Un’antica lapide murata sotto il porticato del Palazzo Civico, che raramente attira lo sguardo, ricorda i numerosi militari torinesi caduti nelle battaglie coloniali d’Africa del XIX secolo.
La più tragica delle vicende ricordate dalla lapide è quella passata alla Storia come “la battaglia di Adua”. Nei pressi di quella località etiope, il 1° marzo 1896 – proprio mentre a Torino si votava per il rinnovo del Consiglio comunale – un corpo di spedizione del Regio Esercito era stato decimato e sconfitto dalle armate abissine.
Partiti dall’Eritrea, da essi già colonizzata da alcuni anni, reparti italiani avevano invaso mesi prima il nord dell’attuale Etiopia. Il Regno d’Italia era arrivato in ritardo nella feroce corsa alla colonizzazione dell’Africa da parte delle potenze europee: e il governo presieduto da Francesco Crispi voleva il territorio abissino, uno degli ultimi lembi del continente africano a non essere stato occupato. Era il mal d’Affrica, come lo si definiva in quegli anni per costruire un’aura romantica ad una guerra di aggressione, facendo circolare al tempo stesso strofette come “Oh Menelicche, le palle son di piombo, non pasticche” oppure, più ipocritamente, “Se l’Affrica si piglia, si fa tutta una famiglia“.
A fronte dell’aggressione italiana, il sovrano abissino Menelik II (il “Menelicche della strofetta prima citata) aveva lanciato un appello alla mobilitazione: “Uomo del mio paese, tu che sei forte, aiutami secondo la tua forza; e tu che non hai forza, soccorrimi con la tua preghiera”. Guidati dai loro capi locali, i ras, gli abissini avevano ingrossato le fila dell’esercito di Menelik II. Nella decisiva battaglia di Adua, erano caduti 4.600 soldati italiani e più di mille miliziani eritrei al loro seguito, con una rapida ritirata da parte dei sopravvissuti. Nello scontro, il corpo di spedizione guidato dal generale Oreste Baratieri aveva lasciato sul terreno un terzo dei suoi effettivi: le perdite, anche senza contare i miliziani eritrei, erano state dieci volte superiori a quelle subite nella battaglia di Dogali del 1887, quando gli abissini di ras Alula Engida avevano frustrato un primo tentativo di espansione da parte italiana.
Non ci sono dati precisi, ma varie migliaia erano stati anche i morti da parte etiope, ad Adua, tanto che gli storici, a proposito della regina Taitù Betul – la quale pure aveva diretto in prima persona alcuni reparti del proprio esercito – ne avrebbero poi descritte le irrefrenabili lacrime “per i suoi soldati, per i suoi amici, per tutti i cristiani che erano caduti”, commentando biblicamente che “come Rachele non poteva essere consolata, ella era divenuta inconsolabile”.
A Roma, il governo Crispi si era poi dimesso, non era bastato addossare la colpa al generale Baratieri, il quale, scriveva la rivista L’Illustrazione Italiana l’8 marzo, aveva condotto “pazzamente a questo strazio”: il generale, da parte sua, aveva cercato di scaricare le responsabilità della sconfitta sulla truppa, stigmatizzata come non sufficientemente audace e bellicosa.
Dopo la batosta di Adua, si erano registrati tumulti in tutta la Penisola. A Torino, il 4 marzo, si era svolta una massiccia manifestazione di fronte a Palazzo Civico. La folla, racconta la Gazzetta del popolo, aveva contestato il governo ma applaudito Leone Fontana, il commissario regio che stava per passare la mano al nuovo sindaco, il quale aveva assicurato aio manifestanti che il Comune si sarebbe fatto interprete con Roma della protesta popolare. L’ amministrazione comunale milanese, guidata dal pur moderato sindaco Vigoni, in quegli stessi giorno aveva chiesto al governo di rinunciare a ulteriori iniziative avventate in tema coloniale.
Il Consiglio comunale insediatosi in quei giorni a Torino, che aveva rieletto quale sindaco il liberale Felice Rignon conte di Marmorito, contava 80 consiglieri, tutti nella lista del Comitato centrale liberale, tranne 16 classificati quali clericali. I socialisti, pur avendo ottenuto circa il 17% dei voti, non avevano conseguito alcun seggio: in ogni caso, a votare erano stati in poco più di 17mila, date le rigide regole di allora che prevedevano che il voto fosse esercitato solo dai maschi istruiti e abbienti.
In Sala Rossa, raccontano gli Atti municipali, il sindaco Rignon aveva reso omaggio ai “soldati italiani che in terre lontane avevano tenuto così alto l’onore della bandiera...”, partecipando “al mesto ricordo di tanti valorosi morti per la patria”. Il consigliere Di Sambuy aveva chiesto poi “solenni preci d’espiazione” per i caduti, “morti romanamente”.
Un po’ fuori dal coro la voce del consigliere Cesare Goldmann, spintosi a suggerire di non spendere per messe solenni bensì di usare le corrispondenti somme per aiutare le “le vittime d’una politica nefasta ed iniqua”. Rievocando la manifestazione del 4 marzo, Goldmann aveva quindi chiesto “alla Giunta di farsi interprete dei sentimenti della popolazione per il richiamo delle truppe d’Africa”. Il sindaco Rignon aveva respinto questa proposta, poiché riguardante “una questione politica e considerazioni alle quali il Comune deve tenersi estraneo”, sconfessando di fatto l’impegno che era stato preso dall’ormai ex commissario di governo Fontana con i manifestanti.
Nei giorni successivi, celebrata la messa in Duomo, erano stati deliberati alcuni vitalizi per le famiglie dei soldati caduti più bisognose: 300 lire annue circa un quarto dello stipendio di un insegnante. Poi, si sarebbe pensato ad altro: completare l’edificazione della Mole, festeggiare con “un’artistica pergamena” il fidanzamento del principe ereditario Vittorio Emanuele con Elena di Montenegro, oltre a provvedimenti più prosaici come la costruzione di un “padiglione con cesso (sic) pubblico a pagamento” presso la stazione della ferrovia per Rivoli.
La partita con gli etiopi vittoriosi l’avrebbe poi riaperta Mussolini nel 1935, sconfiggendoli dopo sette mesi di aspri combattimenti, anche grazie all’uso di armi chimiche proibite dalle convenzioni internazionali.
(Claudio Raffaelli)