Macroeconomia:
Analisi della realtà economica che privilegia l'insieme degli operatori economici considerati come un'unica entità.
La macroeconomia riguarda i fenomeni economici a livello generale: si interessa ad esempio all'investimento in generale o al reddito delle famiglie, ma non ai motivi che spingono una certa impresa a effettuare un determinato investimento o che spiegano l'evoluzione del salario individuale. Questa scelta non è ovviamente neutrale: si basa sull'ipotesi che non si può spiegare il tutto attraverso i comportamenti individuali (o microeconomici). Il proprietario di un'impresa, ad esempio, investirà in base alle proprie disponibilità di liquidità o di prestito, degli sbocchi possibili, dei comportamenti della concorrenza, ecc. Nell'insieme dell'economia, però, l'investimento globale dipenderà piuttosto dai tassi di interesse, dal ritmo di crescita previsto, ecc. Keynes, che privilegiava l'approccio macroeconomico, spiegava questa teoria sostenendo che i comportamenti dei dirigenti di impresa dipendono da "istinti animali", cioè gli imprenditori si influenzano a vicenda, con tendenza a imitarsi, poiché ognuno ritiene che se il concorrente ha investito, è necessario fare lo stesso per non perdere quote di mercato e, cosa più importante, se l'altro ha agito così vuol dire che dispone di informazioni nascoste. Il risultato, sempre secondo Keynes, è che ciò che potrebbe sembrare logico a livello microeconomico (per ogni dirigente di impresa) non è detto che lo sia anche a livello macroeconomico (per l'economia nel suo insieme).
L'approccio macroeconomico mette in evidenza le interrelazioni generali: il salario, ad esempio, è un costo per l'impresa (approccio microeconomico), ma è la principale fonte di reddito delle famiglie, dunque una componente fondamentale del livello e dell'evoluzione dei consumi (approccio macroeconomico). Tale criterio è stato adottato dagli economisti classici, incluso Marx: essi mettevano l'accento sul "sistema" nel suo complesso, sulle sue capacità di sviluppo, di stagnazione o di crisi. Gli economisti neoclassici venuti dopo hanno invece privilegiato i comportamenti individuali, ritenendo che il mercato, principale regolatore, dipendesse da questi e soprattutto dalla ricerca razionale della massimizzazione dell'utilità (nel caso dei consumatori) o del profitto (nel caso dei produttori). Keynes segna un ritorno all'approccio macroeconomico. Da una decina di anni sembra che l'ago della bilancia si sia di nuovo spostato dall'altra parte.
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Mano invisibile:
Celebre espressione di Adam Smith, che descrive come il mercato, all'insaputa dei suoi componenti, contribuisca ad orientare le decisioni degli uni e degli altri a vantaggio dell'interesse comune. Ognuno crede di agire per interesse personale, ma contribuisce all'interesse collettivo.
L'espressione di Adam Smith è una felice metafora: riassume un programma ideologico volto a fare del mercato l'unico regolatore di tutta la vita economica. È per questa ragione che l'espressione è ripresa così frequentemente tanto dagli oppositori che dai sostenitori di questo programma.
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Marxismo:
Indica l'insieme delle analisi sviluppate da Marx e dai suoi successori.
Da un punto di vista economico e sociale, il marxismo si basa principalmente sull'analisi delle classi sociali e sulla teoria del valore. Le classi sociali vengono definite in rapporto alla proprietà dei mezzi di produzione e le due classi principali, il proletariato e la borghesia, hanno interessi contrapposti. Quanto al valore delle merci, si ritiene che questo dipenda dalla quantità di lavoro socialmente necessario a realizzarle. Da questi due concetti di base deriva che il capitalismo è inevitabilmente segnato da fenomeni di lotta di classe che provocano crescenti squilibri, che lo destinano allo scomparsa. Il marxismo ha indubbiamente un orientamento materialista: sono le strutture materiali (e il cambiamento tecnologico) che costituiscono il motore della storia. Si è discusso molto sul carattere più o meno meccanicistico di questa analisi, ossia sulla maggiore o minore dipendenza della storia degli uomini dalle loro scelte. Nonostante alcuni discepoli di Marx abbiano indiscutibilmente sviluppato tesi meccanicistiche, non si può affermare lo stesso per Marx, data la complessità e la ricchezza storica delle sue analisi.
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Mercantilismo:
Corrente di pensiero apparsa nel Sedicesimo secolo in Spagna, Francia e Gran Bretagna. Secondo questa teoria è importante registrare un avanzo con l'estero per garantire la potenza e la ricchezza del sovrano.
I mercantilisti - Colbert, Forbonnais, ecc. - sono stati tutti consiglieri del Principe e di conseguenza hanno studiato il modo per favorire la sua potenza. A quell'epoca il commercio estero si basava sulla capacità di pagare in oro, perciò detenere ricchezze monetarie in metalli preziosi dava la possibilità di fare a meno dei banchieri, dell'imposta e inoltre permetteva di condurre una politica indipendente. Si è molto rimproverato ai mercantilisti di aver confuso la ricchezza con l'oro, di essere stati vittime di un'illusione monetaria: la moneta (anche in oro) è solo un mezzo per procurarsi la ricchezza, che è invece realizzata dalla produzione. Queste critiche però non sono del tutto fondate: i mercantilisti non hanno nulla a che fare con l'Avaro di Molière, continuamente impegnato a contare e ricontare i suoi scudi. Per loro il metallo prezioso era solo un mezzo: quello della potenza del sovrano.
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Mercato:
In origine indicava il luogo in cui si confrontavano l'offerta e la domanda di un prodotto. E ancora oggi, in questo senso, esistono i mercati di frutta e verdura. Per estensione il termine indica l'offerta e la domanda di un determinato prodotto senza riferimento al luogo (si parla così del "mercato dell'automobile", anche se è composto da numerosi operatori geograficamente lontani: concessionari, annunci, garagisti, ecc. ). Sempre per estensione il termine indica, in modo ancora più generale, un sistema di fissazione dei prezzi attraverso l'incontro tra un'offerta e una domanda separate (si parla così di un'economia di mercato, o degli orientamenti del mercato).
L'esistenza di un mercato è subordinata alla variabilità dei prezzi: se questi fossero fissi o stabiliti da un'autorità esterna (ad esempio il Piano o il feudatario) non ci sarebbe mercato, ma soltanto un ordine con la constatazione alla fine di un'insufficienza o di un eccesso di offerta rispetto alla domanda. Si ha mercato quando si osservano fluttuazioni di prezzo, le quali a loro volta possono provocare cambiamenti nell'ammontare dell'offerta e/o della domanda. È questo meccanismo di aggiustamento che per i liberali ha virtù regolatrici e offre a ogni operatore economico un'informazione precisa che determina il suo comportamento.
L'esistenza di mercati (nel senso originario del termine, con il confronto fisico di offerta e di domanda) è molto antica, gli storici (in primo luogo Fernand Braudel) hanno mostrato che nei villaggi il mercato fa parte delle istituzioni più antiche, che hanno preso la forma di mercati coperti, fiere, piazze, ecc. Ma finché questi mercati rimangono secondari e la maggior parte dei rapporti sociali e di scambio continuano a essere retti da consuetudini, da regole o da istituzioni che non dipendono dal calcolo e da strategie di profitto, non possiamo parlare di capitalismo. Il termine economia di mercato, con il quale generalmente lo si indica, non deve indurre in errore: l'esistenza di mercati è una condizione necessaria ma non sufficiente; è necessario che i mercati siano estesi, ossia che diventino il sistema normale di scambio e il supporto di strategie di investimento dirette al profitto.
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Mercato comune del Cono sud (Mercosur):
La sigla (spagnola) definisce l'unione doganale tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay creata nel 1995.
L'unione doganale indica una volontà di integrazione più forte di una semplice zona di libero scambio. È il caso di questi paesi che, a eccezione del Paraguay, hanno un sviluppo economico grosso modo uguale. Il loro obiettivo è creare una specializzazione che permetta di beneficiare di economie di scala. Oltre all'istituzione di una tariffa esterna comune, i paesi del Mercosur hanno deciso di finanziare investimenti comuni in infrastrutture di trasporto (ferrovie, reti stradali), in modo da rafforzare le capacità di integrazione.
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Mercato dei cambi:
Mercato sul quale vengono quotate le valute.
Un mercato dei cambi è composto generalmente da una parte in contanti e da un'altra a termine. È una struttura organizzata: esiste un'autorità che vigila affinché le transazioni siano effettuate correttamente, ne controlla l'esecuzione e la trasparenza. Gli operatori del settore sono autorizzati da questa autorità e possono essere puniti o addirittura espulsi nel caso non rispettino le regole. Esiste quindi un'enorme differenza tra un mercato dei cambi e un mercato nero, poiché quest'ultimo per definizione non è né regolato né controllato e la trasparenza delle transazioni (quantità, prezzo) non è garantita.
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Mercato dei capitali:
Indica i mercati sui quali si possono riscuotere capitali propri (emissione di azioni) o prendere in prestito somme di denaro. L'obiettivo del mercato è quello di fissare le contropartite (tassi di interesse, data e modalità di rimborso, garanzie in caso di prestiti, valore dell'azione in caso di capitali riscossi). Per ciò che riguarda i prestiti, le somme che sono oggetto di transazioni sono così elevate che i privati non vi hanno accesso.
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Mercato del lavoro:
Mercato sul quale si incontrano l'offerta (da parte dei lavoratori che offrono la propria forza lavoro) e la domanda di lavoro (da parte dei datori di lavoro che vogliono assumere).
Il mercato del lavoro non è come gli altri. Innanzitutto la realtà mostra che esso è molto "segmentato": non solo per specializzazione, anzianità, livello di istruzione, ecc. , ma anche perché riguarda soltanto una parte dei lavoratori dipendenti, cioè coloro che hanno perso il loro precedente impiego, che vogliono lasciarlo, o che arrivano per la prima volta sul mercato del lavoro. In altre parole la prospettiva di carriera della maggior parte dei lavoratori dipendenti impedisce di tornare sul mercato del lavoro. Quest'ultimo non è quindi il principale luogo in cui si fissa il salario, poiché buona parte dei salari sono fissati attraverso contrattazioni interne alle imprese: a volte si parla di mercato interno del lavoro per indicare questa contrattazione, che non passa sul mercato del lavoro. Inoltre questo mercato fissa il prezzo di un "prodotto" molto particolare: ovviamente i meccanismi di mercato non possono portare a livelli di prezzo tali da non permettere ai salariati di sopravvivere o di crescere i propri figli. Esistono perciò dei limiti alla loro diminuzione, che sono molto spesso imposti dalle autorità (salario minimo legale), o dalle organizzazioni sociali (salari minimi contrattuali). Infine il mercato del lavoro sottolinea la presenza di operatori economici con poteri diversi: da un lato i datori di lavoro, che in genere possono permettersi di aspettare, dall'altro persone che hanno disperato bisogno di lavorare per sopravvivere. Per evitare che questo potere disuguale generi una società troppo squilibrata, si è progressivamente creato un diritto sociale, che prevede un certo numero di garanzie per i lavoratori dipendenti (a svantaggio della flessibilità) attraverso una limitazione dei diritti dei datori di lavoro: procedure di licenziamento, obbligo di organizzare e consultare le associazioni rappresentative dei lavoratori, ecc.
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Mercato finanziario:
Mercato sul quale vengono quotati i prodotti finanziari (azioni, obbligazioni, prodotti derivati).
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Mercato monetario:
Mercato sul quale le banche scambiano la moneta centrale.
La moneta centrale è quella emessa dalla Banca centrale: è l'unica ad avere valore legale. Nei fatti però la maggior parte degli operatori economici detiene depositi in banca con i quali effettua i propri pagamenti: è la moneta bancaria (vedere moneta). Resta il fatto che ogni agente ha il diritto di ritirare dal proprio conto tutti o una parte dei suoi crediti in moneta centrale. La Banca centrale esige dalle banche commerciali che esse saldino gli eventuali debiti nei suoi confronti (soprattutto a titolo di riserve obbligatorie) in moneta centrale. Esiste quindi un bisogno di moneta centrale che spiega l'esistenza del mercato monetario. Su questo mercato le banche che detengono un surplus di moneta centrale (ad esempio perché hanno ricevuto divise che hanno venduto alla Banca centrale, la quale le ha pagate in moneta centrale) prestano a breve termine (da uno a trenta giorni) alle banche che hanno bisogno di moneta centrale e a un tasso che dipende dall'importanza rispettivamente dell'offerta e della domanda; questo tasso è chiamato tasso monetario.
