A distanza di molti decenni dalla sua conclusione, la vicenda storica del colonialismo italiano è stato a lungo oggetto di una sorta di rimozione collettiva, a tratti interrotta da pregevoli studi e pubblicazioni, come quelli di Angelo Del Boca o di Giorgio Rochat, oltre che da varie iniziative culturali sul territorio. Eppure, basta qualche rudimento di storia e geografia per rendersi conto, ad esempio, di quanto quelle vicende abbiano marcato le nostre città. Da via Tripoli a piazza Generale Baldissera, da piazza Massaua a via Somalia, la toponomastica torinese, come quella delle altre città dello Stivale, è ricca di riferimenti al colonialismo italiano, sviluppatosi soprattutto in Africa (Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia) a partire dal periodo postunitario.
Un’epopea (“il mal d’Affrica”, si diceva allora per spiegare l’avventura coloniale) iniziata nel 1882 con l’acquisto, da parte della compagnia di navigazione Rubattino, di un porticciolo insignificante sulla costa del Mar Rosso, nel territorio dell’attuale Eritrea, e finita formalmente con la Seconda guerra mondiale e le sue conseguenze. In mezzo a questi due estremi, uno spazio temporale nel quale l’Italia monarchico-liberale e poi monarchico-fascista costruì il suo impero, piccolo e in ritardo rispetto a quelli di altre potenze coloniali come la Gran Bretagna, la Francia e altre minori. Lo costruì certamente realizzando qualche tratto di ferrovie e strade ma in un quadro segnato da deportazioni di massa in campi di concentramento e impiccagioni sommarie, come nel Fezzan libico, massacri per rappresaglia come ad Addis Abeba o Debra Libanos in Etiopia, leggi razziali contro i matrimoni misti che precedettero di poco quelle contro i cittadini italiani di origine ebraica e altre nefandezze.
Metodi brutali per governare territori acquisiti con ancor più brutali attacchi, la Libia strappata ai Turchi nel 1911, l’Etiopia invasa nel 1936 e piegata con bombardamenti e armi chimiche vietate dalle convenzioni internazionali: era uno Stato povero ma abbastanza strutturato, al punto di aver fermato nel 1896, con la battaglia di Adua, l’invasione da parte dell’Italia liberale (da cui il mussoliniano “Con gli abissini – etiopi, ndr – abbiamo pazientato quarant’anni, ora basta” che precedette l’aggressione del 1936).
La vulgata degli “italiani brava gente” mostra la corda se si guarda alla storia, tra ragazzine etiopi comprate, usate sessualmente e poi regalate ai subordinati, feroci stragi di seminaristi copti adolescenti, impiccagioni di anziani leader come Omar Al-Mukhtar, “Il leone del deserto”, in Libia… Il tutto al netto del saccheggio delle risorse naturali di quei Paesi, caratteristica del resto comune a ogni forma di colonialismo.
Va detto, infatti, che quello italiano, fascista o prefascista, non fu peggiore di altri colonialismi, quello inglese, francese o di altri Paesi, tutti costellati di aggressioni militari, stragi di civili, abusi, persino mutilazioni inferte ai bambini per punire la scarsa produttività dei genitori, come nel Congo belga. Ma non fu nemmeno migliore, per cui non è possibile assolverlo e nemmeno dimenticarlo.
Il colonialismo, storicamente, ha sempre avuto una connotazione razzista, intrisa di quel suprematismo bianco (per l’occasione travestito da “missione civilizzatrice” che ancora oggi serpeggia nelle nostre società moderne e liberale. Che relazione c’è – se ce n’è una – tra un passato coloniale e un presente ancora contrassegnato da stigmi e discriminazioni legati al colore della pelle? Conoscere meglio il passato coloniale del nostro Paese, una storia di aggressione e sfruttamento verso altri popoli, può servire a meglio comprendere le ragioni profonde dello sviluppo diseguale che ancora caratterizza le divere aree del pianeta, a capire le ragioni profonde, strutturali, di quei flussi migratori così spesso al centro del dibattito politico?
Sono stati temi al centro di una riunione congiunta della V commissione Cultura e della Conferenza dei capigruppo, convocata dalla presidente Lorenza Patriarca, per esaminare una proposta di mozione illustrata dalla consigliera Alice Ravinale e dal consigliere Abdullahi Ahmed. Il documento, ricordando le drammatiche vicende del colonialismo italiano e rilevandone le numerose tracce nella denominazione di strade e piazze torinesi, propone non certo di cambiare le suddette denominazioni, ma di partire da esse per favorire la conoscenza di quelle vicende storiche e una riflessione collettiva sul loro significato e sulle loro conseguenze nella società odierna.
In particolare il documento, che sarà sottoposto prossimamente al voto della Sala Rossa, impegna l’amministrazione comunale a “contestualizzare, mediante l’inserimento di idonee targhe o di QR Code o eventuali interventi di arte pubblica, accessibili in più lingue, toponimi o monumenti dedicati a luoghi e persone collegate al passato coloniale italiano, al fine di consentirne una facile identificazione da parte della cittadinanza e favorire la conoscenza e la visione d’insieme di quel periodo della nostra storia”. Inoltre, si intendono “promuovere iniziative e progetti di approfondimento relativi al passato coloniale italiano rivolti alle scuole e alla cittadinanza tutta”. Infine, si chiede che la Città istituisca a livello locale, con idonee iniziative in memoria delle vittime del colonialismo italiano, la ricorrenza del 19 febbraio, in ricordo della strage di civili perpetrata dalle truppe italiane nella città di Addis Abeba in quel giorno 1937, come rappresaglia per un attentato della resistenza etiope.
Oltre ai due proponenti Ravinale e Abdullahi, sono intervenuti vari consiglieri. Silvio Viale ha invitato a ricordare che il colonialismo italiano agì anche fuori dall’Africa, nonché a riflettere sulle vicende nel Sud Italia dopo l’unificazione, mentre Piero Abbruzzese ha voluto evidenziare, anche sulla base di sue esperienze personali, il buon ricordo lasciato dagli italiani tra le popolazioni del Corno d’Africa. Da parte sua, Giovanni Crosetto ha definito il colonialismo come una degenerazione dei nazionalismi otto e novecenteschi, sottolineando però come il razzismo, certamente presente in alcuni settori della popolazione, sia legato non al passato coloniale ma alla mancata integrazione. Il dibattito è stato arricchito dai contributi di rappresentanti di istituzioni culturali come Polo del 900, Unione culturale Franco Antonicelli, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Biblioteche Civiche, Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, oltre che dalla storica Fatun Mohamed, che ha ricordato come il suprematismo razziale bianco sia stato legittimato dal colonialismo.
Claudio Raffaelli