Povertà e sviluppo

Francesco Carema

 

La povertà non è il frutto naturale della miseria e tanto meno lo è dell'indolenza e della mancanza di responsabilità di cui si favoleggia.

L'effetto più duraturo del colonialismo non sta tanto nello sfruttamento dei colonizzati quanto nel fatto che le potenze coloniali hanno coscientemente (o inconsapevolmente) tenuto basso il livello dei Paesi colonizzati facendo sì che le differenze esistenti diventassero sempre più grandi.

Il primo mito che la discussione sullo sviluppo nasconde in sé, è quello del "mondo unitario", secondo il quale il mondo sarebbe un complesso di luoghi interdipendenti in cui quel che accade in un angolo tocca anche gli angoli più remoti. Esiste una certa interdipendenza economica, esistono legami politici, esiste un qualche scambio culturale ma fino ad oggi non è accaduto nulla che rendesse queste relazioni irreversibili.

Un secondo mito deve esser spazzato via: quello del nuovo ordine economico internazionale. Sarebbe desiderabile trovare un sistema economico internazionale che garantisse ai poveri quelle chances di vita per le quali gli uomini dei Paesi dell'OCSE hanno così duramente lottato. Ma al presente è un'illusione credere che vi possa essere interesse reciproco ed indiscutibile alla creazione di un ordine economico internazionale. La maggior parte delle materie prime o vengono recuperate nei Paesi sviluppati o provengono da candidati al Club dei ricchi, oppure possono essere sostituite.

La capacità dei Paesi in via di sviluppo d'esercitare pressioni sarà per molto tempo ancora limitata. Essi non hanno reali alleati nell'area dei Paesi sviluppati. Anche il mito della solidarietà all'interno del gruppo dei 77 deve esser spazzato via. Quand'anche un Paese di questi riuscisse ad entrare nel club dei ricchi si limiterà a tranquillizzare la propria coscienza con qualche sussidio in favore dei propri ex fratelli.

Il quarto mito che dobbiamo liquidare è l'idea che i Paesi poveri si sviluppino fino a raggiungere il livello dei ricchi affinché le ingiustizie del mondo spariscano. Nel 1970 il rapporto fra il reddito pro-capite nel mondo sviluppato e quello nel mondo in via di sviluppo era di 13 a 1. Per il 2020 il miglioramento previsto è di 13 a 1,2. Gli aiuti allo sviluppo vanno a vantaggio solo di una ristretta fascia di privilegiati nei Paesi del terzo mondo, e non filtrano verso il basso come si è invano sperato.

Anche lo sviluppo continuo e stabile è un falso mito. Non è la mancanza di modernità a procurare disordine ma il tentativo di introdurla. Non solo la modernizzazione sul piano sociale ed economico provoca instabilità politica ma la misura stessa dell'instabilità dipende dal ritmo della modernizzazione.

Ad oggi nessun Paese del terzo mondo ha trovato un proprio sentiero di sviluppo che sia al contempo efficace e stabile. Questa demitizzazione della politica dello sviluppo sembra lasciare sul campo solo un mucchio di macerie. È un dovere morale di tutti gli uomini fare quanto possibile perchè ogni altro uomo possa vivere una vita almeno decente. Non importa che il dovere morale venga fondato in termini religiosi o umanitari o altro.

E se pure il mondo unitario non esiste (ancora) se pure non sono previste sanzioni per chi viene meno al suo dovere, l'idea di una società di tutti uomini è talmente ovvia che non è necessario rifarsi ancora una volta alla "concezione di una storia universale virtualmente cosmopolita" di Kant. L'affermazione del diritto fondamentale non è poi così semplice. Se lo sviluppo è una medicina inefficace e il filtraggio non funziona rimane solo l'appello alle esigenze umane fondamentali che la Banca Mondiale ha anche quantificato. Ma nei Paesi riceventi non questione solo di ottenere i mezzi di sostentamento ma di poter contare su consolidate strutture sociali. L'India ha avuto per alcuni anni eccedenze di riso e contemporaneamente morti in massa perchè non si trovava il modo di far arrivare il riso agli affamati.

La combinazione di mezzi finanziari e di modificazioni sociali indica la direzione in cui ci si deve muovere, se si vogliono soddisfare i bisogni umani fondamentali. Gli uni e le altre richiedono comportamenti multilaterali.