Se la Banca centrale aumenta le proprie esigenze in materia di riserve obbligatorie, ciò porta a un aumento del tasso monetario. La Banca centrale può anche intervenire sul mercato: immettendo liquidità (acquista titoli commerciali presso le banche commerciali o li prende con un'operazione di pronti contro termine) o ritirandola (aumenta l'ammontare delle riserve obbligatorie od offre tassi più alti rispetto alle banche commerciali per convincere alcune di esse, che hanno un eccesso di moneta centrale, a prestarla a lei anziché alle altre banche commerciali). Quando la Banca centrale interviene in questo modo sul mercato, essa attua l'open market (operazioni di mercato "aperto", sottinteso "alla Banca centrale"). Ciò le permette di aumentare o di ridurre i tassi monetari. Questi ultimi diventano quindi degli indicatori della politica monetaria seguita dalla Banca centrale: restrittiva (se i tassi monetari crescono) o espansiva (se si riducono).
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Mercato obbligazionario:
Settore del mercato finanziario sul quale vengono quotate le obbligazioni, ossia i titoli di prestito che producono un interesse e che sono rimborsabili a una determinata data.
La funzione del mercato obbligazionario è quella di assicurare la liquidità di titoli la cui scadenza può essere lontana nel tempo. Il prezzo della transazione viene determinato in funzione del valore nominale del titolo, della sua data di scadenza, e, soprattutto, del tasso di interesse a cui è stato emesso. Se nel momento della transazione sul mercato obbligazionario il tasso d'interesse delle obbligazioni "nuove" è aumentato rispetto a quello delle obbligazioni negoziate sul mercato obbligazionario, i possessori di queste ultime saranno obbligati a vendere al di sotto del valore nominale, poiché i potenziali acquirenti vorranno percepire un tasso d'interesse almeno pari a quello delle obbligazioni nuove emesse nello stesso momento. Di conseguenza, quando i tassi d'interesse (a lungo termine) aumentano, il valore dei titoli sul mercato obbligazionario tende a scendere, mentre aumenta quando i tassi d'interesse si abbassano.
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Mib 30:
È l'indice della borsa valori di Milano, calcolato giornalmente sulla base dei 30 titoli più scambiati sul mercato (blue chips). I flussi di ordini di acquisto e di vendita su tali titoli sono sufficientemente elevati da garantire il funzionamento di un sistema di contrattazione continua che permette di determinarne in qualsiasi momenti il prezzo (corso o quotazione) derivante dall'incontro della domanda e dell'offerta. L'indice, costruito ponderando il prezzo di ogni titolo con il volume di contrattazioni relativo al titolo stesso durante la seduta di borsa, può quindi essere calcolato in qualsiasi momento. L'importanza dei 30 titoli ricompresi nel paniere del Mib permette di considerare tale indice rappresentativo delle fluttuazioni dell'insieme dei titoli quotati in borsa. Da cui il ruolo del Mib 30, ritenuto espressione sintetica dell'andamento della borsa nel suo complesso.
In realtà l'indice Mib 30 non è fortemente rappresentativo ma gioca un ruolo essenziale nelle scelte di acquisto o vendita degli attori del mercato borsistico, operando non tanto come uno specchio, quanto come un segnale che agisce sulle aspettative degli operatori del mercato. È noto inoltre che la borsa è per eccellenza il luogo dei movimenti speculativi: una discesa del Mib 30, influenzando le aspettative, può generare una ulteriore discesa, così come un suo rialzo può provocare un'ulteriore ripresa delle quotazioni, il tutto nell'ambito di movimenti che nulla in teoria limita, se non la coscienza diffusa degli operatori di essere andati troppo lontano.
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Modo di produzione:
Termine di origine marxista che indica la natura dei legami esistenti tra i produttori e i proprietari dei mezzi di produzione. Nel modo di produzione schiavistico, i produttori sono proprietà personale del possessore dei mezzi di produzione, che fissa unilateralmente le condizioni di produzione (ritmo, lunghezza della giornata lavorativa, remunerazione, punizioni e così via). Nel modo di produzione asiatico l'unico proprietario è il sovrano, che dispone dell'insieme della forza lavoro per effettuare lavori collettivi (irrigazione, costruzioni funerarie, ecc. ). Nel modo di produzione feudale i produttori devono compiere lavori obbligatori in favore di un'aristocrazia feudale strutturata gerarchicamente secondo legami di vassallaggio: i signori sono proprietari della terra e devono proteggere i loro servi, i quali in cambio devono coltivare la terra e dare al signore i frutti del loro lavoro. Infine nel modo di produzione capitalistico i lavoratori sono liberi da qualunque vincolo personale ma, non potendo possedere i mezzi di produzione, sono costretti a vendere la loro forza lavoro alla borghesia proprietaria, che in questo modo può appropriarsi del plusvalore prodotto dalla valorizzazione della forza lavoro dei proletari lavoratori.
Si è molto criticato il determinismo tecnologico di Marx: il teorico tedesco infatti ha sottolineato che l'esistenza di un modo determinato di produzione era legato alla natura dei mezzi di produzione ed è arrivato al punto di scrivere che: "È stato il mulino a vento ha far nascere il feudalesimo". In ogni caso l'accento posto sugli strumenti, sul modo in cui organizzano le relazioni sociali, è decisivo per comprendere l'evoluzione di società nelle quali le tecniche svolgono un ruolo sempre più importante.
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Mondializzazione:
Indica la situazione nella quale un'impresa determina la sua localizzazione, i suoi approvvigionamenti, il suo finanziamento, i suoi circuiti di commercializzazione, le sue assunzioni o addirittura i suoi mercati su scala mondiale, comparando i costi e i benefici che le procurano ognuna delle possibili soluzioni nazionali. In senso lato indica la struttura globale di interdipendenza e di interpenetrazione delle economie nazionali.
La mondializzazione introduce un importante cambiamento, quasi una rottura, nei processi di internazionalizzazione all'opera da diversi decenni. L'internazionalizzazione infatti implica solo un'intensificazione degli scambi internazionali, quindi dei fenomeni di specializzazione da una paese all'altro (vedere vincolo estero). La mondializzazione implica una "ottimizzazione" delle diverse operazioni di produzione e commercializzazione su scala mondiale: subappaltare, localizzare e commercializzare le varie operazioni nei vari paesi. Il contributo specifico di ogni paese in questo processo globale (vedere globalizzazione) dipende dai vantaggi specifici che questo è suscettibile di portare: manodopera a buon mercato, infrastrutture di qualità, la vicinanza di una rete fitta e dinamica di ricerca e sviluppo, una sofisticata e poco costosa ingegneria finanziaria e così via. La mondializzazione mette quindi in concorrenza non più i prodotti, ma i sistemi produttivi e sociali. Di conseguenza il mantenimento di questo o quel tipo di benefici sociali in un determinato paese (un livello salariale più elevato, oneri sociali che permettono di finanziare un sistema di previdenza sociale, ecc. ) dipende dalla sua capacità di offrire in cambio vantaggi specifici, per i quali le aziende interessate sono disposte a pagare i corrispondenti costi salariali od oneri sociali. La mondializzazione quindi costringe i paesi che vogliono adottarla a elevare il livello di competenza della loro manodopera, la qualità dei loro collegamenti internazionali, ecc. Altrimenti la sola alternativa è quella di ridurre i salari, gli oneri sociali o le imposte, così da attirare con i costi inferiori le imprese che non possono attirare con elementi qualitativi.
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Moneta:
Indica qualunque strumento di pagamento comunemente accettato in una determinata società.
Una moneta si basa prima di tutto su una convenzione: l'accetto perché so che gli altri l'accetteranno a loro volta. Questa convenzione può essere prodotta da una decisione pubblica vincolante: questa moneta avrà corso legale (ciò significa che i creditori sono tenuti ad accettarla per il pagamento del loro credito). Ma non è sempre così: una moneta può anche essere il frutto di una credenza comune (è questo che fa dell'oro una moneta perché, a torto o a ragione, ognuno è convinto che l'oro detenga un valore intrinseco che ne fa una moneta più sicura). Come scrive Jean-Pierre Dupuy, il valore della moneta "si basa in fin dei conti sull'esistenza di un'immensa catena di credulità condivisa".
Nei sistemi monetari contemporanei si distingue abitualmente la moneta fiduciaria (emessa dalla Banca centrale e la cui accettazione non è data da un valore intrinseco, come l'oro, ma da una decisione legale) dalla moneta bancaria (quella gestita dalle banche commerciali e che dà vita ai pagamenti mediante assegno, carta di credito o bonifico). La moneta metallica indica una moneta che non è emessa da una Banca centrale, ma che risulta da un'unità di riferimento commerciale: questo sistema monetario è scomparso nel 1914, data in cui è ufficialmente venuto meno il sistema aureo, prima del suo abbandono definitivo nel 1944. La moneta divisionaria indica le monete o le banconote (coniate ed emesse in Italia dalla zecca, un'organizzazione statale, e messe in circolazione dalla Banca d'Italia).
Il termine moneta forte indica una moneta il cui tasso di cambio ha tendenza ad apprezzarsi rispetto a quello dei principali partner economici. Al contrario una moneta debole è una moneta il cui potere di acquisto interno diminuisce a causa dell'inflazione e il cui potere di acquisto estero (determinato dal tasso di cambio) diminuisce anche per la svalutazione sul mercato dei cambi.
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Moneta di riserva:
Moneta utilizzata nella composizione dei depositi di cambio detenuti dalle Banche centrali per garantire la convertibilità della loro moneta.
In teoria tutte le monete convertibili hanno la possibilità di diventare monete di riserva: essendo convertibili possono diventare oggetto di una domanda sui mercati dei cambi. In pratica però alcune monete sono più usate di altre. È più comodo avere dollari che corone danesi, perché la domanda di dollari è più frequente di quella di corone. Di conseguenza le monete di riserva si concentrano su un piccolo numero di monete: soprattutto dollari, yen e marchi (probabilmente questo sarà anche il destino dell'euro).
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Monetarismo:
Scuola di pensiero secondo la quale la moneta influisce sui prezzi. Di conseguenza l'arma monetaria va utilizzata solo per lottare contro l'inflazione, altrimenti si rivela inutile e pericolosa. Inutile perché la politica monetaria è incapace di stimolare l'economia e quindi di avere un effetto sulla crescita, pericolosa perché con l'arma monetaria si rischia di avere inflazione.
Il monetarismo è una delle più vecchie dottrine economiche. Si basa sull'idea che la moneta è "neutrale", che non influenza né la produzione né la distribuzione del reddito. Fortemente scosso da Keynes, che ha mostrato come una politica monetaria poteva avere il risultato di frenare o di stimolare la crescita attraverso l'utilizzo del tasso d'interesse, il monetarismo ha ritrovato nuovo vigore con Milton Friedman. Il monetarismo moderno non nega che la politica monetaria possa avere un effetto di stimolo ma affermano che questo diventa sempre meno consistente via via che gli operatori economici vi si abituano e che, a termine, la politica monetaria provoca solo un'accelerazione dell'inflazione. Da un punto di vista più filosofico, il fondamento del monetarismo risiede nell'idea che gli uomini ne sanno meno del mercato stesso e quindi, a voler giocare agli apprendisti stregoni, si finisce prima o poi per provocare catastrofi (niente crescita e per di più inflazione).
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Movimenti di capitali:
Acquisti di valute con finalità diverse dal pagamento di un debito commerciale.
Il termine è riservato ai movimenti internazionali di capitali, che sono individuati attraverso i cambiamenti di divise. Per contabilizzarli si misurano solo gli acquisti di divise, poiché per definizione un acquisto mette in gioco due valute: quella del paese di origine e quella del paese di destinazione. Spetta alla Banca dei regolamenti internazionali registrare questi movimenti, sulla base delle dichiarazioni delle Banche centrali che ne sono membri.
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Multilateralismo:
Situazione nella quale una concessione o un vantaggio (commerciale, doganale, finanziario, ecc. ) accordato da un paese a un altro paese è automaticamente esteso a tutti i firmatari dell'accordo nell'ambito del quale la concessione o il vantaggio è stato accordato.
Il multilateralismo esiste soprattutto in campo commerciale: è una delle norme del Gatt (ormai Omc), detta "regola della nazione più favorita" (ciò che un paese firmatario accorda a un altro firmatario, deve accordarlo a tutti gli altri firmatari).
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Multinazionale:
Impresa con impianti di produzione in almeno due paesi.
