Linee guida per un utilizzo non discriminatorio del linguaggio in base al genere nell’attività amministrativa: così s’intitola un corposo opuscolo elaborato dall’Area Giovani e Pari opportunità della Città di Torino – stampato nei giorni scorsi e presentato nel corso di una riunione congiunta delle commissioni I Personale e Pari opportunità – che ha concretizzato quanto indicato da una mozione del Consiglio comunale approvata nel 2015. Il provvedimento consiliare impegnava il Comune ad adeguare, beninteso “nel rispetto della lingua italiana, tutta la modulistica e la comunicazione sui siti in modo da mettere in evidenza entrambi i generi”. Un’indicazione, questa, già contenuta in una direttiva europea del 2006 e da una direttiva ministeriale dell’anno successivo. In sostanza, come indicava quest’ultima disposizione, si tratta di utilizzare in tutti i documenti ufficiali un linguaggio che utilizzi entrambi i generi, maschile e femminile: “persone” e non “uomini”, così come “i lavoratori e lavoratrici”, evitando inoltre di inviare “i pazienti” a segnalare il loro eventuale stato di gravidanza prima di una radiografia. Una tendenza che riflette sulla struttura linguistica le modifiche strutturali di un’intera società. E che, peraltro, non è solo relativa al nostro Paese: un deputato francese è stato a suo tempo sanzionato per essersi ostinato a usare la dizione “madame LE président” (e non “LA”) nei confronti della presidente dell’Assemblée nationale. L’idea di fondo è quella di superare assetti linguistici che, consolidatisi nel corso di secoli, hanno di fatto sancito una visione subalterna della donna. Tanto che il termine “operaia” è di uso secolare, mentre il termine “sindaca” è stato sdoganato in tempi recentissimi e non senza qualche resistenza, nonostante le donne a capo di un’amministrazione comunale – anche di grandi città come Roma, Parigi, Barcellona o Torino – non siano più una novità già da diversi decenni. Le Linee guida, che dovranno orientare tutte le attività amministrative e di comunicazione degli uffici comunali torinesi, chiariscono, grammatica alla mano”, che se il termine “dirigente” viene utilizzato al maschile come al femminile (con l’articolo “il” o “la” a distinguere), la parola direttore ha il suo corrispondente al femminile (direttora). Avremo inoltre “la capa” (ma “la capoufficio”) e “gli agenti e le agenti della Polizia Municipale” sanzioneranno “gli abusivi e le abusive”. Allo stesso modo, sui moduli del Comune non troveremo più “il dichiarante” ma “la persona dichiarante”, non più “il genitore” ma “il genitore/la genitrice”, mentre non ci saranno più “i futuri sposi” bensì “il futuro sposo e la futura sposa”. E si scriverà “avvocata” e non “avvocatessa”, scompariranno “i dipendenti” per essere sostituiti da “il personale dipendente” oppure “i/le dipendenti”. La tesi di fondo di questi provvedimenti che, senza stravolgere la lingua italiana, ne riordinano l’uso, è quella riassunta dall’avvocata Maria Spanò, consigliera di fiducia dell’Università di Torino: “le parole concorrono a formare le identità individuali e collettive e sono un potente mezzo per l’affermazione o, per converso, la negazione di diritti”. Nonostante alcune prevedibili resistenze culturali, legate alla consuetudine o chissà, forse anche a inconfessati stereotipi, vi è la convinzione che da una nuova consapevolezza dell’uso del linguaggio si passerà alla semplice abitudine. Con una lingua rinnovata che potrà non solo riflettere, ma anche favorire, gli ulteriori e ancora necessari progressi nell’affermazione della parità di genere nella società italiana.