Multinazionali versus Stati: la guerra della Globalizzazione

a cura di Filippo Lubrano



Se è opinione diffusa tra i critici individuare le radici della globalizzazione addirittura nel '500, a seguito della scoperta dell'America, si converrà altrettanto che negli ultimi secoli la rivoluzione industriale prima, quella elettrica poi, e per finire quella informatica, hanno contribuito ad una progressiva accelerazione del processo.
Proprio l'ultima, quella informatica, ha portato ad un'unificazione veramente "globale" dei mercati, trascinando con sé inevitabilmente, con il settore economico, quello sociale. Seppur una vera e propria cultura globale, come auspicherebbero le multinazionali, un mondo in cui tutti mangino hamburgers da Mc Donald's, indossino scarpe Nike, vestano capi Benetton lavorati ben lontano dalla sede centrale trevigiana in luoghi quali Indonesia, Taiwan, Hong-Kong, dove la manodopera costa pochissimo, sia ancora ben lontana dalla realtà, è altresì vero che in molti cominciano a temere la perdita delle identità nazionali, delle culture locali. Ma, ribadiamo, per adesso questo rimane un sogno nel cassetto di General Motors, Coca Cola & C., e di questo le multinazionali sono comunque coscienti, visto che pilastro della loro filosofia di mercato è "Think global", ma anche "act local".

Parlando di General Motors, non si può non fare riferimento a come sia completamente tramontato il sistema fordista di inizio '900, che aveva ispirato le fantasie di diversi autori, come Aldous Huxley, che nel suo "Mondo Nuovo" aveva immaginato un'esasperazione di questo metodo di produzione sino alla creazione di una società in cui la vita umana era esclusivamente sacrificata sull'altare della mera produzione, una società in cui non esisteva di certo la tristezza, ma anche che non conosceva assolutamente il significato di felicità, né tantomeno di libertà. Oramai, però, questo sistema è stato completamente rimpiazzato dal Toyotismo di Taiichi Ohno, in cui la macchina non è più "imposta" all'automobilista, ma è costruita attorno a questo ("Designed around you", per citare un'efficace frase dello spot di una casa automobilistica giapponese). Ma il metodo giapponese è poi così agli antipodi di quello di Henry Ford? I critici sono divisi in due blocchi sulla questione: c'è chi ritiene che rappresenti una rottura radicale col modello precedente, e chi invece lo considera un'estrema razionalizzazione ed esasperazione del fordismo, fatto che giustificherebbe il debito di riconoscenza verso Ford ammesso dallo stesso Ohno. Per il momento ci limitiamo a pronosticare che, se e quando tutti gli automobilisti desidereranno la stessa macchina, la globalizzazione avrà raggiunto il suo apice, e il toyotismo si sarà dunque evoluto, o involuto, spontaneamente in fordismo.

Nell'omologazione mondiale un ruolo da protagonista lo giocherà certamente l'economia, in un mondo in cui, grazie anche ad Internet, vi è un'economia mondiale senza uno stato mondiale, e dove anzi proprio quest'ultimo è quasi privato di qualsiasi potere, incapace di controllare la grande rete, impotente davanti alla delocalizzazione del lavoro sviluppata dalle multinazionali. Ma se la globalizzazione ha bisogno di un ammodernamento delle vie di comunicazione per potersi sviluppare pienamente, tra queste la "strada maestra" è sicuramente il Web, la ragnatela a cui tutti possono contribuire ad aggiungere fili, e in cui tutti possono sfruttare quelli già tessuti da altri. La rete, in cui facilmente si possono far perdere le proprie tracce, è, in un certo senso, parallela alle multinazionali: lo Stato non riesce ad esercitare un controllo su nessuna delle due, perdendo così il potere e l'autoreferenzialità che lo avevano caratterizzato nell'800.

In questi "giochi" apparentemente "senza frontiere", il contrasto tra paesi ricchi e poveri aumenta invece sempre più. Gia nell'89 il 20% più ricco della popolazione possedeva l'82% del PIL mondiale, mentre il 20% più povero appena l'1,4%: questa tendenza è destinata a continuare, il contrasto ad inasprirsi. Bisogna però considerare, ulteriore componente di questo complesso quadro, anche il fatto che, secondo recenti studi, almeno in termini di felicità, sono i paesi sottosviluppati che sembrano trarre il profitto maggiore: infatti, anche a piccoli incrementi di guadagno, corrisponde, per i lavoratori più poveri, un aumento di felicità piuttosto consistente, mentre ad aumenti di stipendi anche più ragguardevoli , negli stati in cui la globalizzazione porta maggiori benefici in termini economici, non corrispondono significativi aumenti di felicità, perché la gratificazione in questi casi viene soprattutto dal salire nella scala sociale, mentre nei paesi più poveri guadagnare di più significa vivere, o meglio, sopravvivere, in un modo più tranquillo.

Tra il ristretto novero dei dati che non danno adito ad interpretazione contrastanti, vi è quello che le multinazionali non incrementano l'occupazione: il rapporto tra produzione e occupazione fornita da queste è 1 a 100: il 30% della produzione mondiale da loro garantita è mal compensata dallo 0,30 della forza-lavoro del globo che vi lavora.

La globalizzazione è, in definitiva , un processo molto complesso, in cui gli stessi dati, di per sé oggettivi, sono luoghi di discussione aperta a seconda dell'interpretazione che se ne fa di essi. Un'analisi limpida ed esaustiva è perciò assai difficile da compiere , se non impossibile, dato che si tratta di un processo storico ancora in piena fase di sviluppo.