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Neoclassico:
Aggettivo utilizzato nella teoria economica contemporanea per indicare i ragionamenti che combinano un approccio marginalista in microeconomia e un approccio keynesiano in macroeconomia. L'approccio marginalista implica l'ipotesi di individui razionali, che cercano di massimizzare la loro soddisfazione (utilità per i consumatori, profitto per gli imprenditori). L'approccio keynesiano implica che in determinate circostanze i meccanismi di aggiustamento del mercato sono imperfetti e vanno quindi completati, inquadrati o regolati attraverso un'azione pubblica (politica economica o intervento strutturale).
Esiste in realtà una grande diversità nei vari approcci neoclassici, a seconda dell'importanza data alla teoria keynesiana: a un estremo troviamo i neoclassici di ispirazione liberale, che minimizzano le disfunzioni o le insufficienze del mercato (ad esempio Franco Modigliani), all'altro estremo vi sono i keynesiani che si limitano a completare l'approccio macroeconomico abituale con giustificazioni di carattere microeconomico (ad esempio Edmond Malinvaud). È John Hicks (un economista inglese) che per primo nel 1937 ha proposto una "sintesi" che faceva dell'approccio keynesiano un caso particolare della teoria dominante all'epoca. Di conseguenza il termine "neoclassico" indicava, prima di questa sintesi, la corrente dominante in economia, e cioè la corrente marginalista, incentrata quasi esclusivamente sull'analisi microeconomica, secondo la quale i meccanismi del mercato avevano sufficienti capacità di aggiustamento. Lo stesso termine "neoclassico" proviene dal fatto che tra il 1870 e 1890 gli economisti abbandonarono in massa l'approccio "classico", basato sul valore lavoro, per adottare l'analisi marginalista basata sul valore utilità e sul concetto di funzione di produzione.
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New Deal:
Letteralmente "nuova mano" (in una partita a carte). Termine coniato dai consiglieri di Franklin D. Roosevelt (intellettuali soprannominati le "teste d'uovo") nel 1932 per simboleggiare la volontà della Presidenza degli Stati Uniti di ridare a tutti una possibilità per sfuggire alla crisi. Il termine ha finito per indicare anche la politica anticrisi condotta tra il 1933 e il 1935 da Roosevelt: sostegno dei prezzi agricoli, avvio di grandi lavori pubblici e organizzazione dei primi elementi di uno stato assistenziale (assicurazione contro la disoccupazione, sussidi pensionistici e aiuti in natura per i più poveri).
Il New Deal era di natura interventista: rompendo con una vecchia tradizione di diffidenza nei confronti dello stato federale (di cui la guerra di Secessione era stata la manifestazione più estrema), si adoperava per rendere le strutture pubbliche responsabili della politica anticrisi, attraverso l'utilizzo di fondi destinati a lottare contro la povertà e il rilancio dell'attività economica. Per gli Stati Uniti si trattava di una rottura fondamentale con il passato. Probabilmente ciò si spiega con la gravità della crisi, la cui ampiezza era tale da minacciare l'intero paese. Ma questa rottura, sebbene accettata da una (ridotta) maggioranza, ha provocato in seguito molte reticenze: ancora oggi il New Deal continua a opporre i liberali (che vi vedono la fonte di una deriva nefasta) e i "modernisti" (che vi vedono l'atto costitutivo di una regolazione economica "all'americana").
Si è molto discusso sull'efficacia del New Deal e sulla sua ispirazione keynesiana. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, la Teoria generale è apparsa solo nel 1936, quindi successivamente al New Deal. Ma non è improbabile che le idee fossero già nell'aria e che il "brain trust" (altro nome dato ai consiglieri di Roosevelt) del candidato democratico abbia tratto ispirazione dalle discussioni che agitavano gli ambienti intellettuali attorno a Keynes. Quanto all'efficacia del New Deal, non la si può negare: certo, questi interventi non sono bastati a far uscire gli Stati Uniti dalla crisi, ma alla fine del 1936 si era tornati al livello di produzione del 1930 e la disoccupazione era stata dimezzata, mentre in Gran Bretagna (altro paese molto colpito) la situazione era molto più grave. Tuttavia si dovrà aspettare l'economia di guerra per assistere a una vera e propria ripresa.
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Nikkei 225:
Indice borsistico della Borsa di Tokyo, calcolato a partire dalle variazioni delle quotazioni delle azioni dei 225 titoli che abitualmente sono oggetto delle transazioni più attive sul mercato di Tokyo.
Questo indice (chiamato spesso il "Nikkei") corrisponde al nostro Mibtel.
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Obbligazione:
Titolo di credito rappresentativo di un prestito contratto da una persona giuridica presso il pubblico, a condizioni di remunerazione (tasso di interesse, modalità di versamento, eventuale esistenza di estrazione a sorte) e di rimborso (scadenza, modalità di rimborso) prefissate. Frutta interessi rapportati in termini percentuali al valore nominale del titolo, generalmente tramite il pagamento di cedole semestrali o annuali, ed è rimborsabile nel tempo secondo la pianificazione stabilita al momento dell'emissione.
Possono emettere obbligazioni lo stato, gli enti pubblici, banche e società private. In Italia, la legge impone che il collocamento di titoli obbligazionari sia subordinato a una autorizzazione della Consob, perché si tratta di una richiesta pubblica di risparmio. L'autorizzazione della Consob dipende dall'esame dei bilanci dell'emittente degli anni precedenti il lancio dell'emissione, in modo da garantire al risparmiatore che sottoscriverà un minimo di sicurezza sulla solidità dell'organismo che emette le obbligazioni. Il ricorso all'emissione di titoli obbligazionari è in genere effettuata da organismi di dimensioni rilevanti e per importi sufficientemente elevati da giustificare la messa in atto di un procedimento lungo e costoso presso la Consob. L'autorizzazione è da questa accordata per un importo massimale di titoli determinato, lasciando a carico del mutuatario il rischio di un incompleto collocamento degli stessi.
Le obbligazioni possono essere a tasso fisso. Dopo la loro quotazione, se il tasso di interesse di mercato di tali titoli viene a cambiare, il valore del titolo si modifica: al rialzo in caso di ribasso dei tassi (perché diventa più interessante detenere quelle obbligazioni piuttosto che sottoscriverne di nuove), al ribasso in caso contrario. Per le obbligazioni a tasso variabile il tasso di interesse è funzione, per tutta la durata del prestito, delle variazioni di una grandezza determinata al momento dell'emissione (tasso di interesse in vigore sul mercato monetario, tasso medio dei titoli obbligazionari).
Le obbligazioni con warrant sono titoli obbligazionari dotati di un buono che conferisce al sottoscrittore la facoltà di ottenere una certa quantità di altri titoli (azioni e/o obbligazioni) della società emittente o di altra società, a una data scadenza o in un arco temporale prefissato, contro pagamento di una somma predeterminata. Il warrant può essere stancato dall'obbligazione e negoziato separatamente.
Le obbligazioni convertibili offrono al sottoscrittore la facoltà di rimanere creditore della società emittente o di convertire entro tempi e rapporti di cambio prefissati le obbligazioni in azioni della società emittente o di altra società. Lo scopo di tale strumento è di permettere alla società mutuataria di trasformare il debito in emissioni di azioni (non rimborsabili, perché si tratta di coproprietà). Ben inteso il detentore dell'obbligazione non è costretto ad effettuare la conversione: infatti non eserciterà la facoltà di convertire qualora il valore dell'azione proposta in scambio con l'obbligazione sia superiore al valore di quest'ultima al momento della conversione. Una obbligazione zero coupon designa un'obbligazione i cui interessi sono pagabili in blocco al momento dello scambio.
Il rimborso delle obbligazioni è prefissato in base a un piano di ammortamento, che talvolta prevede una restituzione del debito in un'unica soluzione al termine del periodo, talvolta invece un'estrazione periodica di quote di emissione da rimborsare. Il rimborso può essere anticipato rispetto ai termini previsti se l'emittente ha contemplato tale clausola nel regolamento di emissione del premio.
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Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico (Ocse):
Creata nel 1959, l'Ocse succede all'Organizzazione europea di cooperazione economica (Oece) nata nel 1951 per garantire la convertibilità delle divise dei paesi europei beneficiari del Piano Marshall. Questa convertibilità era garantita da un sistema di compensazione gestito dall'Oece: le esportazioni di ogni paese membro dell'organizzazione destinate a un altro paese membro e le importazioni provenienti da altri paesi membri venivano registrate su un conto; alla fine di ogni mese erano dovuti solo i saldi, ciò permetteva di ridurre sensibilmente i bisogni di valuta di ogni paese. Questo dispositivo è terminato contemporaneamente alla decisione dei paesi membri di impegnarsi a tornare alla libera convertibilità delle loro monete. L'Oece sarebbe quindi dovuta scomparire. Ma la sua esistenza aveva mostrato l'importanza di disporre di una struttura in cui i paesi capitalistici (europei) potessero scambiare informazioni e disporre di analisi approfondite sulla loro situazione economica effettuate da esperti esterni considerati più indipendenti. È per questo motivo che i paesi membri hanno deciso di mantenere in vita la struttura. Gli Stati Uniti, che ne erano i principali finanziatori (in base al Piano Marshall), hanno voluto parteciparvi: da ciò la trasformazione di nome nel 1959 e al tempo stesso di obiettivo. L'Ocse è un organismo di concertazione sulle politiche economiche e sociali dei paesi membri. Il suo orientamento è nettamente liberale. A intervalli regolari (annuali per i paesi più importanti, biennali per gli altri), il segretariato dell'Ocse procede a una valutazione della situazione congiunturale di ogni paese e avanza un certo numero di proposte dirette a migliorare la situazione. Ai paesi membri fondatori (tutti i paesi europei capitalistici, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, l'Australia e la Nuova Zelanda) si sono aggiunti nuovi membri: il Messico (nel 1993), la Repubblica ceca e l'Ungheria (nel 1995), la Corea del sud (nel 1996).
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Offerta pubblica di acquisto (Opa):
Consiste in una proposta, rivolta alla totalità dei detentori di un determinato titolo e valida per un periodo di tempo prefissato, di acquistare le azioni di una società quotata in borsa a un prezzo determinato.
L'offerta è soggetta a condizione, in quanto l'opa si concretizza solo la proposta è accettata entro il periodo definito da una proporzione determinata di detentori dell'azione. In caso contrario, l'offerta non è convalidata. Il successo o meno di un'opa dipende in genere dal prezzo offerto: se quest'ultimo è nettamente più elevato della quotazione corrente in borsa, un maggior numero di azionisti sarà tentato di accettare l'offerta. Se esiste un limite minimo al quantitativo di adesioni a partire dalle quali l'offerta è effettivamente valida, non è invece previsto un limite massimo, ciò che fa dell'opa una procedura potenzialmente costosa. Chi lancia l'opa deve quindi proporre un prezzo attraente affinché l'operazione vada a buon fine garantendo al contempo il riacquisto di tutti i titoli presentati. Per questo non è usata di frequente. L'offerta pubblica è sottoposta al controllo della Consob, che vigila appositamente a che l'informazione non sia stata divulgata all'esterno per ottenere dei plusvalori in borsa. La finalità di lanciare un'opa è quella di tutelare gli interessi degli azionisti di minoranza di minoranza in caso di operazioni di scambio di pacchetti di maggioranza e di controllo, a prezzi superiori a quelli di mercato. All'azionista di minoranza è consentito di partecipare all'operazione beneficiando del premio spettante al vecchio azionista di maggioranza. D'altro canto all'offerente consente di raggiungere un mercato più vasto.
La legge italiana ha reso l'opa obbligatoria qualora l'azionista oltrepassi una soglia determinata del capitale sociale dell'azienda quotata, tale da pervenire al suo controllo; tale obbligo consente agli altri azionisti che eventualmente disapprovassero questa presa di controllo di vedersi offerte condizioni di acquisto delle loro azioni almeno analoghe a quelle di cui hanno beneficiato gli azionisti che, cedendo le loro azioni, hanno permesso di oltrepassare la soglia di controllo.
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Oligopolio:
Situazione nella quale una determinata produzione proviene da un piccolo numero di produttori.
Un oligopolio non implica necessariamente un'intesa sul prezzo o sulla divisione del mercato. Tuttavia nell'ambito di un piccolo gruppo di operatori è forte la tentazione di limitare la concorrenza in modo più o meno formalizzato. Ovviamente questa limitazione è una pratica illegale. Ma accade spesso che in un oligopolio, una delle imprese - di solito la più importante - sia riconosciuta dalle altre come l'azienda leader e venga incaricata di fissare i prezzi sui quali gli altri produttori si allineano. L'impresa leader fissa quindi un prezzo guida. Ad esempio nel settore del petrolio l'Arabia saudita fissa il prezzo guida del greggio.
