Nell’agosto di cento anni fa, nel pieno della Prima Guerra mondiale, le strade di Torino venivano invase da mezzi blindati, squadroni di cavalleria, compagnie di mitraglieri e truppe d’assalto: non erano truppe austroungariche, ma il Regio Esercito inviato dallo Stato liberale a schiacciare il “nemico interno”. Un nemico pericoloso, al punto di utilizzare contro di esso reparti che sarebbero stati preziosi al fronte. Si trattava dei lavoratori torinesi e delle loro famiglie, uomini, donne e anche ragazzini, esasperati dalle privazioni imposte da una guerra da loro detestata, dal duro regime imposto nelle fabbriche militarizzate, dalla cronica mancanza di pane nei forni cittadini (di fronte alla quale l’amministrazione comunale capeggiata dal barone Leopoldo Usseglio si dimostrava inadeguata).
Pane, si badi, che all’epoca aveva un ruolo assai diverso da quello attuale, nell’alimentazione delle famiglie operaie: il suo acquisto assorbiva quasi il 20% del reddito, pesando quanto l’affitto e le utenze di casa. Si trattò di un movimento spontaneo, che coinvolse attivamente decine di migliaia di persone, con epicentro nelle borgate operaie come Borgo San Paolo e Barriera di Milano: alla richiesta di pane si accompagnò sin da subito la protesta contro la guerra, divoratrice di vite e di risorse. Rimasero sul terreno, secondo stime approssimative, almeno cinquanta morti (tra i quali anche alcuni militari) e più di cento feriti. 882 persone vennero arrestate, tra di esse alcuni importanti dirigenti del Partito socialista italiano, che pure non era stato all’origine del movimento, anche se aveva preso le parti dei lavoratori e lavoratrici colpiti dalla feroce repressione governativa.
Una serie di processi culminò in quello, svoltosi nella primavera del 1918, che riguardava dirigenti socialisti del calibro di Giacinto Menotti Serrati e Giuseppe Romita (allora consigliere comunale), oltre alla direttrice del giornale “Il grido del popolo” Maria Giudice, battagliera madre di otto figli. Socialisti di sinistra, “intransigenti” si diceva allora, che furono difesi – con successo – da avvocati socialisti riformisti come Claudio Treves e Giuseppe Modigliani, loro avversari nel partito ma pronti a fare causa comune contro la repressione dello Stato monarchico. Dirigenti intransigenti come Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci (che sarebbero divenuti meno di tre anni dopo i principali ispiratori della scissione socialista che avrebbe dato vita al Partito Comunista d’Italia) vennero convocati come testimoni. Nonostante la giustizia militare fosse arrivata al punto di fabbricare false prove per incastrare gli imputati, gran parte del castello di accuse venne smontato – a partire da quella di cospirazione per il rovesciamento dello Stato – e le condanne furono lievi e cancellate dall’amnistia dell’anno seguente. Quella pagina delle nostra storia di torinesi e italiani, della quale non si è mai amato molto parlare, è stata rievocata questa mattina dall’associazione Consiglieri comunali emeriti della Città di Torino, in un convegno svoltosi presso l’Aula magna dell’Istituto tecnico “Amedeo Avogadro” intitolata a Giulio Cesare Rattazzi, preside della scuola e vicepresidente del Consiglio comunale scomparso in anni recenti. Ex consiglieri ed allievi della scuola hanno ascoltato con interesse numerosi relatori, tra i quali Gian Carlo Quagliotti, presidente dell’Associazione, la consigliera Viviana Ferrero e i consiglieri emeriti Maria Grazia Sestero, Luca Cassiani e Giuseppe Bracco. Ferrero si è soffermata su alcune eminenti figure femminili legate a quelle vicende (la già citata Maria Giudice, la cronista Barbara Allason e l’attivista Antizarina Cavallo), mentre Cassiani ha ricostruito le vicende giudiziarie successive alla rivolta. Sestero e Bracco si sono soffermati rispettivamente sul ruolo inadeguato svolto dal Comune nella crisi del pane e sulla situazione sociale ed economica della Torino di allora.
Claudio Raffaelli