La Sala Rossa ha ospitato oggi la cerimonia per il Giorno del Ricordo, che dal 2004 rievoca ufficialmente il dramma dell’esodo degli italiani dai territori ceduti alla Jugoslavia dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un dramma preceduto da atroci massacri, compiuti indiscriminatamente contro popolazioni definite sbrigativamente “fasciste” dai miliziani jugoslavi. Dramma rievocato alla toccante testimonianza da Antonio Vatta, che ha preso la parola in Sala Rossa dopo gli interventi dei rappresentanti delle istituzioni, denunciando il riaffiorante negazionismo su quelle drammatiche vicende e sottolineando come un esule continui per sempre a sentirsi tale, e citando un verso di un brano di Sergio Endrigo : “Vorrei essere un albero, che sa dove nasce e sa dove muore“.
Tra il 1946 e il 1951, furono in più di trecentomila a lasciare i territori assegnati alla Federazione Jugoslava dal Trattato di Parigi: l’Istria, Fiume, l’enclave di Zara. A loro si aggiunsero gli italiani che vivevano in città dalmate come Spalato, unite al Paese slavo sin dal 1919, dopo il crollo dell’Impero Austro-ungarico. Soltanto poche migliaia di persone, forse 15mila , scelsero di rimanere invece di imbarcarsi sulle navi dirette verso la Penisola. Era l’ultimo atto, in quelle zone, del feroce conflitto che aveva dilaniato l’Europa tra il 1939 e il 1945.
Eppure, erano territori, quelli sulla sponda nordorientale dell’Adriatico, che per secoli, sotto la Repubblica di Venezia, poi con gli Asburgo e anche dopo la fine del loro dominio, durante l’effimero Regno di Jugoslavia come nel caso della Dalmazia), avevano visto convivere pacificamente, anche se non senza tensioni, italiani e slavi (croati, sloveni, serbi) insieme ad altre componenti etniche. Il ventennio fascista, con una politica repressiva verso gli slavi nelle terre di confine diventate italiane dopo il 1918, e poi gli orrori della Seconda Guerra mondiale, scavarono un solco incolmabile tra le due comunità.
Nel ’45 si registrarono quindi i massacri di civili inermi (episodi definiti correntemente le “foibe”, dalle grotte carsiche dove molti italiani vennero gettati dopo essere stati fucilati) messi in atto dalle truppe di Tito seguiti, nel 1947, dalla fuga in massa degli italiani da Pola (che passò in poche settimane da 30.000 a 4.000 residenti) , Fiume, Zara, Spalato, Ragusa, oggi ormai diventate Pula, Rijeka, Zadar, Split, Dubrovnik. L’esodo proseguì più lentamente fino alla metà degli anni ’50, quando la “zona B” (la parte nord occidentale dell’Istria, con Capodistria) venne definitivamente assegnata al governo di Belgrado.
A Torino, gli esuli e i loro discendenti sono diverse migliaia, poiché tra il 1946 e i primi anni Cinquanta, la nostra città ne accolse circa 8000; in buona parte vivono ancora in zona Lucento, dove negli anni Cinquanta venne realizzato per loro il “villaggio Santa Caterina”.
Claudio Raffaelli