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Oneri delle imprese:
Nel significato abituale del termine indica la parte dei contributi sociali obbligatori (o convenzionali) versati dai datori di lavoro oltre al salario lordo. Questi contributi sociali non sono quindi dedotti dal salario lordo (contrariamente agli oneri salariali). Più in generale i datori di lavoro hanno tendenza ad assimilare l'insieme degli oneri sostenuti nel pagamento dei salari agli oneri delle imprese, anche quando si tratta di imposte (ad esempio l'imposta sugli utili commerciali).
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Oneri sociali:
Insieme dei prelievi operati sui redditi, allo scopo di finanziare prestazioni sociali. Sono redditi (o rimborsi spese) versati senza contropartita produttiva. Il termine "oneri sociali" si applica piuttosto ai salari, mentre il termine "contributi sociali" designa i prelievi operati sull'insieme dei redditi professionali.
Gli oneri sociali presentano tre problemi: la loro copertura, il loro livello, il loro carattere più o meno ridistributivo.
La copertura: si tratta di sapere su quali basi gli oneri sociali vengono prelevati. In una società di pieno impiego, dove il versamento degli assegni sociali si effettua largamente su base professionale (casse di assicurazione malattia distinte a seconda delle professioni, regimi pensionistici distinti) sembrerebbe legittima la copertura professionale, alla tedesca. Con la crescita della disoccupazione, il declino di certe professioni e la crescita corrispondente di altre, questo sistema non va più bene e non potendo privare, ad esempio, di assistenza sanitaria chi non è attivo, o è disoccupato, bisogna trovare forme di copertura più complesse. Inoltre, alcuni hanno sottolineato che a caricare troppo di oneri il lavoro, se ne elevava abusivamente il costo, nuocendo così alla competitività esterna o alla creazione di occupazione. Non è affatto certo che questo sia un argomento valido perché, nel caso in cui gli oneri sociali non siano prelevati sui redditi professionali, bisognerebbe che questi ultimi siano aumentati di altrettanto, così da permettere ai titolari di tali redditi di pagare le imposte supplementari che prenderebbero il posto degli oneri sociali. Il solo vantaggio è che una fiscalizzazione di tutti o di una parte degli oneri sociali permette di farne gravare il peso sui redditi da capitale allo stesso modo che su quelli da lavoro. Da qui la proposta di un sistema a doppio binario: per le prestazioni non contributive (destinate a tutti, quale che sia il livello iniziale dei contributi), il carico corrispondente è finanziato dalle imposte. Invece, per le prestazioni contributive (proporzionali all'ammontare dei contributi versati, come, ad esempio, la pensione complementare) gli oneri sociali si basano sui redditi professionali.
Il livello degli oneri: tanto più elevato è il livello delle prestazioni sociali, altrettanto deve esserlo quello degli oneri. In una economia globalizzata, si corrono nuovi rischi. Attualmente si assiste a una rimessa in discussione del livello degli oneri sociali, poiché alcuni stimano che l'attuale livello tende a scoraggiare l'attività produttiva, spingendo i beneficiari di redditi elevati a ridurre i loro sforzi o ad espatriare. Anche se l'argomento viene artificialmente amplificato, non è privo di fondamento: meno per i rischi evocati da coloro che l'avanzano che per la rivolta sociale che richiama. A forza di caricare la barca, c'è il rischio di una sorta di rifiuto del sistema ridistributivo si diffonda tra la popolazione, avendo ciascuno la tendenza a valutare che, fatte le somme, paga troppo rispetto a quel che riceve. La questione del livello degli oneri sociali è più politica che economica: pone il problema dell'accettabilità dei prelievi in una società democratica.
Il carattere più o meno ridistributivo del sistema: farsi carico degli oneri sociali non è necessariamente intollerabile se quelli che pagano hanno la sensazione, o la convinzione, che lo fanno per se stessi. Se però questo è il caso, non vi è ridistribuzione. Si tratta soltanto di modificare il calendario di percezione dei redditi: un po' meno oggi, un po' più domani (per le pensioni, ad esempio), o un po' meno di remunerazione diretta e un po' più di vantaggi percettibili (per esempio, sotto forma di buoni-pasto, di mutua assistenza o di formazione). Vi è ridistribuzione solo quando quelli che pagano non sono i beneficiari. In mancanza di ciò, non si tratta più di un sistema basato sulla solidarietà, ma sull'assicurazione. Certo, un sistema assicurativo è sempre più o meno ridistributivo, poiché tutti versano una quota, e solo quelli che sono vittime di un sinistro vengono indennizzati. Ma è una ridistribuzione limitata e sarebbe più corretto parlare di "mutualizzazione". Significa che, se solo alcuni beneficiano, ciascuno può diventare un giorno o l'altro beneficiario. Al contrario, la ridistribuzione "pura" implica che i flussi sono sempre diretti nello stesso senso, dai più abbienti ai più sfavoriti. Ed è qui che casca l'asino, perché i più abbienti tendono a stimare, alla lunga, che non sta a loro finanziare i più poveri. La sola cosa che può spingerli a non opporsi a questa ridistribuzione è la coscienza di una solidarietà, il sentimento che questa ridistribuzione genera una società meno ingiusta, dunque più pacificata, della quale essi beneficiano indirettamente. Insomma, è la consapevolezza che esiste un legame sociale ciò che legittima una ridistribuzione. Quando quest'ultima è rimessa in discussione, è dunque, in modo più profondo, il legame sociale che viene rimesso in causa.
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Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec):
Organizzazione creata nel 1962 da un certo numero di paesi produttori con lo scopo di impedire l'abbassamento dei prezzi del petrolio praticato allora dalle compagnie petrolifere internazionali, che controllavano totalmente la commercializzazione, dunque la domanda, e la maggior parte della produzione, dunque l'offerta. Le compagnie miravano a ridurre i prezzi dell'approvvigionamento (sui quali sono calcolate le imposte e le royalties destinate a remunerare lo stato proprietario del sottosuolo). L'Opec non ha potuto influenzare i prezzi che a partire dal momento - inizio degli anni '70 - in cui una parte degli stati membri dell'organizzazione ha potuto, spesso attraverso le nazionalizzazioni, controllare l'offerta.
Il suo momento di gloria l'Opec l'ha avuto tra il 1973 e il 1980: la prima data corrisponde al primo shock petrolifero, quando i paesi arabi hanno deciso di "chiudere il rubinetto" ai paesi che sostenevano Israele nella guerra che l'opponeva all'Egitto, alla Siria e alla Giordania. Agendo allora come un monopolio, l'Opec ha fatto quadruplicare la quotazione del greggio. Per mantenere questi corsi ad un livello elevato, l'organizzazione ha ripartito tra i paesi membri delle quote di produzione destinate a mantenere una certa penuria. La seconda data corrisponde al tentativo di far crescere ancora i prezzi approfittando della guerra Iran-Iraq. Le compagnie hanno allora reagito intensificando le loro prospezioni in zone "non Opec" (Mar del Nord, Messico, ...); i paesi membri dell'organizzazione avrebbero allora dovuto accettare una riduzione delle loro quote, per mantenere i margini. La maggioranza vi si è opposta, costringendo l'Arabia saudita a ridurre, da sola e in modo considerevole, la sua produzione per tentare di mantenere i prezzi. Il regno wahabita ha finito per stancarsi e, nel 1985, ha decido di riprendersi la sua libertà di manovra, provocando un "contro shock" (forte abbassamento delle quotazioni) che dura ancora oggi. A meno che l'Ocse non riesca a ripristinare una disciplina interna sulla ripartizione dei sacrifici. Oggi l'Opec, incapace di influenzare i corsi, in ragione del peso ormai minoritario nell'approvvigionamento petrolifero mondiale) non è più attiva. Molti membri l'hanno lasciata (Ecuador, Nigeria). Ma, a termine, potrebbe ritrovare il potere perduto, dal momento che i suoi membri dispongono della maggior parte delle riserve accertate nel mondo.
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Operatore finanziario:
Chi opera su un mercato finanziario.
L'insieme degli operatori finanziari costituisce l'offerta e la domanda. La maggior parte di essi ha come obiettivo quello di massimizzare il plusvalore (una piccola minoranza interviene su questi mercati sia per collocare una liquidità provvisoriamente non utilizzata sia a titolo di copertura di operazioni commerciali tradizionali). In passato sarebbero stati chiamati speculatori, poiché tale è la definizione classica della speculazione fornita dall'economista britannico Nicholas Kaldor: "La speculazione è l'acquisto (o la vendita) di merci in vista di una successiva rivendita (o di un riacquisto), laddove il movente di tale azione è la previsione di un cambiamento dei prezzi in vigore e non un vantaggio derivante dal loro utilizzo o una trasformazione di una merce in un'altra". Ma questo termine è ormai raramente utilizzato per la connotazione negativa che ha assunto.
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Organizzazione scientifica del lavoro (Osl):
Termine inventato da Frederick Taylor per indicare il sistema di organizzazione del lavoro che aveva messo a punto. Il quale consisteva nell'affidare a un organismo particolare (chiamato "ufficio delle procedure") il compito di scomporre un lavoro ripetitivo in un insieme di gesti elementari, di destinare a ciascuno di questi un tempo "standard", stabilito dall'esperienza, e sulla base di ciò assegnare a ognuno dei lavoratori incaricati di effettuare un'operazione produttiva un tempo determinato per portare a termine questa operazione.
Del taylorismo (nome dato all'organizzazione scientifica del lavoro, sebbene il taylorismo implichi anche un insieme di raccomandazioni relative al modo di retribuzione che non rientrano nell'organizzazione scientifica del lavoro) si è conservato solo il concetto di parcellizzazione: ogni lavoratore si vedeva affidare un'operazione ripetitiva che richiedeva un numero molto limitato di gesti elementari, in modo da ridurre i tempi di attesa fra il passaggio da un'operazione all'altra. Ma non è sempre così: se il numero o la complessità dei pezzi da produrre non lo permette, l'Organizzazione raccomandata da Taylor poteva portare all'affidamento a ogni posto di lavoro di un insieme di compiti relativamente esteso. Allo stesso modo si è conservata dell'Osl solo la questione del tempo: è vero che il cronometraggio di tempo elementari ha suscitato numerosi conflitti. Ma in molti casi l'Osl non è accompagnata dal cronometraggio: ad esempio basta far funzionare più o meno rapidamente una catena di montaggio per costringere gli operatori ad accelerare la loro velocità di esecuzione. In realtà la caratteristica fondamentale dell'Osl risiede nella separazione istituzionale tra coloro che organizzano e coloro che eseguono. Fondamentale è la presenza dell'Ufficio delle procedure, che stabilisce (o cristallizza) una divisione sociale del lavoro e priva gli operatori di quel potere di organizzazione che era loro tradizionalmente riconosciuto. Se oggi si può parlare di post-taylorismo, lo si deve più alla critiche nei confronti della divisione del lavoro, che a una maggiore complessità dei compiti degli operatori. Quando ciò non avviene, il taylorismo è sempre all'opera.
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Paesi in via di sviluppo (Pvs):
Definizione creata negli anni Sessanta dalle istituzioni internazionali per indicare i paesi del terzo mondo.
Si voleva evitare di definire i paesi del terzo mondo come "sottosviluppati", un termine che poteva dare adito a interpretazioni peggiorative. Si sarebbe potuto scegliere la definizione "Terzo mondo", come aveva suggerito Alfred Sauvy all'inizio degli anni Cinquanta per similitudine con la famosa frase pronunciata da Sieyès sul Terzo Stato ("che non è nulla e aspira a diventare tutto") in occasione degli Stati generali del 1789. Ma il termine, così come quello di "non allineati" proposto nel 1954 in occasione della Conferenza di Bandung, era stato rifiutato da alcuni paesi che, sebbene poco industrializzati, rifiutavano un'etichetta che li avrebbe classificati in un "campo" intermedio tra i paesi socialisti e i paesi capitalisti. Per questi paesi non aver avviato un processo di industrializzazione non implicava necessariamente che non si dovesse scegliere tra i due grandi modelli di sviluppo che all'epoca si contrapponevano. Da ciò deriva, per difetto, il termine "in via di sviluppo", che designa un processo in via di formazione, che non pregiudica le future scelte politiche e tecniche. Purtroppo il termine è ben presto diventato un eufemismo a causa dell'accentuarsi, soprattutto a partire dai primi anni Ottanta, delle disuguaglianze nel ritmo di crescita tra i paesi "in via di sviluppo". Le condizioni delle istituzioni e delle infrastrutture, a causa dei conflitti politici, di clan o religiosi, sono così gravi che in alcuni casi si può parlare addirittura di paesi "in via di sottosviluppo". Questo fallimento ha provocato una crisi che ha influito anche sul crollo dell'Urss all'inizio degli anni Novanta.