Rimane ancora un mito da spazzare via: quello dell'universalità della modernizzazione. Esiste un qualcosa, come uno spirito del mondo, che marcia attraverso il tempo e si impone a volenti e nolenti. Vi sono eventi nel mondo, eventi come la reazione islamica alla imminente ondata della modernizzazione, che ci fanno pensare che non sia per nulla giustificato dare per scontate una industrializzazione e una modernizzazione di dimensioni mondiali e ancor meno scontata è l'ipotesi che si debba seguire il modello del Nord del mondo. È importante che ogni tentativo di penetrare nei processi di sviluppo di altri Paesi rispecchi la loro peculiarità culturale e anzi la favorisca. Anche così si risponde al dilemma fra centralizzazione e decentralizzazione. La distruzione degli habitat naturali, il degrado ambientale, o il ricorso a tecnologie che portano all'uniformità genetica, rendono sempre più incerto il futuro di tante specie. Quando si è gridato al miracolo per le nuove varietà ad alto rendimento, (che hanno contribuito a colmare i granai, della fascia sociale abbiente, di molti Paesi in via di sviluppo) non si sono soppesate le conseguenze dovute all'eliminazione di tante varietà autoctone.

Senza biodiversità, basta una qualsiasi malattia delle piante, un qualunque morbo animale, per affamare un intero Paese, così come accadde in Irlanda nel secolo scorso, quando il raccolto di patate andò distrutto. In india, oggi, tre quarti dell'area coltivata a riso, si avvale di dieci varietà; una volta ne crescevano trentamila tipi diversi. In Europa con la selezione di poche razze ad uso industriale, nel giro di un secolo è scomparsa la metà di quelle di animali domestici da allevamento, e un terzo di quel che resta rischia di estinguersi nei prossimi vent'anni. Le moderne biotecnologie possono molto, ma non riescono ad assicurare la ricostruzione della diversità genetica delle risorse a nostra disposizione. All'uomo non resta altra scelta che arrestare questa erosione proteggendo le varietà. Se non ne sarà capace, allora la Terra non solo non sarà in grado di nutrire i suoi otto miliardi di abitanti previsti nel 2025, ma la vita stessa del Pianeta potrebbe subire concrete minacce.

La biodiversità è l'insieme dei geni, delle popolazioni, delle specie, delle comunità, degli ecosistemi che nei vari livelli di organizzazione formano il vasto assortimento della vita. I tassonomisti cercano di racchiudere in un libro contabile la cosiddetta "economia della natura" classificando e numerando tutte le specie viventi. Sono arrivati a valutare, per estrapolazione, sparsi tra gli oceani, le terre emerse e l'atmosfera, 100 milioni circa di specie viventi. Ci sono voluti tre miliardi di anni di evoluzione biologica e dodicimila anni di agricoltura per sviluppare le migliaia di piante commestibili e di specie animali che ci assicurano la sopravvivenza, e solo dall'inizio del secolo tre quarti della diversità genetica delle principali colture è scomparso. Il patrimonio della diversità biologica non si cerca solo nelle terre vergini. Anzi, se si pensa al materiale necessario per migliorare il settore alimentare, e quello agricolo in genere, la natura selvaggia vale quanto le aree coltivate con pratiche tradizionali, dove i contadini hanno saputo sfruttare le potenzialità genetiche con le artiche arti del tempo e della selezione intelligente. Non solo gli ormai noti Yanomami e i Kayapo dell'Amazzonia brasiliana, che vivono secondo un modello che permette di sopravvivere a loro e alla foresta che li ospita, ma anche lo popolazioni che hanno abitato le terre meno fertili del Nord e del Sud del mondo dove hanno coltivato varietà locali resistenti alle intemperie e ai parassiti, ben prima dell'avvento della chimica.

L'agricoltura intensiva e industrializzata, che solo con certi tipi di sementi può garantire alte produzioni, ha aggiunto all'estinzione delle specie spontanee quella delle varietà contadine, che proprio perchè sono parenti delle coltivazioni commercialmente più importanti potrebbero servire come materiale da incrocio. Se si parla di erosione genetica, di perdita dell'informazione, di tattiche per arrestarla, ci si potrebbe chiedere se la più efficace è quella di salvare le foreste tropicali e tutto ciò che contengono per assicurarsi un futuro ricco di novità e imprevisti, o trovare il modo di conservare il frutto degli sforzi umani, e quindi le varietà tradizionali ormai rare, sicuramente più malleabili e utili per l'immediato. La risposta è entrambe, sebbene non sia ovvia.

