Pietro Augusto Cassina (1913-1999), prima ancora che un artista era un uomo schivo, al punto di disporre, ad un certo punto della propria esistenza, che le opere da lui realizzate non venissero più esposte sino a vent’anni dopo la sua morte. Un uomo che non aveva mai cessato di disegnare e dipingere, per quanto gli fosse possibile, durante nove anni trascorsi in ospedale psichiatrico in seguito ad una baruffa con un gruppo di giovani fascisti, non per motivi politici ma per aver preso le parti di una ragazza da loro molestata.
E per inciso, da quell’ospedale psichiatrico ne uscì nel 1945 a bordo di un cingolato americano che su indicazione di un suo amico aveva fatto irruzione tra i padiglioni. Una persona non comune, che per decenni ha dipinto solo su pannelli di masonite – salvo la parentesi dell’ospedale psichiatrico, durante la quale aveva disegnato su carta – raffigurando di volta in volta scorci della sua Torino o di una Venezia che mai aveva visto, oppure un vaso di gelsomini tanto folti e carnosi da essere da lui definiti “gelsomoni”. O ancora, dipingendo un Cristo non più teso dalla sofferenza, con le braccia martoriate in trazione, ma rilassato tra le braccia pietose di chi lo sta deponendo dalla croce, una celebrazione della fine del dolore più che del dolore stesso.
E che dire della sua abitudine di aprire le finestre al mattino e segnare con una pennellata di colore il punto di un quadro raggiunto dal primo raggio di sole? Quelle citate sono ora esposte fino al 3 aprile, insieme a decine di altre opere (paesaggi, autoritratti, nature morte, soggetti a sfondo religioso) presso il Museo Diocesano di Torino, proprio sotto il Duomo di San Giovanni, con il patrocinio della Città di Torino, che ha partecipato all’inaugurazione svoltasi ieri con una propria rappresentanza. Per informazioni su mostra e catalogo, mostracassina@gmail.com.
Claudio Raffaelli