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Paradiso fiscale:
Territorio il cui sistema fiscale è debole o inesistente.
Il Liechtenstein, le isole Caimane, alcune isole anglo-normanne, la Svizzera (a un grado minore) sono paradisi fiscali che, di fatto, attirano numerose società che lì stabiliscono teoricamente la loro sede sociale (conservando di fatto le loro attività in altri luoghi). Il paradiso fiscale è in genere uno stato minuscolo, o addirittura una piccola parte di uno stato che beneficia di un regime fiscale vantaggioso. Inoltre, un paradiso fiscale può attirare i contribuenti che cercano di sfuggire alle imposte solo se dà mostra di discrezione di fronte agli organismi internazionali o stranieri.
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Parità centrale:
Nell'ambito del Sistema monetario europeo indica il corso teorico che una moneta di un paese membro del sistema deve osservare. Un certo margine di fluttuazione è autorizzato al di sopra e al di sotto di questa parità centrale (il 2, 5% fino all'agosto 1993, diventato poi il 15%) e ogni Banca centrale ha l'obiettivo di vigilare che il corso effettiva della propria moneta resti all'interno di questo margine di fluttuazione.
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Pensionamento:
Cessazione di attività accompagnata dal versamento di un reddito, la pensione, finanziata dai contributi versati durante la vita attiva.
La pensione non può essere liquidata prima di un'età determinata dalla legge. In Italia tale soglia è fissata, a regime, a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini, nel caso della pensione di vecchiaia, e a 57 anni per donne e uomini nel caso della pensione unica introdotta con la riforma previdenziale del 1995.
Il finanziamento delle pensione può essere a ripartizione oppure a capitalizzazione. Nel primo caso l'insieme dei contribuenti versa i contributi a un organismo che li ripartisce fra gli aventi diritto, in proporzione al punteggio (anzianità di servizio o altri titoli) acquisito da ciascuno. La massa da ripartire dipende dunque dalla massa dei contributi annuali. Beninteso, gli organismi che sovrintendono alle pensioni possono costituire delle riserve negli anni in cui le entrate sono buone, al fine di bilanciare le prestazioni ed evitare che queste ultime varino troppo da un anno all'altro. Ma a lungo termine l'ammontare delle pensioni dipende fondamentalmente dal rapporto tra la massa dei contributi e l'insieme dei pensionati. Se il rapporto si deteriora e se i contribuenti rifiutano di aumentare i versamenti, i pensionati dovranno accontentarsi di una pensione ridimensionata, almeno in via teorica. Si comprende bene come questo rischio possa rimettere in causa il "patto tra generazioni" sulla base del quale il sistema funziona: accetto di pagare per gli altri solo perché so che un giorno gli altri pagheranno per me allo stesso modo. È per questo che molti sono favorevoli a un sistema a capitalizzazione: in questo sistema non esiste un contratto fra generazioni, perché ciascuno paga per sé, versando i contributi a un Fondo pensione che investe sul mercato finanziario e ottiene rendimenti che permetteranno di pagare la pensione: Nella capitalizzazione, ciascuno ha la sensazione di pagare per sé, non per gli altri. In realtà non è vero perché, in tutti e due i casi il pagamento delle pensioni si basa su un prelevamento operato sul reddito degli attivi. Il risparmio di oggi non si trasferisce nel tempo: si traduce solamente in diritti che, quando saranno esercitati, diminuiranno di altrettanto i redditi disponibili per gli attivi di domani. Di conseguenza, ripartizione o capitalizzazione che sia, gli attivi di domani dovranno comunque accettare di vedere i loro redditi salassati. Nel caso della ripartizione, l'accordo si concretizzerà sotto forma di contributi più o meno elevati; nel caso della capitalizzazione, si concretizzerà sotto la forma di redditi da capitale più o meno elevati.
I due sistemi non sono tuttavia identici. Il primo esercita una certa perequazione, poiché l'ammontare della pensione è funzione del punteggio acquisito da ognuno ma anche dell'ammontare totale dei contributi prelevati. Al contrario, in un sistema a capitalizzazione conta solo il punteggio di ciascuno e il rendimento degli investimenti effettuati dai Fondi pensione. Coloro che avranno avuto la sfortuna di versare i loro contributi a fondi mal gestiti o saranno vittime dell'inflazione avranno solo gli occhi per piangere, mentre saranno privilegiati coloro che avranno versato molto.
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Piano Marshall:
Programma di ricostruzione dell'Europa dopo la seconda guerra mondiale, proposto nel 1947 dal segretario di stato americano George Marshall, accettato dai paesi occidentali e rifiutato dai paesi della zona di influenza sovietica.
Il Piano Marshall segna anche l'inizio della guerra fredda - poiché l'Urss vi vide l'organizzazione di una zona di influenza americana in Europa, e di conseguenza costituì per proprio conto una zona di influenza con i paesi sotto il suo controllo - e l'inizio della ricostruzione europea. Il piano Marshall è stato imponente: circa 80 miliardi di dollari di oggi furono distribuiti tra una quindicina di paesi. Il piano Marshall consisteva in realtà in dollari spendibili solo nell'acquisto di prodotti americani: il prodotto della loro vendita in moneta locale doveva essere versato su un conto speciale che serviva a finanziare le spese delle truppe americane in Europa, nonché le spese pubblicitarie delle imprese americane in Europa. Così il piano Marshall, sebbene abbia effettivamente accelerato la ricostruzione europea riducendo il dollar gap (l'insufficienza di dollari) che frenava la ripresa della crescita, ha anche fatto gli interessi della Coca Cola, della Ford, della Ibm e così via.
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Prodotto interno lordo (Pil):
Il Pil è ormai (dal 1977) l'aggregato di base nel sistema di contabilità nazionale raccomandato dall'Onu e quello preso in considerazione dall'Ufficio statistico delle Comunità europee.
Il termine interno significa che tiene conto dei valori aggiunti di tutte le imprese che operano all'interno del territorio. Se imprese straniere che operano in Italia versano ai loro proprietari dei dividendi, questi ultimi fanno parte del Pil. Non bisogna quindi confondere il Pil con il Pnl (Prodotto nazionale lordo): questo, al contrario, comprende i redditi rimessi dai cittadini residenti all'estero e non considera i redditi degli stranieri versati nei loro paesi di origine. Il termine lordo significa che l'ammontare è considerato prima degli ammortamenti dei beni strumentali. Non tutto il Pil quindi è distribuibile: bisogna rinnovare i macchinari logori od obsoleti, altrimenti si corre il rischio di impoverirsi.
Il Pil addiziona l'insieme delle attività creatrici di reddito (in moneta o in natura, come ad esempio gli orti familiari o la disponibilità di un appartamento di cui si è proprietario). Per evitare di contarla due volte, l'attività di ogni operatore è misurata a partire dal valore aggiunto che crea: questo valore aggiunto finisce sempre per essere suddiviso in redditi e diretto alle famiglie, alle amministrazioni pubbliche (Iva, altre imposte sulla produzione) o, ancora, alle stesse imprese (utili non distribuiti).
Si è molto criticato il Pil come indicatore di ricchezza, sottolineando ad esempio che un incidente della strada o la produzione di un'arma mortale rientrerebbero nell'ammontare del Pil allo stesso titolo di altre attività produttrici di benessere. È anche vero però che il Pil non pretende di misurare il benessere, ma solo l'ammontare dei redditi indipendentemente dalla loro origine produttiva. È quindi un indicatore molto riduttivo, al quale non si può far dire più di quello che è: per un paese avere un Pil elevato non informa sulla qualità di vita dei suoi abitanti o sulla capacità del paese di offrire a tutti un benessere duraturo. In compenso il Pil misura il potere di acquisto disponibile di un'economia, cioè la sua potenza. È per questo motivo che, pur trattandosi di un indicatore insufficiente, permette di misurare le capacità di cui dispone una nazione nella competizione mondiale.
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Plusvalore:
Nel linguaggio borsistico indica la valorizzazione di un titolo, il cui prezzo di vendita diventa superiore al prezzo di acquisto. Il plusvalore è solo potenziale finché la vendita del titolo in questione non ha permesso di concretizzarlo.
Nel linguaggio marxista indica il valore creato dalla forza lavoro ma detenuto da colui che l'ha affittata, cioè dal datore di lavoro del o dei lavoratori.
Per Marx il plusvalore è il risultato di un meccanismo inevitabile. Ogni merce è venduta al suo valore di mercato, cioè a un prezzo che riflette la quantità di lavoro diretto e indiretto (quello incorporato nei beni strumentali e di produzione) necessario per produrla. La forza lavoro del proletario, che non dispone di alcun mezzo di produzione e che è costretto a vendere questa forza lavoro, è una merce: il valore della forza lavoro è quindi determinato dalla quantità di lavoro che in media è necessaria per produrla (più esattamente per riprodurla, in altre parole per permettere al lavoratore di poter lavorare efficientemente il giorno dopo). Il plusvalore trova la sua genesi nella differenza tra il valore creato dalla forza lavoro (a vantaggio del datore di lavoro) e il valore della merce forza lavoro: un salariato ad esempio è impiegato per produrre nel corso di 10 ore, mentre la sua forza lavoro può essere ricostituita grazie all'acquisto di merci che costerebbero solo cinque ore di lavoro. La differenza tra ciò che produce la forza lavoro e quello che costa - il salario - è il plusvalore.
Questa analisi è interessante perché mostra l'intenzione di Marx di sfuggire alla critica moralista: sebbene accusi il sistema capitalistico di generare lo sfruttamento dei lavoratori, non accusa i capitalisti di esserne responsabili. Questi non fanno che applicare le regole del sistema: comprano la forza lavoro al suo valore, vendono le merci prodotte da quella stessa forza lavoro al loro valore. Non c'è furto. Lo sfruttamento risulta dal sistema e non dagli uomini (che si limitano a trarne profitto). Bisogna quindi cambiare il sistema, non solo gli uomini.
Marx chiama tasso di plusvalore il rapporto tra il salario (prezzo della forza lavoro) e il valore creato dalla forza lavoro. Non bisogna confondere questo tasso di profitto che determina l'ammontare del plusvalore con l'insieme dei fondi (capitale) che il capitalista anticipa per mettere in valore la forza lavoro: anticipo del salario (capitale variabile), anticipo dei fondi investiti in macchinari, in scorte di magazzino o in crediti (capitale costante).
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Prodotto nazionale lordo(Pnl):
Aggregato di contabilità nazionale calcolato negli Stati Uniti (e non in Europa) per misurare l'insieme dell'attività economica del paese.
Il Pnl si differenzia dal Pil solo su un punto: si tratta di un aggregato nazionale e non interno. Ciò significa che sono prese in considerazione le attività delle imprese nazionali che operano fuori dal paese (per quanto riguarda l'ammontare di redditi che queste imprese o i loro dipendenti versano nel paese), mentre non è contabilizzata l'attività delle imprese straniere che operano sul territorio interno (almeno per la parte di questa attività che genera versamenti di reddito all'estero). Nella grande maggioranza dei paesi la differenza tra Pil e Pnl è quasi trascurabile. Ma è curioso constatare che molti commentatori continuano a parlare di Pnl, che in Francia non è mai stato calcolato e di cui nessuno può dire l'ammontare preciso.
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Politica di bilancio:
In un'economia di mercato indica l'utilizzazione del bilancio dello stato (uscite ed entrate) per agire sul ritmo della crescita economica.
La politica di bilancio non indica gli orientamenti politici o sociali del bilancio dello stato (a chi sono dirette le uscite, chi paga le entrate e quanto). Questa politica indica solo l'influenza globale che queste entrate e uscite sono in grado di esercitare sull'attività economica attraverso le somme che preleva dalle tasche dei contribuenti e che versa in quelle dei beneficiari della spesa pubblica. Se le uscite sono superiori alle entrate, il bilancio tende ad aumentare la domanda globale, quindi a stimolare l'attività economica. Nel caso inverso - entrate superiori alle uscite - il bilancio esercita un effetto di freno. Del resto questo effetto può risultare semplicemente da una modifica dell'ammontare del disavanzo o dell'avanzo: se l'avanzo cresce, l'azione di freno si accentua; se diminuisce, il freno sull'economia è più leggero.