Negli ultimi decenni il dibattito su come e cosa proteggere è stato acceso e gli attori, numerosi, sono organizzazioni internazionali, agenzie delle Nazioni Unite, governi di vari Paesi. Il problema della conservazione del patrimonio biologico già esistente e utilizzato, ovvero quello delle varietà agricole tradizionali, è però più complesso. Il volume di affari rappresentato dalla possibilità di ottenere sementi perfette, magari brevettabili, e quindi con nome e attestato di proprietà, inserendo nei genotipi delle varietà commerciali i geni di quelle coltivate tradizionalmente, è notevole, e in futuro, se si prevede la necessità di trovare piante meno dipendenti da apporti chimici esterni e adattabili ad ogni tipo di terreno, aumenterà ancora.

A chi appartiene il patrimonio genetico? Chi può vantarne i diritti di proprietà? Il futuro può essere molto diverso a seconda di chi gestisce le risorse e, in particolare, le banche dei semi. L'esempio della rivoluzione verde, durante la quale con lo scopo di risolvere il problema della sottoalimentazione sono state diffuse le sementi ibride, poco adatte ai microclimi dei Paesi del Sud, ha fatto scattare l'allarme. Esaminando gli sviluppi storici della biologia molecolare si può vedere come il suo futuro sia sempre stato imprevedibile. Vi sono stati progressi nati da lunghe ricerche ben pianificate, ma il caso ha avuto un ruolo non secondario e ciò rende difficile la previsione degli sviluppi ulteriori. E' possibile fare previsioni generali (ad esempio che si arriverà ad una maggiore comprensione del processo fondamentale di regolazione e controllo dei geni) ma quando si fanno previsioni specifiche e si ha la pretesa di dare ad esse scadenze ben determinate si corre il rischio di commettere grossi errori.

Ogni prodotto della scienza e tecnologia può essere utilizzato per portare benefici o per nuocere all'umanità, ma anche se si è animati da buone intenzioni, risultati di segno opposto spesso si mescolano (come abbiamo visto nel caso della rivoluzione verde). Con lo sviluppo biotecnologie si potrebbe arrivare ad ottenere, tra le specie di interesse alimentare, varietà con ottime rese, resistenti alle fitopatie (abbassando così l'impatto ambientale di un'agricoltura sostenuta da fitofarmaci), resistenti al gelo, alla siccità, agli stress idrici o salini. Si potrebbe aumentare il loro contenuto proteico o vitaminico (prospettiva interessante per i Paesi in cui l'alimentazione è scarsa) e la lotta integrata ai parassiti potrebbe essere una delle soluzioni tecnologiche per permettere un uso limitato di pesticidi attraverso l'impiego bilanciato di metodi di difesa biologici, fisici e agronomici oltre che chimici.

Nei Paesi del terzo mondo lo sviluppo agricolo potrebbe essere visto in chiave della sua capacità di generare nuove occasioni di lavoro, nel rispetto delle risorse ambientali, e non più come rivolto esclusivamente ad aumentare la produzione per l'esportazione. Potrebbe essere inteso come via per affrontare alcuni dei problemi tipici sviluppando programmi di sicurezza alimentare a livello nazionale; sicurezza ecologica per la protezione ambientale e della variabilità genetica animale e vegetale; sicurezza sociale per fornire ai poveri delle aree urbane e rurali, attraverso il lavoro e non lo sfruttamento, i mezzi necessari a procurarsi l'alimentazione di cui abbisognano; sicurezza nella disponibilità di acqua sia per usi domestici che per l'irrigazione; stabilizzazione della popolazione.

Nella genesi della tecnologia, dal dato scientifico, si potrebbe stabilire una serie iterativa di aggiustamenti mirati ad evitare sprechi di energia e di materie prime e a limitare l'impatto dannoso con gli altri sottoinsieme viventi e non con i quali la tecnologia può interagire si potrebbe arrivare ad un utilizzo ottimale delle risorse ambientali, ad un decentramento dei poli produttivi e dei servizi, a maggiori occasioni di lavoro qualificato e meno ripetitivo, ad un maggior rispetto per l'ambiente, per la salute degli operatori e dei consumatori. Dipende dalle politiche di sviluppo economico e sociale dei Paesi industrializzati e delle loro "colonie".