“Che fatica essere uomini!”, cantava Sergio Endrigo, ma essere donne può essere ancora più faticoso se gli stereotipi di genere, che vorrebbero obbligare gli uni e le altre a ruoli fissi e rigidi, non venissero riversati con frequenza e violenza di gran lunga superiori, sulle donne. Un chiaro segnale questo, che quei ruoli sono iniqui oltre che rigidi.
Viviana Ferrero presiede, nella mattinata del 6 dicembre, una Commissione pari opportunità dedicata agli stereotipi di genere e alla loro relazione con la violenza, che analizza, nel breve tempo dato, alcune dimensioni del fenomeno.
Ferrero stimola gli interventi: “gli stereotipi di genere passano di generazione in generazione, nonostante ci siano oggi molti strumenti culturali e i ragazzi vivano una vera mondializzazione. Spezzare questa catena è compito della famiglia ma anche della società e persino della pubblicità”.
Stefania Doglioli (Centro studi femminile) interpellata dall’interrogativo implicito nell’osservazione di Ferrero, che riguarda la persistenza nel tempo e la propagazione degli stereotipi, parte dalla definizione del fenomeno: “Vengono trasmessi perché li vogliamo trasmettere. Lo stereotipo infatti è una forma di comunicazione sintetica della nostra cultura. Lo stereotipo che io voglio smontare può essere quello che un altro vuole trasmettere. Dunque è importante la cultura a cui ognuno fa riferimento”.
Come dire che finché esistono culture, esisteranno stereotipi e dunque se è sul terreno culturale generativo che occorre agire, quali dovranno essere le azioni e quali gli attori?
Luisa Piarulli (Pensare oltre) individua principalmente la scuola come centro di un’azione formativa che impegni gli insegnanti, i genitori e gli adulti in generale in un ripensamento e in una ricostruzione moderna e non conservativa dei ruoli maschile e femminile, che giudica ormai confusi e inadatti a orientare la crescita dei bambini. Un suggerimento che suscita qualche reazione tra le persone presenti e induce Piarulli a qualche chiarimento sul tema, scivoloso perché molto complesso, di una possibile ridefinizione di funzioni educative (non per forza connesse ad un genere), forse, più che di ruoli.
Rita Turino (Garante della Regione Piemonte per l’infanzia e l’adolescenza), richiama l’attenzione sulla violenza assistita (trasmettitrice di stereotipi cristallizzati in atti criminali, capaci di riprodursi nel tempo, attraverso chi, ancora fragile, vi è stato esposto).
Per lei il filo rosso dell’azione educativa “è il progetto educativo della comunità educante: scuola, famiglia ma non solo, società sportive e tante altre realtà di una società ricca di soggetti attivi”.
Chiara Rollero (Dipartimento di psicologia università di Torino) sperimenta nel suo lavoro di docente la pervasività degli stereotipi, ben evidenziata dalla teoria della congruità del ruolo che spiega agli studenti. Eccola in estrema sintesi: le donne fanno meglio questo, gli uomini fanno meglio quello. Se non ti ci ritrovi non sei “congruo”. Ma la sperimenta anche come madre alle prese con cataloghi di giocattoli divisi in sezioni per maschi e femmine, con tanto di piccoli ferri da stiro e piccoli aspirapolvere.
Adriana Stramignoni (Consulta femminile comunale) segnala che la strada non è in discesa: “Nei miei 37 anni di lavoro nelle scuole per l’infanzia ho visto costantemente diminuire la quota degli insegnanti maschi. Recentemente un giovane maestro ha dovuto avviare un’azione legale per poter essere nominato”.
Silvio Lavalle