Il futuro del Paese dipenderà, senza dubbio, da come saranno utilizzate le risorse del Recovery Fund. Ne sono convinte le donne del movimento “Il Giusto mezzo” sottolineando come la metà dei fondi europei debba essere investito in opportunità di lavoro per le donne, in servizi di cura per bambini, anziani, disabili e nella lotta alle discriminazioni di genere, tre leve che possono far riprendere la crescita del Pil e rappresentare un forte elemento di ripresa.
Il tema è stato illustrato da Azzurra Rinaldi, animatrice del Movimento e docente di Economia all’Università di Roma, durante una riunione della commissione Diritti e Pari Opportunità, presieduta da Cinzia Carlevaris.
Rinaldi ha presentato una ricerca, effettuata con una collega austriaca, che ha come obiettivo, una volta analizzato il contesto micro e macroeconomico, la valutazione dell’impatto di genere dei fondi NextGen EU su uomini e donne e l’elaborazione di proposte.
L’analisi evidenzia come l’Europa, in molti documenti, indichi obblighi formali in tema di parità di genere e sottolinea come la pandemia, da un punto di vista economico abbia colpito prevalentemente le donne, molte delle quali impegnate, durante il lockdown, in lavoro di cura non retribuito con il conseguente rischio di incorrere nella disoccupazione.
In media, in Europa, il 45% del lavoro femminile è retribuito contro il 67% delle donne. Il 75% del lavoro di cura informale viene fornito dalle donne. Quelle con bambini sotto gli 11 anni riferiscono di non riuscire a dedicare il tempo che desiderano al lavoro.
La ricerca evidenzia come durante l’emergenza pandemica, i settori lavorativi più colpiti sono stati quelli dove è maggiore la presenza femminile: istruzione, assistenza e sanità, lavori domestici e, in parte, i settori della ristorazione e della cultura mentre i settori sui quali si concentrano i fondi europei sono quelli delle costruzioni, dell’agricoltura, dell’energia, dei trasporti, dell’informazione e della comunicazione, ambiti nei quali prevalgono gli uomini, da un punto di vista numerico. Durante la crisi, su 100 ditte, 38 a conduzione femminile hanno dovuto chiudere contro le 28 degli uomini così come il calo di fatturato si è registrato prevalentemente tra le ditte femminili. La controprova è data da ditte che non hanno avuto cali di fatturato, tra le quali prevalgono quelle maschili.
Le start up innovative femminili, per ogni singola regione, sono in numero ben al di sotto del 50% rispetto a quelle maschili.
La ricerca si conclude con alcune proposte e raccomandazioni.
Occorre investire molto nella cura anche per il potenziale moltiplicativo che ne deriva, gestire le transizioni verde e digitale in una prospettiva di genere. Tutti i piani nazionali devono contenere valutazioni impatti di genere e prevedere il cosiddetto Gender budgeting. Tre sono i fattori che possono rendere il Piano nazionale efficace per produrre effetti moltiplicativi dal punto di vista del reddito e dell’occupazione: il lavoro, le infrastrutture sociali e il gap gender.
Occorre potenziare l’imprenditoria femminile, liberare la forza lavoro femminile dai lavori di cura non retribuiti, aumentare il sostegno agli anziani, perché le donne, nela fascia centrale della vita, non debbano farsi carico contemporaneamente di figli e genitori, con conseguente perdita di produttività proprio nel momento in cui potrebbe esprimere il massimo del potenziale.
L’Italia è al 76° posto per parità di genere. Occorre intervenire sulla parità salariale ma anche sui congedi di paternità obbligatori a 5 mesi come per le donne, perché sia garantita parità di accesso al mondo del lavoro per uomini e donne.
Infine, è necessario valutare l’impatto di genere sul denaro pubblico speso perché le politiche fiscali impattano in modo diverso sugli uomini e sulle donne.
Federico D’Agostino