbero essere un obiettivo socialmente condiviso, quindi supportato anche dalla fiscalità generale, oltre che dalle tariffe.
Qui però si è rotto il patto sociale: se non ho né figli né nipoti frequentanti le scuole, perché mai dovrei sostenere le spese del tempo scolastico? I genitori, confortati dal Tribunale a favore del pasto domestico, corrispondono con lo stesso argomento: sottraggono se stessi e i propri figli da quella solidarietà, quella per cui chi più può sostiene chi ha di meno, con buona pace delle frammentazioni del tempo scuola riservato alla mensa e con incuranza rispetto alle conseguenze occupazionali in un servizio cui vengono meno così tanti utenti.
Come sempre accade quando i principi vengono invocati astrattamente e applicati chirurgicamente, oggi chi si recasse nei refettori di scuole di alcuni quartieri vedrebbe bambini a mensa comunale con un primo, un secondo e un contorno caldi; bambini con pasti domestici cucinati la sera precedente o il mattino – prima dell’ingresso a scuola – e conservati fortunosamente fino al pasto; bambini con cibi confezionati da supermercato o di panetteria.
La scuola di tutti è un po’ di più di qualcuno, magari di chi chiama libertà di scelta il separarsi da una offerta complessiva di tempo scuola, e come sempre i più deboli ne patiscono, rinunciando a un pasto equilibrato almeno una volta al giorno.
Il tempo pieno, comprensivo della mensa scolastica, era nato proprio per colmare le differenze di partenza e per arricchire di cultura e di relazioni tutti, un po’ di più. Questi abbandoni unilaterali e questa prevalenza della scelta personale a discapito delle organizzazioni collettive dovrebbero preoccupare molto la politica e le Amministrazioni, magari invitandole a reintrodurre la copertura da fiscalità generale per il diritto allo studio e introducendo correttivi nella fotografia socio-economica delle famiglie, più sensibili rispetto alle condizioni reali.
Eleonora Artesio