“C’è tutta un’area di interessi che hanno portato all’omicidio di Bruno Caccia che non si è voluto in alcun modo porre sotto la dovuta luce. Si è voluto con sforzi immani costruire una versione palesemente falsa di uno dei più clamorosi omicidi della storia di questa città come un semplice caso di vendetta privata da parte di un singolo boss e del gruppetto da lui comandato. Purtroppo, nessuno ha voluto né saputo accertare, in sede giudiziale, la causale e le concause dell’omicidio”. Lo sostiene l’avvocato Fabio Repici, il legale dei famigliari del procuratore torinese assassinato da esponenti della ‘ndrangheta calabrese nel 1983. Con una dei figli – Paola, insegnante in una scuola torinese – l’avvocato ha partecipato oggi alla riunione congiunta, presieduta da Carlotta Tevere, della commissione Legalità e della Conferenza dei capigruppo.
L’avvocato ha insistito molto su quella che ha definito essere stata “una giustizia solo parziale”. Oltre alle responsabilità, è importante individuare le vere cause dell’azione omicida. “Di Caccia si disse genericamente che era stato ucciso perché integerrimo, incorruttibile, inavvicinabile ma queste non sono forse le doti che ogni servitore dello stato dovrebbe possedere?” ha spiegato Repici, che ha anche parlato di atteggiamenti omissivi e di inerzie da parte di alcuni ambienti delle procure milanesi e torinesi, di indagini svolte solo su alcune persone e non su altre seppure indiziate, di coinvolgimento illegale del SISDE in tutta una prima fase delle indagini, di ergastolani in semilibertà utilizzati nelle indagini su altri pregiudicati.
Nel periodo precedente alla sua morte, ha sottolineato l’avvocato della famiglia Caccia, il procuratore indagava sul possibile uso del casinò di Saint Vincent come strumento di riciclaggio di denaro proveniente dai riscatti pagati nei casi di sequestri di persona perpetrati dalla ‘ndrangheta. A fronte di questo, mai sono stati interrogati i colleghi e i familiari per sapere quali fossero le piste seguite, le confidenze fatte. A uno dei figli, poco prima di essere ucciso, il magistrato aveva detto “Ne vedremo delle belle, scoppierà qualcosa di grosso”.
Alcune condanne, anche pesanti, ci sono state. Ma la famiglia, dopo aver ottenuto la riapertura delle indagini alcuni anni fa, cerca una verità che vada al di là delle commemorazioni ufficiali e che faccia luce su una rete di responsabilità, dirette e indirette, che suppone essere estesa. Un processo in secondo grado di giudizio è alle porte, ed anche la Città di Torino è parte civile.
Claudio Raffaelli
(La registrazione integrale della seduta sarà a breve disponibile sul sito web della Città di Torino)