La politica di bilancio agisce tramite il saldo delle uscite e delle entrate. Una stessa politica di bilancio - ad esempio espansionistica - può risultare da una riduzione delle entrate (alleggerimento delle imposte) o da un aumento delle uscite: è facile indovinare che nei due casi i beneficiari dello stimolo non saranno gli stessi. Ecco perché una stessa politica di bilancio può essere istituita nel quadro di politiche sociali diverse.
Il trattato di Maastricht, stabilendo un limite massimo del disavanzo di bilancio dei paesi aderenti alla moneta unica, riduce l'ampiezza delle politiche di bilancio praticabili da ogni stato membro. A meno di rinunciare a questo tipo di politica economica, si pone il problema di sostituire il budget comunitario, come strumento di politica economica, ai singoli bilanci nazionali.
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Politica sociale:
Insieme dei dispositivi destinati a proteggere una popolazione, o una parte di questa popolazione, contro alcuni rischi sociali che possono provocare un aumento delle spese o delle difficoltà o, ancora, un blocco o una diminuzione dei redditi di attività: malattia, dipendenza, nascita di figli, morte di un coniuge o di parenti, vecchiaia.
In genere la politica sociale è obbligatoria. Ciò per evitare che, per incuria o per calcolo, una persona che non si sia premunita contro un rischio finisca a carico della società senza aver partecipato al finanziamento di questa spesa. Ma non sempre è così: ad esempio nel settore dell'assicurazione contro la malattia i sistemi previdenziali integrativi (che si assumono le spese non rimborsate dalla Previdenza sociale) rimangono in gran parte nelle mani dei privati. Si tratta del resto di uno dei grandi problemi della nostra società: determinare a partire da quale soglia la politica sociale debba essere una decisione privata, individuale o aziendale.
La politica sociale è una forma collettiva di assicurazione che può accompagnarsi a una redistribuzione del reddito più o meno importante tra chi paga e chi riceve. Tuttavia la politica sociale e la redistribuzione del reddito non sono necessariamente legati: è sufficiente definire delle classi di rischio più o meno precise e legare i contributi versati all'appartenenza di questa o quella classe di rischio (sull'esempio dell'assicurazione automobilistica) per ridurre o addirittura eliminare la redistribuzione. Fare quindi della politica sociale un indice della presenza statale nella società costituisce un duplice errore: prima di tutto perché la politica sociale non è sempre fatta dallo stato (in Francia il sussidio di disoccupazione è nato da un accordo paritario e non da una decisione pubblica), in secondo luogo perché la politica sociale può dipendere più dall'assicurazione che dalla redistribuzione del reddito.
Istituzionalmente in Francia la politica sociale è costituita da tre elementi:
- la previdenza sociale composta da organismi che prelevano contributi obbligatori e assicurano prestazioni legali determinate oggettivamente (in base ai contributi o in funzione della situazione personale) e versate automaticamente;
- l'aiuto sociale che prevede alcune prestazioni legali versate a persone che versano in particolari difficoltà (condizioni stabilite da una commissione): reddito minimo di inserimento professionale, pensioni di invalidità, contributi a persone invalide, ecc. ;
- l'intervento sociale che prevede alcune prestazioni facoltative versate da vari organismi (comitati aziendali, mutue, ecc. ) tra i quali possono figurare organismi di previdenza sociale.
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Prelievi sociali:
Contributi sociali obbligatori.
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Prelievo alla fonte:
Indica il prelievo di un onere obbligatorio o convenzionale (imposta, contributo) da parte del datore di lavoro sul salario di un dipendente, prima che questo venga versato. Ogni prelievo alla fonte riduce dunque di altrettanto l'ammontare del salario netto.
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Prelievo obbligatorio:
Indica l'insieme delle imposte (votate dal parlamento) e dei contributi sociali obbligatori (fissati per legge).
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Prestatore in ultima istanza:
Si definisce così la Banca centrale, il cui ruolo è quello di fornire capitali liquidi alle banche commerciali ed è quindi incaricata di vigilare che gli istituti di credito ne abbiano a sufficienza per affrontare le richieste di prelievo di denaro "liquido", che in alcuni momento dell'anno (ad esempio prima di Natale) o in alcune circostanze (voci allarmanti, momenti di panico) aumentano notevolmente.
L'esistenza di un prestatore in ultima istanza contraddistingue un sistema monetario solido, poiché offre a questo sistema la flessibilità necessaria per affrontare gli imprevisti. È proprio per questo motivo che il sistema monetario internazionale, non disponendo di un prestatore in ultima istanza - non c'è un'istituzione incaricata di regolare la liquidità internazionale -, è instabile e fonte potenziale di squilibri.
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Principio di sussidiarietà:
Significa che un'autorità superiore deve intervenire per risolvere un problema o assicurare l'ordine solo se l'autorità di grado immediatamente inferiore non è in grado di farlo a causa del suo limitato raggio di azione.
Le autorità comunali ad esempio, in virtù del principio di sussidiarietà, devono avere il potere per risolvere un problema riguardante il loro comune. In concreto il principio di sussidiarietà conduce a una società largamente decentralizzata, poiché sono i piani "inferiori" della società che devono risolvere i problemi e che possono decidere autonomamente di fare ricorso ai piani "superiori". Questo principio, difeso dalla dottrina sociale della chiesa (soprattutto in reazione agli sconfinamenti di un potere centrale giudicato troppo universale), è recentemente tornato di attualità in occasione della costruzione europea: in questo caso si tratta di attribuire alle autorità europee solo poteri limitati e di riaffermare i poteri prioritari dei singoli stati.
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Privatizzazione:
Indica sia il trasferimento a privati delle proprietà di un'impresa detenuta dalla collettività sia un modo di gestione caratterizzato dalle regole del mercato (ricerca del massimo profitto).
Il secondo significato è meno utilizzato: l'esempio più noto è quello della Renault. Si tratta infatti di un'impresa nazionalizzata nel 1945 che, non essendo mai stata incaricata di una missione di servizio pubblico, non aveva motivo per derogare alle norme imposte ai suoi concorrenti. Così la Renault, benché impresa pubblica, ha sempre avuto un funzionamento di tipo privatizzato.
Nel senso abituale del termine - trasferimento di proprietà ai privati - si ha privatizzazione di un'impresa quando una frazione, anche di minoranza, del capitale sociale è venduta dal potere pubblico a privati. Infatti per evitare che questi ultimi si sentano danneggiati, è necessario che l'impresa si ponga l'obiettivo di massimizzare i profitti. Di conseguenza l'introduzione di interessi privati costringe l'impresa a modificare le sue regole di funzionamento. Tuttavia da un punto di vista legale, finché il potere pubblico rimane maggioritario, si può parlare solo di privatizzazione parziale, poiché la collettività ha sempre la possibilità di imporre le norme che preferisce, in virtù del suo potere di controllo maggioritario.
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Prodotto derivato:
Indica un titolo finanziario il cui valore di base è determinato dall'evoluzione dei corsi di una merce, di un titolo o di un insieme di altri titoli.
Il mercato sul quale si quotano i prodotti derivati è sempre un mercato a termine. Si tratta infatti di eliminare il rischio di una fluttuazione dei corsi che riguardano il prodotto derivato. Se ad esempio non ho paura che le divise che devo comprare possano aumentare nei prossimi tre mesi, posso scegliere di comprarle oggi a termine: il corso è fissato oggi, ma la consegna e il pagamento sono rimandati a una data ulteriore chiamata termine. Se invece di comprare (o di vendere) divise, io scelgo di comprare (o di vendere) un contratto standard proposto da una borsa valori e costituito da un determinato (e fisso) "paniere di divise", mi premunisco contro il rischio comprando (o vendendo) un prodotto derivato. Infatti questo contratto standard ha un valore che cambia in funzione delle divise che lo compongono. Il rischio può anche essere quello di una variazione del tasso di interesse (se prendo a prestito a tasso variabile, perdo tutte le volte che il tasso di interesse sale e guadagno tutte le volte che il tasso scende): per premunirmi contro il rischio di perdere denaro, posso comprare subito il Future, un contratto a termine "figurativo" il cui valore deriva da un certo portafoglio di obbligazioni a scadenza determinata: i corsi del contratto a termine figurativo evolvono quindi in funzione delle fluttuazioni del tasso di interesse, così le eventuali perdite che subirei per aver preso a prestito sarebbero compensate dai guadagni realizzati in quanto acquirente di titoli. Ma ciò è interessante solo se il contratto figurativo che mi serve da assicurazione non è pagabile immediatamente, altrimenti ciò equivarrebbe a prendere in prestito per comprare titoli. Il mercato dei prodotti derivati esige quindi immobilizzi minimi di capitali: è per questo motivo che attira non solo gli operatori che cercano di assicurarsi contro eventuali rischi, ma anche operatori che cercano di trarre profitto da questi stessi rischi. Si tratta quindi di un mercato nel quale regna una forte speculazione, che provoca regolarmente clamorosi scandali; infatti molti operatori che praticano la speculazione (responsabili finanziari di imprese, gestori di fondi pensione, agenti bancari, ecc. ) lo fanno con fondi che non sono loro.
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Produttivismo:
Indica la scelta di tecniche di produzione che riducono al minimo indispensabile la quantità di lavoro impiegata, senza preoccuparsi delle conseguenze sociali (sui lavoratori e sulla collettività) ed ecologiche (sull'ambiente).
Il produttivismo è stato soprattutto criticato nell'agricoltura dei paesi industrializzati, in cui la volontà di ridurre i costi di produzione ha portato alla distruzione delle siepi, all'uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi, all'abbandono dei terrazzamenti e delle terre troppo scoscese, alla monocoltura, ecc. Si tratta peraltro di fenomeni che provocano gravi effetti esterni negativi, ma non sostenuti dagli agricoltori.
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Produttività:
Indica l'efficienza con la quale il lavoro umano è utilizzato in un'operazione produttiva. Per estensione misura l'efficienza con la quale alcuni o tutti gli elementi di produzione sono utilizzati. Si parlerà ad esempio di produttività del capitale per indicare l'efficienza con la quale le attrezzature necessarie alla produzione sono utilizzate.
La produttività si misura a partire dai rapporti di produzione: per la produttività del lavoro il rapporto più utilizzato è quello che confronta la produzione finale (in valore o in quantità) con il numero di ore di lavoro che sono state necessarie per realizzarla (si ottiene così la produttività oraria apparente del lavoro; apparente perché non tiene conto dell'eventuale aumento o diminuzione del ricorso ad altri mezzi di produzione, che hanno contribuito a diminuire o aumentare l'utilizzazione del lavoro diretto). La produttività del capitale pone maggiori problemi, perché non si può utilizzare al denominatore un'unità fisica a causa dell'eterogeneità delle attrezzature utilizzate. Si è quindi costretti a misurare la produttività del capitale in valore; ma il valore delle attrezzature (in realtà il loro prezzo di acquisto) riflette, in una certa misura, la loro efficienza futura, poiché questa efficienza genera una domanda più o meno elevata, dunque tende a spingere più o meno verso l'alto i prezzi di vendita. Ciò equivale a dire che si misura l'efficienza del capitale a partire da un rapporto nel quale entra in considerazione l'efficienza anticipata dagli acquirenti. Questa difficoltà, sottolineata dalla economista inglese Joan Robinson, non è stata mai veramente risolta. Questa studiosa concludeva che il concetto di produttività del capitale (e di capitale) non aveva senso. La grande maggioranza degli economisti contemporanei, anche se ammettono che si tratta di un problema metodologico importante, ritengono che ciò non debba portare alla rinuncia della misura, ma solo a rendere più circoscritta l'interpretazione.
La misura della produttività si compie sia in volume (quando si utilizzano unità fisiche al numeratore, ad esempio tonnellate di farina per ora di lavoro - o quando si utilizzano grandezze monetarie facendo attenzione a eliminare i prezzi più alti e più bassi di un determinato anno) sia in valore (quando si utilizzano unità monetarie). Si chiama incremento di produttività l'evoluzione nel tempo (abitualmente un anno) di questa misura.
La produttività media indica il rapporto tra la produzione realizzata e l'insieme del lavoro fornito (o l'insieme del capitale utilizzato). La produttività marginale indica il rapporto tra l'aumento di produzione e l'aumento di lavoro (o di capitale) necessario per assicurare questo aumento di produzione. Quando la produttività marginale è inferiore alla produttività media si ha interesse ad aumentare la produzione, poiché è necessario relativamente meno lavoro (o capitale) per ottenere quella produzione rispetto a prima. In questo caso si realizzano delle economie di scala.
