“Da ragazzo sognavo di fare il pilota, ero bravo in fisica e chimica e mai avrei pensato di trovarmi un giorno a fare l’attivista e parlare di diritti ma in Eritrea è lo Stato che decide che cosa devi fare, se il militare, l’impiegato o l’insegnante”. Comincia così il racconto Tareke Brhane, scappato dal suo Paese, l’Eritrea, di fronte agli studenti dell’istituto “Peano” di Torino, nel corso di un seminario organizzato a margine dell’intitolazione dell’area pedonale alle “Vittime dell’immigrazione”, nei pressi del parco Dora.
“Scappare vuol dire rischiare il carcere a vita, significa lasciare casa e famiglia. Mia madre mi ha fatto uscire da quel Paese. Appena varcato il confine diventi un traditore della patria. Da quando esci ti affidi a un trafficante che può decidere se arrivi vivo o morto. Tu non puoi decidere nulla, a che ora vuoi mangiare, quando dormire, quando andare in bagno. Il viaggio ha un costo economico ma ci vuole la forza per affrontarlo. Arrivo nella capitale del Sudan, parcheggiato come altri in appartamenti di 70 metri quadri con circa 40 persone. Ogni giorno ci cambiavano di posto, finchè ci fecero uscire dal paese, dove cominciava il deserto. Si parla poco del deserto ma molto del Mediterraneo, sottolinea. Per noi il Mediterraneo era il paradiso, perché ci metti poco a morire, mentre nel deserto no. Ci radunarono, ci caricarono su due Jeep, ma quante persone ci possono stare su ciascuna? Eravamo in 34 con donne incinte, bambini, sembrava una palla, ognuno attaccato a un altro per non scivolare ed essere abbandonato nel deserto. Per bere ci davano acqua mischiata a benzina, per mangiare acqua mischiata a farina. Pregavo di morire in mare, non nel deserto. Arrivato in Libia, compresi che non bisognava mai dare informazioni sulla propria identità o religione, la regola per sopravvivere era quella di confondersi nel gruppo e di prendere sempre decisioni in tempi rapidi. Non avevo mai visto il mare prima, nonostante l’Eritrea avesse un mare bello. A Tripoli incominciano a parcheggiarci, fino a 300 persone per locale. Ci imbarcarono su un peschereccio. Gli scafisti non hanno mai guidato un’imbarcazione prima, ma i trafficanti non devono rispondere a nessun codice penale e poco cambia se muori dopo cinque minuti o dopo un’ora. In quel viaggio gli scafisti si persero in mare, a Lampedusa si sarebbe arrivati in mezza giornata dalla Libia. Eravamo 268 persone, non esisteva neanche uno spazio per un bicchiere d’acqua. Ogni spazio costava 1200 dollari. Ogni ostacolo superato sembra porti alla vittoria. Ma un certo punto il motore si ferma. Non potevamo alzarci per non far correre il rischio alla barca di capovolgersi. Dopo tre giorni in mare tutti pregavano, cristiani e musulmani. Arrivarono i Maltesi, ci agganciano con una corda ma ad un certo punto ci accorgiamo che ci stanno riportando in Libia. Per noi significava tornare a marcire in quelle carceri. Al porto i militari ci aspettavano con i manganelli, bisognava essere bravi ad evitare più botte posibili. Ci conducono nei lager libici, stanze di 20 metri quadri con trenta quaranta persone, con bagni che non funzionavano. Non sai quando puoi uscire, potrebbe passare un mese o un anno. L’unico modo per uscire è quello di fare arrivare altri soldi. Sono riuscito a prendere una seconda barca, questa volta l’imbarcazione era ottima ma chi la conduceva non era bravo. Dopo il terzo giorno ci siamo persi. Esausto, ho superato il deserto, i calci, le botte, ma questa volta pensavo che sarebbe finita e cercavo una strategia per trovare il modo migliore per morire. Decisi di scendere nella stiva, senza sentire gente che urlava, volevo addormentarmi e perdere
conoscenza, ma il motore faceva rumore e non potevo dormire. Mi ero arreso, stavo per buttarmi in acqua finchè da lontano vediamo una nave mercantile col personale che ci mandava via. L’unica soluzione era provocare un incidente con la nave, consapevoli del rischio che qualcuno avrebbe perso la vita. Raggiunta la nave, questa si ferma e chiama la marina militare che ci raggiunge con altre imbarcazioni della guardia costiera e della Guardia di Finanza. Mi hanno sollevato, avevo una maglietta e pantaloncini corti da oltre un anno e mezzo, senza mai averli potuti cambiare. Da quel giorno ho incominciato a sentire i dolori, a contare le ossa mentre fino a poco tempo fa riuscivo a correre e scappare. A Lampedusa vedo un’immagine bellissima, la polizia, i medici, i giornalisti, erano lì tutti per me, mi sembrava un sogno molto bello. Mi riconobbero il diritto per il permesso umanitario ma neanche il tempo di festeggiare e fui abbandonato alla stazione di Trapani, senza sapere dove andare, dove mangiare, dove dormire. Sentii parlare di un prete a Palermo che dava opsitalità, poi mi recai a Roma senza pagare il biglietto del treno, 20 ore chiuso dento un bagno. Ho raccolto pomodori, arance, ho cercato di studiare.
Una storia di migrazione, di chi bene o male ce l’ha fatta e oggi è un cittadino italiano.
Una storia simile a quella di Abbas Alì, fuggito dall’Afghanistan, che conosce sei lingue e parla in piemontese, o Abdullhai Ahmed, somalo, oggi mediatore culturale e grande tifoso del Torino.
Storie che gli adolescenti del Peano hanno ascoltato con grande silenzio e grande rispetto e che hanno stimolato domande e riflessioni. Storie alle quali anche la Città, attraverso la presenza del presidente del Consiglio comunale, Francesco Sicari, ha voluto dimostrare la propria vicinanza.
Federico D’Agostino