Disumano, inefficace e costoso: così è stato definito il Centro di Permanenza per i Rimpatri (CPR) di corso Brunelleschi, durante un incontro a Palazzo Civico promosso dalla Garante dei detenuti della Città di Torino, Monica Cristina Gallo, e dall’assessore Jacopo Rosatelli. Con loro, al tavolo dei relatori, il presidente della commissione consiliare Legalità, Luca Pidello e l’avvocata Laura Martinelli dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (ASGI). Un giudizio negativo che non si limita al CPR torinese, chiuso alcuni mesi fa e oggi in attesa di ristrutturazione per una riapertura (e anche un ampliamento,) ma che coinvolge tutte le 9 strutture di questo tipo diffuse sul territorio nazionale.
Il Consiglio comunale di Torino, del resto, il 13 marzo di quest’anno aveva approvato un ordine del giorno per auspicare che la chiusura del CPR di corso Brunelleschi diventasse definitiva, come ha ricordato Luca Pidello nel suo intervento, sottolineando come strutture di quel tipo non hanno niente a che fare con la sicurezza e impongono a chi vi viene trattenuto un’esperienza traumatica, che spesso interrompe percorsi positivi di integrazione e reinserimento. Un tavolo di lavoro avviato dalla Garante e dall’Assessorato al Welfare, con la partecipazione di giuristi, medici e rappresentanti del Terzo settore, tutti impegnati nell’ambito dell’immigrazione, si è poi messo al lavoro per individuare misure preventive e alternative al trattenimento in detenzione amministrativa. Nel corso dell’incontro, svoltosi questa mattina, sono stati forniti i dati del CPR Brunelleschi, che Monica Cristina Gallo ha definito “il simbolo del fallimento dei CPR”. Nel 2022, la struttura ha visto il transito di 879 persone, delle quali 199 uscite dal carcere dopo aver scontato la pena, le altre perché prive di permessi di soggiorno (o con i documenti scaduti): di queste, solo il 24% sono poi state effettivamente rimpatriate, una percentuale pari alla metà di quella rilevata a livello nazionale. Quello delle persone che, dopo avere scontato una condanna, transitano dal carcere al CPR, dove sono oggetto di quella che finisce per essere una pena detentiva supplementare, è stato segnalato come un aspetto particolarmente grave.
Nel 2023, nelle poche settimane intercorse tra l’inizio dell’anno e la chiusura del CPR dopo i danneggiamenti seguiti a una rivolta, in corso Brunelleschi erano arrivate 235 persone, delle quali sono poi state 46 rimpatriate. Il dato dei rimpatri, è stato sottolineato, è importante, poiché la normativa in vigore prevede che le persone straniere senza documenti di soggiorno possano essere trattenute fino a un massimo di 18 mesi in quella che è sostanzialmente assimilabile a una carcerazione.
Ogni rimpatrio, si è osservato, costa allo Stato 2365 euro non vengono effettuati soprattutto per l’inesistenza di appositi accordi con i Paesi di provenienza (fanno eccezione Tunisia, Albania, Marocco e pochi altri). Nel 2022, poi, al CPR Brunelleschi erano stati destinati più di 2.3 milioni di euro, con un costo medio a persona di circa 19mila euro. Strutture costosa, che non raggiunge il risultato previsto, inoltre non rispettosa dei diritti umani. Il dato più impressionante fornito nel corso dell’incontro parla di 1209 tentativi di suicidio nel 2021, mentre l’anno scorso il servizio di emergenza sanitaria ha dovuto effettuare 240 interventi, ma è stata anche sottolineato l’isolamento nel quale di trovavano, le persone trattenute in corso Brunelleschi dove le associazioni culturali e sportive non possono entrare per offrire attività per alleviare la situazione. Buona parte delle persone che finiscono nei CPR sono caratterizzate da fragilità psicologiche incompatibili con il trattenimento, spesso per eventi traumatici legati alla precarietà del loro percorso migratorio. Ancora vivo nella memoria collettiva è il caso di Moussa Balde, vittima di un’aggressione a sfondo razzista, confinato nel CPR Brunelleschi senza adeguata assistenza, che finì per togliersi la vita.
Eppure, ha spiegato l’avvocata Martinelli, anche la stessa legislazione oggi in vigore offre la possibilità di misura alternative al trattenimento, superando quello che è stato definito come “modello detentivo” senza per questo ignorare il tema della sicurezza; è infatti più facile integrare persone che non siano passate attraverso esperienze traumatiche di quel genere, con ricadute benefiche su tutta la comunità. Per evitare la misura del trattenimento in CPR in tessa del rimpatrio (misura che la stessa Direttiva rimpatri prevede solo come extrema ratio dopo aver esaminato altri strumenti) esisterebbero varie possibilità, ha spiegato Martinelli; la consegna alle autorità del passaporto, l’obbligo di firma o di dimora, il tutto con l’intervento anche delle istituzioni locali e la predisposizione di idonee strutture di accoglienza. Misure già previste dalla legge che potrebbero anche ottenere maggior collaborazione da parte della persona in attesa di rimpatrio. Nei Paesi dove queste sono state adottate, secondo uno studio della Fondazione Ismu, sono stati ottenuti buoni risultati con elevate percentuali di ritorni volontari al Paese d’origine e una diminuzione dei costi del 20% rispetto alla detenzione. Per i detenuti, poi, è stato evidenziato come molti di essi seguano in carcere di istruzione e formazione professionale, che il trasferimento a fine pena nei CPR interrompe e vanifica. Ci sono casi, poi, nei quali la persona detenuta chiede, come previsto dalla legge, che la sua condanna (se non superiore a 2 anni) venga commutata in espulsione, ma resta in carcere per difficoltà legate all’organizzazione del viaggio di rimpatrio