La produttività globale dei fattori è un modo di calcolo complesso diretto a confrontare la produzione finale con l'insieme dei mezzi di produzione utilizzati in questa produzione: il lavoro, le attrezzature, eventualmente l'energia, la superficie di terra, ecc. Si tratta di misurare se un aumento di produzione genera un aumento di utilizzazione dei mezzi di produzione della stessa portata: se non è questo il caso (ad esempio se la produttività del lavoro e quella del capitale aumentano entrambe) si indica con aumento di produttività l'aumento di produzione legata a un'utilizzazione più efficiente dell'insieme dei mezzi di produzione adoperati. L'aumento di produttività misura quindi, meglio dell'incremento di produttività apparente del lavoro, il miglioramento dell'efficienza di un determinato processo produttivo.
Per gli economisti gli incrementi di produttività (e, meglio ancora, i surplus di produttività) sono auspicabili in quanto misurano aumenti di ricchezza che possono essere redistribuiti, quindi un aumento del potere di acquisto di alcuni. Ma per i lavoratori dipendenti gli incrementi di produttività possono anche significare un degrado delle condizioni di lavoro (ad esempio il lavoro domenicale o notturno che, riducendo le necessità di attrezzature supplementari per ottenere una produzione supplementare, si materializza con un surplus di produttività) o una minaccia per la loro occupazione (perché se la domanda non progredisce allo stesso ritmo degli incrementi di produttività apparente del lavoro, sarà necessario meno lavoro diretto per soddisfarla). Si tratta quindi di un concetto ambivalente, che pone una domanda fondamentale, quella del significato dell'azione economica: fino a che punto un aumento di ricchezza prodotta (e distribuita) è auspicabile e a partire da quando l'aumento del potere di acquisto di alcuni produce un deterioramento del tenore di vita di altri? Questioni difficili, perché costringono a paragonare grandezze quantitative (incremento di produttività e quindi surplus di ricchezze distribuibili) con dimensioni qualitative, e a compiere scelte tra gruppi sociali (poiché solo alcuni, e non tutti, hanno interesse ad avere incrementi di produttività). Su quest'ultimo punto, i liberali sostengono che inevitabilmente la "mano invisibile del mercato" finirà per distribuire gli incrementi di produttività a tutti o a gran parte della popolazione. Ma non è così semplice e questa è la ragione per la quale l'economia rimane profondamente influenzata dalle scelte politiche: chi si deve favorire e chi, invece, danneggiare nelle scelte collettive che una società è talvolta portata a compiere?
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Profitto:
Reddito ottenuto da chi offre i capitali (in senso finanziario) in cambio della loro disponibilità.
Profitto e utile sono spesso considerati la stessa cosa. Non è del tutto vero: l'utile è una nozione contabile, mentre il profitto è una categoria economica. La differenza tra i due non dipende solo dal fatto che i commercialisti, per prudenza, deducono dai risultati i fondi destinati ad affrontare le spese future o eventuali: per questo motivo prudenziale l'utile contabile è abitualmente minore rispetto ai profitti. Ma entra in gioco anche un altro fattore, ancora più importante: per i commercialisti il capitale preso in prestito produce oneri finanziari che vanno dedotti dagli utili. Al contrario per gli economisti il profitto è la remunerazione del capitale (nel senso finanziario del termine), indipendentemente dal fatto che questo sia messo a disposizione dai proprietari o che sia preso in prestito. Il profitto deve quindi essere calcolato prima del pagamento degli oneri finanziari.
Sempre dal punto di vista economico il profitto può essere definito come il reddito dell'attività di imprenditore, cioè diretto a remunerare il fatto di prendere dei rischi mettendo sul mercato prodotti senza sapere se a quel prezzo saranno comprati. Anche questo tipo di definizione può essere contestata, perché l'imprenditore - nel senso economico del termine, cioè di colui che intraprende, e non del semplice proprietario dell'impianto produttivo - contribuisce spesso con il suo lavoro e non è in genere il solo a portare capitale. In altri termini il reddito dell'imprenditore remunera non solo il rischio, ma anche il lavoro, soprattutto nel caso di un lavoratore autonomo. Il profitto, al contrario, è una categoria astratta: gli economisti, quando ne parlano, sottintendono che la remunerazione del lavoro è stata interamente dedotta (ad esempio sotto forma di salario della direzione).
In un'economia di tipo capitalistico il ruolo del profitto è ovviamente essenziale, poiché il livello di remunerazione del capitale (o tasso di profitto) orienta la destinazione di quest'ultimo. Per chi dispone di fondi da prestare o da immobilizzare, il livello di remunerazione offerto o promesso determina spesso la scelta dei settori nei quali investire il capitale. Il profitto svolge un ruolo di orientamento: il suo ammontare passa in secondo piano rispetto al suo ruolo nella determinazione della struttura produttiva di un paese e nell'orientamento delle specializzazioni scelte. Per Marx la critica del profitto (il plusvalore nel linguaggio marxista) è più di natura economica che di natura morale ("non è giusto guadagnare un reddito senza dover lavorare"): il tasso di profitto quindi svolge un cattivo ruolo di orientamento, perché riflette solo le realtà del mercato e non i bisogni della società.
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Protezione sociale:
Insieme dei dispositivi destinati a proteggere una popolazione, o una parte di questa popolazione, contro i rischi sociali provocati da un aumento delle spese o delle difficoltà o, ancora, da un blocco o da una diminuzione dei redditi di attività: malattia, dipendenza, nascita di figli, morte di un coniuge o di parenti, vecchiaia.
In genere la protezione sociale è obbligatoria. Ciò per evitare che, per incuria o per calcolo, una persona che non si sia premunita contro un rischio finisca a carico della società senza aver partecipato al finanziamento di questa spesa. Ma non sempre è così: ad esempio nel settore dell'assicurazione contro la malattia i sistemi previdenziali integrativi (che si assumono le spese non rimborsate dalla Previdenza sociale) rimangono in gran parte nelle mani dei privati. Si tratta del resto di uno dei grandi problemi della nostra società: determinare a partire da quale soglia la protezione sociale debba essere una decisione privata, individuale o aziendale.
La protezione sociale è una forma collettiva di assicurazione che può accompagnarsi a una redistribuzione del reddito più o meno importante tra chi paga e chi riceve. Tuttavia la protezione sociale e la redistribuzione del reddito non sono necessariamente legati: è sufficiente definire delle classi di rischio più o meno precise e legare i contributi versati all'appartenenza a questa o quella classe di rischio (sull'esempio dell'assicurazione automobilistica) per ridurre o addirittura eliminare la redistribuzione. Fare quindi della protezione sociale un indice della presenza statale nella società costituisce un duplice errore: prima di tutto perché la protezione sociale non è sempre opera dello stato, e poi perché la protezione sociale può dipendere più dall'assicurazione che dalla redistribuzione del reddito.
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Protezionismo:
Pratica destinata a ridurre l'ampiezza della concorrenza estera.
Il protezionismo si basa su tre tipi di strumenti: tariffe doganali (dazi doganali), restrizioni quantitative (esistenza di contingenti di importazione per un dato prodotto) e le protezioni non tariffarie (ad esempio l'emanazione di norme ambientali concepite in modo tale da impedire l'accesso sul mercato nazionale di alcuni prodotti esteri). Il primo tipo di strumento è ormai sottoposto a regole ben precise: i dazi doganali possono aumentare solo per periodi limitati e a condizione che il paese che li adotta dimostri che la concorrenza estera danneggia gravemente l'apparato produttivo nazionale. Le restrizioni quantitative sono in linea di principio vietate, ma sono tollerate in caso di un accordo bilaterale tra le parti interessate. Così il protezionismo tende a nascondersi sempre di più dietro giustificazioni di tipo ambientale, sociale o consumistico, giustificazioni che sono spesso chiamate la "zona grigia del protezionismo", perché è difficile sapere se queste norme sono state adottate per proteggere il mercato nazionale o per ragioni non commerciali.
Il protezionismo va considerato positivamente o negativamente? La teoria economica dominante è concorde nel criticare questa pratica. Tuttavia l'esperienza mostra che il protezionismo, ufficiale od occulto, è sempre stato il comportamento consueto degli stati, e che il libero scambio è raccomandato solo dai paesi dominanti sapendo che è a loro favorevole. La realtà quindi è complessa: il protezionismo, come il libero scambio, comporta dei vincitori e dei vinti, e spesso è il rapporto di forze tra queste due categorie che determina la scelta finale. Da un punto di vista nazionale l'esperienza storica fa vedere che i paesi più liberoscambisti non hanno conosciuto una crescita più rapida degli altri. La superiorità del libero scambio sembra quindi più teorica che pratica. In ogni modo il libero scambio, per i problemi che inevitabilmente genera, costringe i paesi interessati a negoziare accordi, mentre il protezionismo assomiglia piuttosto una forma di guerra mascherata, che può facilmente trasformarsi in un meccanismo di sanzioni reciproche.
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Ragione di scambio:
Indica il rapporto tra il prezzo unitario all'esportazione e il prezzo unitario all'importazione, con entrambi i prezzi espressi nella medesima unità monetaria. Nel caso in cui il primo aumenti più del secondo, la ragione di scambio migliora: le stesse quantità esportate consentono di acquistare una quantità maggiore di prodotti importati. Se invece i prezzi all'esportazione aumentano di meno dei prezzi all'importazione, vi è un peggioramento della ragione di scambio: è necessario vendere più prodotti per ottenere lo stesso potere d'acquisto in prodotti importati.
Il calcolo della ragione di scambio pone seri problemi metodologici. In effetti un paese esporta e importa un numero elevato di prodotti differenti: il calcolo di un "prezzo unitario" è basato quindi su una media che può essere messa in discussione se si modifica la struttura delle esportazioni o delle importazioni. Se un paese ad esempio esporta automobili di lusso e utilitarie, un aumento del prezzo unitario dell'automobile esportata può essere dovuto al fatto che si esportano più vetture di lusso, oppure al fatto che il prezzo unitario di ciascun tipo di automobile è cresciuto. Poiché si incontrano molteplici problemi di questo genere per giungere a determinare un prezzo "medio" e poiché lo stesso può dirsi per le importazioni, si comprende come gli economisti abbiano a lungo dibattuto sulla questione. Particolare attenzione è stata posta sull'eventuale peggioramento della ragione di scambio di cui sarebbero vittime i paesi del Sud con l'intensificarsi dello scambio internazionale con il Nord.
Ma non è tutto, un paese che subisce un peggioramento della sua ragione di scambio dovrebbe diventare più povero, poiché deve vendere quantità sempre maggiori di prodotti per acquistare la medesima quantità di prodotti importati. In realtà può accadere che la diminuzione dei prezzi sia dovuta al fatto che, grazie a importanti incrementi di produttività, quel paese necessiti di tempi di lavoro sempre più ridotti per produrre i beni che esso esporta, il che gli permette di diminuire i prezzi all'esportazione senza registrare delle perdite. Per risolvere la questione, conviene calcolare la ragione di scambio "fattoriale", cioè ponderando i prezzi in funzione delle quantità di lavoro impiegate. Ma anche in questo caso, la complessità del calcolo è tale che sono assai rari i casi in cui si possa giungere a una conclusione chiara.
Tuttavia l'effettivo peggioramento della ragione di scambio dei paesi esportatori di materie prime è fuor di dubbio: il debole aumento della domanda, la moltiplicazione dei produttori, la ridotta importanza dei beni esportati e l'intensa concorrenza che regna sul mercato delle materie prime determinano una diminuzione dei prezzi unitari superiore a quella che potrebbe essere spiegata con i soli incrementi di produttività. La lezione è chiara: per un paese la specializzazione nelle materie prime non porta con sé molte speranze di sviluppo.
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Rating:
Termine che indica la valutazione da parte di un'agenzia specializzata sulla struttura finanziaria di una società (o eventualmente di una collettività locale), quindi sulle sue capacità di rispettare gli impegni (debiti) e il rischio assunto dai suoi creditori.
Con l'affermarsi della globalizzazione finanziaria le agenzie di rating hanno assunto un ruolo crescente. Infatti i potenziali creditori hanno bisogno di conoscere con precisione i rischi ai quali si espongono sottoscrivendo i titoli del debito emessi da una società o da una collettività territoriale che spesso non conoscono affatto. Per chi prende a prestito i capitali, il rating determina il tasso di interesse al quale dovranno emettere i loro titoli: più è alto il rischio, maggiore sarà il tasso di interesse offerto. Le due principali agenzie di rating sono Standard & Poor's e Moody's.
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Redditi da capitale:
Redditi prodotti dai frutti della proprietà di un patrimonio.
In genere i redditi da capitale non comprendono i redditi dei lavoratori autonomi, anche se per alcuni di essi (ad esempio i coltivatori diretti) il reddito professionale è in parte il prodotto dei frutti della proprietà di un capitale.
