Alle 10.45 di domenica 18 dicembre, nella piazza omonima che ancora oggi, pur dopo la realizzazione della nuova stazione, per tanti torinesi rimane “Porta Susa”, la Città di Torino ricorderà un centenario di sangue, una delle pagine più buie della sua storia.
Fra il 18 e il 20 dicembre 1922, infatti, una rappresaglia dei fascisti, all’epoca coordinati sotto la Mole dal federale Pietro Brandimarte, portò all’uccisione di undici persone e al ferimento di altre trentasette. Pur se presentata come la rappresaglia per uno scontro a fuoco in Barriera di Nizza, che aveva lasciato sul terreno due fascisti, la vendetta fu compiuta colpendo persone inermi ed estranee al fatto ma individuate come avversari politici: a partire dal segretario della Camera del Lavoro (per l’occasione assalita e devastata), il quarantenne di orientamento anarchico Pietro Ferrero. La corrente politica libertaria, all’epoca, aveva infatti un certo radicamento nel movimento operaio torinese e aveva partecipato all’occupazione delle fabbriche del 1920, insieme alla Confederazione Generale del Lavoro diretta dai socialisti. Ferrero venne legato a un autocarro e trascinato a morte lungo corso Vittorio Emanuele II.
Di provenienza anarchica era anche un’altra delle undici vittime accertate (secondo gli stessi fascisti, i morti sarebbero stato più numerosi ancora), il quarantunenne consigliere comunale Carlo Berruti. Impiegato delle ferrovie dopo il suo rientro in Italia dopo anni passati all’estero, dirigente della sezione torinese dello SFI (il sindacato dei ferrovieri) Berruti aveva abbandonato da tempo l’anarchismo per aderire al Partito socialista italiano, con il quale era stato eletto in Sala Rossa in occasione delle elezioni amministrative del 1920. Nel gennaio del 1921, insieme ad alcuni altri consiglieri socialisti (tra i quali Angelo Tasca, in seguito divenuto assai noto) aveva seguito Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci nella fondazione del Partito comunista d’Italia, contribuendo a organizzarne la sezione torinese.
Berruti, il 18 dicembre, venne prelevato a forza nel suo ufficio delle Ferrovie, in corso Re Umberto all’angolo con via Valeggio, da un gruppo di militi fascisti armati. La ricostruzione di quello che avvenne in seguito, ben documentata dal libro Strage a Torino, scritto nel 1973 dallo dello scomparso giornalista Giancarlo Carcano e recentemente ristampato, ci dice che venne portato in auto dai suoi sequestratori fino alle campagne nei pressi di Nichelino, a sud della città. Fatto scendere, fu costretto a incamminarsi tra l’erba. Carlo Berruti camminò senza voltarsi, con passo deciso e la sua cartella sotto il braccio, assai probabilmente immaginando cosa sarebbe accaduto: a quel punto fu assassinato con vari colpi di arma da fuoco alla schiena.
Al fatto assistettero impotenti, terrorizzati e nascosti, alcuni operai delle ferrovie, intenti alla riparazione di una linea elettrica nella zona. I familiari di Berruti, poi accorsi sul luogo dell’omicidio, vi trovarono ancora gli squadristi a presidiare il cadavere e furono da questi insultati e sbeffeggiati. La vicenda venne poi ricostruita anche tramite alcune testimonianze rese durante i processi che si tennero all’indomani della Liberazione.
Del consigliere Carlo Berruti, dalla Regia Prefettura ancora schedato come “pericoloso anarchico” e per di più “convivente con altra nota sovversiva”, parlò poi il sindaco liberale Riccardo Cattaneo nella seduta prenatalizia del Consiglio comunale, “rimpiangendone”, così disse, la morte e “il modo tragico con il quale gli fu tolta la vita”. Ma questo non prima di aver reso omaggio alla “balda gioventù che si raccoglie e cementa nel nome d’Italia”, un riferimento neppure troppo velato agli stessi fascisti. Furono poi le parole con le quali chiuse la rapida commemorazione a suonare quasi beffarde: “Stringiamoci tutti attorno alla persona di sua maestà il re e del suo governo, per la difesa d’Italia”.
Il capo del governo incaricato da Vittorio Emanuele III altri non era che Benito Mussolini, mandante morale di quello e di altri omicidi: ma in quella fase, la vecchia classe politica liberale faceva parte a pieno titolo di questa operazione di istituzionalizzazione del fascismo, dal quale sarebbe poi stata ben presto esclusa a sua volta dal potere.
Ad amara conclusione della tragica vicenda, il figlio di Berruti (ancora un ragazzo) che lavorava a sua volta per le Ferrovie come apprendista, venne immediatamente licenziato a opera della direzione, commissariata dai fascisti, con il pretesto dello “scarso rendimento”.
Claudio Raffaelli