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Reddito:
Ricchezza creata da un'attività produttiva che può essere consumata senza impoverirsi di altrettanto.
Ognuno sa che vivere del reddito del proprio lavoro (o eventualmente del proprio capitale) non è la stessa cosa che vendere l'argenteria di casa per pagare i debiti. Nel primo caso non ci si impoverisce, nle secondo sì. Il reddito è quindi ciò che si può consumare senza impoverirsi. Ciò pone due problemi. Prima di tutto quello dell'ammontare del reddito: a partire da quando ci si comincia a impoverire prelevando sui flussi prodotti dall'attività economica? In secondo luogo, quello della distribuzione del reddito: chi deve beneficiare della nuova ricchezza che si può consumare?
Sul primo punto alcune situazioni non pongono problemi: in un'economia agricola - in cui ogni produttore di grano deve conservare una parte del raccolto per la successiva semina - colui che mangia le proprie sementi è rapidamente destinato a non produrre più. Ma in un'economia monetaria le cose non sono così evidenti: estrarre e bruciare petrolio - una risorsa non rinnovabile - non significa forse vendere l'argenteria di casa? In effetti si consuma un reddito e allo stesso tempo si riduce lo stock di risorse. Inquinare le acque con i fertilizzanti non significa forse ridurre il proprio reddito agricolo? Esiste quindi tutta una serie di attività che producono un reddito e di cui le generazioni future dovranno pagare il conto. La nozione di sviluppo sostenibile si sforza di tener conto di questa realtà: una parte di ciò che ci permette di avere il nostro livello di vita attuale è in realtà un prelievo forzato di ricchezze che mancheranno alle generazioni future.
Quanto al secondo punto, la distribuzione del reddito, la situazione sembrerebbe abbastanza chiara: il reddito dovrebbe appartenere a chi ha prodotto la ricchezza consumabile. Ma la questione non è così semplice come può sembrare, poiché si devono mantenere persone che producono nulla come i bambini e gli anziani. Inoltre devono essere pagati i costi della vita in collettività e i costi dei servizi collettivi di cui beneficiamo nella nostra attività produttiva senza esserne consapevoli: cercate ad esempio di collegarvi a Internet nella savana africana o di trovarvi le pile di cui avete bisogno per il vostro computer portatile. Infine nessuna attività produttiva è il frutto dello sforzo di un solo uomo: quando il cacciatore uccide il capriolo, il risultato del suo tiro è dovuto alla precisione del fucile o alla sua abilità? Al capitale o al lavoro? La distribuzione del reddito non è mai precisa e spesso è il frutto di un rapporto di forza o di consuetudini istituzionali. Gli economisti amerebbero che la distribuzione fosse scientifica o razionale. In realtà è il risultato di lotte, di consensi, di regole; insomma è lo specchio in cui la società giudica ognuno e gli attribuisce ciò che le sembra giusto e in cui ognuno misura ciò che vale per la società. Non stupiamoci quindi di constatare l'alto grado di conflittualità che caratterizza la distribuzione del reddito.
In genere si distinguono redditi di attività (prodotti da un lavoro), redditi finanziari (prodotti da un capitale investito o prestato) e redditi da trasferimento (prodotti dalla redistribuzione).
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Reddito nazionale:
Aggregato di contabilità nazionale che misura l'insieme dei redditi distribuibili frutto dell'attività produttiva o dei trasferimenti dall'estero.
La presenza dei trasferimenti dall'estero spiega perché si parla di reddito nazionale e non di reddito interno, cosa che in apparenza sarebbe più giusta, poiché si calcola il Prodotto interno e non il Prodotto nazionale (almeno in Europa). Si parla di reddito nazionale perché vi si considerano i redditi provenienti dall'estero, mentre vengono detratti i redditi versati all'estero. Si tratta inoltre del reddito distribuibile, cioè senza gli ammortamenti (per non correre il rischio di impoverirsi bisogna rinnovare il capitale tecnico consumato od obsoleto). Ma parlare di redditi distribuibili non implica che questi siano effettivamente distribuiti: le società, ad esempio, possono accantonare una parte dei loro profitti. Queste riserve fanno comunque parte del reddito nazionale: comportano un arricchimento del patrimonio dei proprietari di queste società e, a termine, c'è la possibilità di vendere e spendere i plusvalori corrispondenti.
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Rilancio:
Politica economica che mira ad aumentare il potere di acquisto nell'economia per gonfiare una domanda ritenuta insufficiente.
Solo lo stato è in grado di compiere un aumento del potere di acquisto, poiché è l'unico agente economico che può aumentare le spese o ridurre le entrate in modo sufficientemente grande per esercitare un'influenza "macroeconomica", cioè sull'intero sistema economico. Inoltre lo stato può anche permettersi di affrontare in modo permanente un disavanzo di bilancio perché ha sempre la possibilità di aumentare ulteriormente le imposte.
La politica economica di rilancio si basa quindi su un'analisi di tipo "keynesiano" del ruolo dello stato, che è incaricato di regolarizzare l'attività economica, in altre parole esercita una responsabilità attiva. L'analisi liberista, al contrario, insiste sul fatto che questo rilancio può avere solo effetti di disturbo. Lo stato, stimolando l'attività, rischia a breve termine di stimolare l'inflazione più della crescita. Inoltre la prospettiva di imposte future legate al finanziamento del debito pubblico può bloccare il rilancio. Per i liberisti quindi il solo vero "rilancio" consiste nel liberare le forze di mercato, bloccate dall'interventismo pubblico con le sue imposte, le sue norme sociali, la sua burocrazia.
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Risparmio:
La parte del reddito che non è destinata al consumo, al pagamento degli interessi o delle imposte.
Questa definizione molto estensiva comprende anche i fondi depositati sul conto corrente o in cassa. Il risparmio comprende anche le somme di denaro destinate a rimborsare un prestito precedente: poiché non si tratta di consumo, questi capitali sono considerati come risparmio. Infine il risparmio non riguarda le sole famiglie. Un'impresa risparmia quando ottiene un risultato lordo (prima degli ammortamenti e accantonamenti) superiore all'ammontare delle imposte sugli utili e sui dividendi versati.
Si chiama risparmio finanziario la parte del risparmio che viene investita e che produce un reddito (dividendi o interessi). Il risparmio finanziario esclude quindi i rimborsi di prestiti e le giacenze di cassa.
Da un punto di vista generale la produzione genera un reddito. Se una parte di quest'ultimo - il risparmio - non è spesa nasce un problema: la spesa per consumo non basta a comprare tutto ciò che è stato prodotto. Per ristabilire l'equilibrio tra l'offerta (la produzione) e la domanda (il consumo) deve esserci l'acquisto di beni di investimento (abitazioni, macchine, edifici) e questi acquisti devono avere un valore equivalente al risparmio realizzato. L'uguaglianza del risparmio e dell'investimento è quindi una condizione di equilibrio del sistema produttivo nel suo insieme. Se non vi fosse questa uguaglianza, una parte della produzione non troverebbe acquirenti, gli stock si accumulerebbero e alcuni produttori realizzerebbero un "investimento" forzato (gli stock di prodotti invenduti sono assimilati a un investimento). Ciò spingerebbe gli imprenditori a ridurre la produzione, per smaltire le scorte. Si vede quindi che in ultima analisi un risparmio superiore all'investimento comporta un rallentamento della produttività. La situazione contraria (risparmio inferiore all'investimento) provoca effetti opposti, e stimola l'attività (ma anche l'aumento dei prezzi). Il problema è che in un'economia di mercato, le decisioni sul risparmio e sugli investimenti sono prese da milioni di operatori diversi. Nulla permette di affermare che queste decisioni siano spontaneamente compatibili. È una delle ragioni principali per cui l'attività, in questo tipo di economia, può essere soggetta a oscillazioni.
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Ristrutturazione:
Modifica del perimetro di attività dell'impresa, diretta in genere a eliminare le attività meno redditizie, a raggruppare diverse attività per beneficiare di economie di scala o, più raramente, a sviluppare attività promettenti.
Analogamente al termine "terza età", preferito a quello di "vecchiaia", così si preferisce utilizzare il termine ristrutturazione a quello di "riduzione di attività" o di "licenziamento". In effetti le due cose vanno spesso di pari passo: sopprimendo le attività meno redditizie, si sopprimono anche posti di lavoro. Ma non è necessariamente così e in teoria si possono concepire ristrutturazioni nelle quali l'impresa aumenta le sue attività anziché ridurle.
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Rivoluzione industriale:
Termine che indica lo sconvolgimento tecnico del Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, quando la comparsa dell'energia meccanica (macchina a vapore, forni, ecc. ) permise lo sviluppo delle tecniche di produzione industriali con forti aumenti di produttività.
Anche se si può sottolineare lo sviluppo precoce di alcune tecniche produttive in Francia (la macchina a vapore di Denis Papin, la chiatta a vapore di Jouffroy d'Abbans) o in Olanda (nel settore tessile), tutti gli storici sono concordi nel riconoscere che il luogo che ha dato i natali alla rivoluzione industriale è l'Inghilterra. Il problema però è stabilire le date precise e le ragioni di questo decollo industriale. Per quanto riguarda le date, senza risalire al Medioevo (nel corso del quale si sviluppò quella alcuni chiamano la "prima rivoluzione industriale": invenzione del collare da tiro, diffusione dei mulini a vento), le invenzioni che hanno permesso la rivoluzione industriale sono in alcuni casi molto anteriori alla loro adozione concreta. E senza un'agricoltura efficiente non avremmo potuto avere lo spostamento di una parte della manodopera dall'agricoltura all'industria. Per questo motivo gli storici anticipano la data della rivoluzione industriale dal 1780 al 1730. Quanto alle ragioni, queste rimangono ancora oscure. Da un punto di vista logico, la rivoluzione industriale avrebbe dovuto nascere in Olanda, nelle città italiane o in Francia, dove il commercio era più attivo, i capitali più disponibili e le reti di approvvigionamento più efficienti. All'origine di questo evento ci potrebbe essere la conseguenza del puritanesimo (tesi di Max Weber), quella della rivoluzione agricola che ha liberato una manodopera a buon mercato (tesi di Marx), il ruolo attivo svolto dal commercio "avventuroso" grazie al dominio britannico sui mari (tesi di Braudel) o, ancora, il risultato della "fiducia", cioè l'assenza di una burocrazia centralizzatrice (tesi di Peyrefitte).
Sull'esempio di Schumpeter, molti ritengono che le nostre società industriali siano periodicamente investite da ondate di innovazioni prodotte da un nucleo centrale di cambiamenti tecnici. Si parla così della prima rivoluzione industriale, prodotta dal vapore, dal settore tessile e dalla siderurgia. Poi è stata la volta della seconda rivoluzione industriale, un secolo e mezzo più tardi, con la chimica, l'automobile e l'elettricità. Oggi saremmo sul punto di inaugurare la terza rivoluzione industriale, spinta dall'informatica, dalle biotecnologie e dai materiali compositi. Può darsi che sia così, ma questa visione tecnologica delle cose dà troppo spazio ai cambiamenti tecnici e ignora l'importanza dei cambiamenti sociali e culturali: perché non parlare allora di una rivoluzione dello stato assistenziale? I procedimenti produttivi svolgono indubbiamente un ruolo fondamentale nelle nostre società. Ma il modo in cui questi cambiamenti tecnici sono inquadrati, gestiti, o assorbiti dalle istituzioni, dalle norme collettive, dai rapporti di forza ha un ruolo altrettanto importante.
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Rivoluzione verde:
Termine coniato con riferimento alla "rivoluzione industriale" per designare la creazione e la diffusione di cereali (riso) ad alto rendimento all'inizio degli anni Ottanta in India e successivamente in tutti i paesi dell'Asia orientale caratterizzati da un clima monsonico.
In ciò si è visto la fine della fame, la possibilità di affrontare la crescita demografica delle nazioni più recenti. Di fatto l'India è riuscita a diventare un importante esportatore di riso, mentre in precedenza ne importava quantità crescenti. Ma si è dimenticato che questa rivoluzione tecnica era anche una rivoluzione sociale: questi cereali ad alto rendimento necessitano infatti di un'irrigazione particolare, di un apporto notevole di fertilizzanti e di prodotti fitosanitari. Il rendimento del riso è raddoppiato in India, ma allo stesso tempo i piccoli proprietari si sono proletarizzati. Inoltre questi nuovi cereali hanno potuto acclimatarsi solo in luoghi dove vi è molta acqua a disposizione e un adeguato supporto tecnico: per l'Africa la rivoluzione verde rimane ancora un sogno.
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